L'espansione del commercio mondiale negli ultimi decenni segna l'apparente trionfo del Capitale e ne sospinge le contraddizioni verso il punto di rottura

 

1- L'evoluzione del commercio estero

Ci occupiamo in questo articolo di continuare l'indagine sul corso del capitalismo relativamente all'evoluzione del commercio mondiale. Quando fu pubblicato l'ultimo lavoro di partito nel primo numero de Il programma comunista del 2008 (1), si erano già verificati i primi segnali della crisi di sovrapproduzione con l'esplosione dei mutui subprime. Allora non fu possibile integrare i dati dell'attualità – non ancora consolidati in statistiche - nel lavoro che considerava il lungo periodo dalla fine del secondo conflitto imperialistico al 2005; lavoro che a sua volta completava uno studio precedente su investimenti e produzione industriale, in continuità, nel metodo e nei contenuti,  con lo studio dell'intero corso storico del capitalismo intrapreso dalle precedenti generazioni di nostri militanti. Il lungo articolo del 2008 conferma la capacità del metodo marxista di integrare la dinamica di ogni fatto economico in un quadro teorico organico nel quale  i dati statistici confermano le tendenze di lungo periodo previste dal marxismo. Non possiamo che rimandare alla lettura di quell'articolo per la completezza con cui tratta la questione, tanto dal punto di vista teorico che da quello storico ed economico,  ulteriore conferma dell'inevitabile alternativa storica tra guerra e rivoluzione proletaria. Ci limitiamo qui a riproporre, sintetizzandoli, i principali passaggi di quel lavoro, assumendoli come base per l'inquadramento dell'evoluzione recente del corso capitalistico, oltre che per l'aggiornamento statistico. Il compito non è di poco conto, considerando che dal 2008 la sovrapproduzione di merci e capitali ha precipitato il capitalismo mondiale in una crisi dalla quale esso stenta a riprendersi, ha inasprito i contrasti tra le potenze e logorato le basi della "pace sociale" anche nelle metropoli imperialiste.

Il mercato mondiale all'origine dello sviluppo capitalistico e prodotto del suo completamento

L'evoluzione del commercio mondiale si lega strettamente a quella della produzione, sia perché produzione e circolazione delle merci si uniscono indissolubilmente nel movimento complessivo del capitale (il plusvalore si realizza solo nella circolazione), sia perché il mercato è a sua volta risultato della divisione del lavoro, del progresso tecnico, della concentrazione produttiva, del grado di sviluppo della produzione stessa. Nella fase iniziale dello sviluppo capitalistico, la concorrenza demolisce le barriere e i limiti posti dai vecchi modi di produzione, e nella sua ulteriore evoluzione spinge alla concentrazione e al monopolio, alla centralizzazione del capitale, al dominio del capitale finanziario e al totale assoggettamento dello Stato ai suoi interessi (2).  Più alto il grado di sviluppo, maggiore sarà la necessità del capitale di rompere le barriere del mercato nazionale portando la concorrenza sui mercati esteri (cfr. Lenin, L'imperialismo), alla ricerca di mercati di sbocco per le proprie merci, di forza lavoro da impiegare in grandi masse a tassi di sfruttamento più elevati, di fonti di materie prime ed energetiche (3). La competizione per il controllo e l'accaparramento delle condizioni per continuare la riproduzione su scala allargata coinvolge direttamente gli Stati nell'azione diplomatica e politico-militare. La dinamica economica, già di per sé distruttiva di vecchi modi di produzione, trapassa in competizione politico-militare fino al conflitto aperto,  giusta  la previsione di Marx che gli effetti distruttivi della libera concorrenza “si riproducono in proporzioni più gigantesche sul mercato mondiale” (4).

La creazione del mercato mondiale come controtendenza alla caduta del saggio del profitto

La crescente concentrazione produttiva e l'aumento del rapporto tra parte costante e parte variabile del capitale abbassa gli indici di incremento della produzione che a loro volta sono l'effetto della tendenza storica del saggio medio del profitto a cadere. Diventa allora interesse vitale del capitale ricorrere al mercato mondiale per “rendere più a buon mercato sia gli elementi del capitale costante, sia i mezzi di sussistenza necessari in cui si converte il capitale variabile”, così da elevare il saggio del profitto e il saggio del plusvalore. Altro fattore in controtendenza alla caduta del saggio del profitto è costituito dal divario di produttività del lavoro tra paesi capitalisticamente sviluppati e paesi arretrati (5) che consente ai primi  di conquistare i mercati esteri potendo praticare prezzi inferiori, e comunque più vantaggiosi rispetto a quelli praticati sul mercato interno o dei diretti concorrenti. La maggiore produttività consente di sfornare merci con contenuto di valore inferiore a quello prodotto da un paese meno sviluppato. La differenza tra il valore medio presente nelle merci (media tra i più produttivi e i meno) e il prezzo a cui vengono vendute - che è appunto quello che esprime il valore medio sociale per la loro produzione - consente al paese più produttivo di vendere le proprie merci al di sopra del  loro valore, appropriandosi di un sovraprofitto.

Mondializzazione della ricchezza e della miseria capitalistiche vanno di pari passo

L'apertura dei mercati mondiali, vuoi per lo sfruttamento della manodopera estera e la competizione delle merci straniere (6), vuoi per la pressione dei flussi migratori, determina  un livellamento al ribasso dei salari e la generalizzazione di forme di intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro. Se la prima legge della concorrenza è di ridurre ogni merce “al minimo del suo costo di produzione” (Marx), ciò vale in primo luogo per la merce forza-lavoro, mentre per ogni altra merce – specie se non entra direttamente nel consumo operaio – ciascun capitalismo nazionale tende a diventare protezionista e patriottico.

Nel tempo si creano i presupposti per il livellamento dei differenziali di produttività tra aree e per la scomparsa degli squilibri che avevano agito da controtendenza – un processo di cui si vede un segnale nel rientro di alcune produzioni negli Stati Uniti, e più di recente in Germania e in Italia. Per quanto il mercato mondiale agisca dunque da potente freno alla caduta del saggio del profitto, esso spinge ovunque all'innalzamento della produttività del lavoro, alla generalizzazione dei metodi di produzione più moderni,  all'aumento della composizione organica media e crea quindi le condizioni  per una sovrapproduzione a scala planetaria che prepara crisi sempre più devastanti. D'altra parte questa stessa dinamica, distruggendo costantemente i vecchi rapporti di produzione comporta l'espropriazione di masse crescenti, dapprima dei produttori agricoli diretti, poi delle piccole e medie aziende capitalistiche non in grado di reggere la concorrenza. La ricchezza si concentra in una cerchia sempre più ristretta di privilegiati, e all'altro polo aumenta grandemente il numero di quanti, espropriati e privi di riserve, sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere. Nel vortice di produzione/distruzione il capitale rafforza il suo dominio sull'intero pianeta, ma  rafforza anche il  suo nemico storico, il proletariato,  nel senso che“l'opposizione tra le due classi si delineerà più nettamente ancora” (Marx) (7).

L'espansione della produzione e della ricchezza in forma capitalistica procede dunque di pari passo con il generalizzarsi della miseria, della precarietà, dello sfruttamento del lavoro vivo di cui il capitale deve nutrirsi in proporzioni crescenti per alimentare il processo di accumulazione. Ma questa aumentata ricchezza, da un lato soppianta le forme economiche e le risorse che assicuravano l'esistenza delle popolazioni appena entrate pienamente nella sfera del mercato capitalistico riducendole alla condizione di nullatenenti, dall'altro si presenta in forme estranee alle reali necessità dell'essere umano, induce bisogni fasulli, avvelena la terra e i suoi frutti, distrugge l'ambiente, stravolge il clima del pianeta. E' il risultato – ricordava sempre il nostro lavoro del 2008 - della crescente produzione minerale, del tutto indifferente ed estranea alle reali esigenze dell'umanità e del suo ambiente.

2- Lo sviluppo del mercato mondiale nel secondo dopoguerra, dall'espansione alla decrescenza

Il rinnovato slancio impresso dal secondo conflitto alle economie delle vecchie potenze imperialiste – maggiormente a quelle che, sconfitte, avevano subito le più grandi distruzioni – ha generato una ancora più ampia espansione del commercio internazionale,  riflesso dello sviluppo del capitale produttivo (8).  La crisi di interguerra aveva provocato un crollo degli scambi internazionali di una tale profondità che ancora  nel 1950 non erano stati superati i volumi del 1929, ed era esigenza del capitalismo americano, la cui struttura produttiva e finanziaria era uscita enormemente potenziata dalla guerra, promuovere lo smantellamento di tutte le restrizioni e le barriere protezionistiche che ponevano limiti alla circolazione internazionale dei capitali e delle merci. Le potenze della vecchia vecchia Europa subivano l'invasione di  merci e capitali americani veicolati da prestiti e aiuti in dollari; nel contempo, il processo di decolonizzazione le privava del dominio diretto sui territori extraeuropei, costringendole ad adeguarsi ai metodi di dominazione imposti dal nuovo padrone.  A sua volta, l'apparente monolitismo dell'area sotto influenza sovietica era eroso del maggiore dinamismo economico del “mondo libero”  fino all'esito inevitabile della dissoluzione dell'URSS, con il crollo degli argini a difesa della produzione interna dalla concorrenza internazionale. Il nuovo contesto così scaturito era funzionale alla penetrazione finanziaria e commerciale americana e dei suoi concorrenti/alleati, non certo sulla base di rapporti paritari, ma, a seconda della congiuntura economica e dei mutevoli rapporti di forza, in un attento dosaggio di protezionismo e liberismo favorevole agli interessi  del grande capitale a scapito del piccolo, dello Stato più potente a scapito del più debole.

Malgrado ciò l'espansione dell'export internazionale, che dal 1950 al 1974 marciava al ritmo medio annuo del 8.43%, superiore a quello della produzione industriale mondiale nello stesso periodo (7,14%), dopo  la crisi produttiva del 1975-75 scese al 5.90% fino al 1980 e al 5.29% dal 1980 al 2008, in parallelo alla discesa del ritmo annuo della produzione industriale mondiale. La decrescenza risulta più marcata per i paesi del G6 che scendono dal 9.57 % (1949-80) al 3.96% (1980-2008) .

Nel lavoro del 2008 si osservava come la data critica del 1975 non valesse per il commercio estero, essendo la caduta dell'export  limitata a quel solo anno e circoscritta  a Germania e Giappone, i paesi dallo sviluppo più sostenuto del dopoguerra e maggiormente orientati all'esportazione. L'anno di svolta fu piuttosto il 1980, quando la caduta dell'export coinvolse pressoché tutti i principali concorrenti e durò da un minimo di tre anni – con l'eccezione del Giappone, dove l'export si contrasse per due anni non consecutivi – a un massimo di cinque per Germania e Italia. Lungi dall'essere una dimostrazione di forza dei mercati lo sfasamento fra caduta della produzione e caduta dell'export è ascrivibile all'elasticità con la quale interagiscono fra loro la produzione e il  mercato, proprio di ogni tempo del capitale.

La dinamica è rappresentata statisticamente dalla tabella 1.1.

 

La tabella 1.1 aggiorna la tabella 11 dell'articolo del 2008. L'aggiornamento si basa sulla stessa fonte Unctadstad; con lo stesso metodo applicato allora e nei lavori precedenti, abbiamo trasformato i valori correnti in valori costanti rapportandoli al PPI – Producer price index –  del Bureau of Labor Statistics americano. L'indice 1948-1985 è consultabile in Il programma comunista, n.1/ 2008 (Tab.11)   o nel nostro sito (Tab.1- Indice delle esportazioni mondiali, dei 6 grandi, URSS/Russia e Cina,  1948-1985 ).

La successiva tabella 2 riporta i ritmi di incremento medio annuo dell'export. Aggiorna la tabella 12 dello stesso lavoro del 2008 sulla base della tabella 1.1 Indice delle esportazioni mondiali, dei 6 grandi, URSS/Russia e Cina,  1985-2013.

 

Esaurita la fase di espansione post-bellica, dal 1980 al 2008 l'incremento medio annuo del commercio mondiale subisce un calo del 35%,  più accentuato per i paesi di vecchio capitalismo, in particolare per quelli che avevano dato le migliori prestazioni nell'export. I cali maggiori riguardano infatti il Giappone (- 72,2%),  la Germania (-60.9%) e l'Italia (-59.6%). Anche la Francia, che aveva tenuto un buon passo di crescita fino al 1980 (8.40%) scende del 64.3%, mentre la caduta è più contenuta per i paesi meno dipendenti dalle esportazioni (USA: - 27.2, UK: - 37.74).

La legge della decrescenza si conferma  pienamente per il Giappone, che nel precedente periodo lungo aveva registrato l'incremento medio più elevato, prolungando il trend positivo fino alla fine degli anni Ottanta. Da allora rallenta progressivamente (dal 5.28 medio tra i due picchi 1988-1995 allo 0.32% dal 1995 al 2000).

Dopo la dissoluzione dell'impero sovietico e il conseguente crollo delle esportazioni, la Russia comincia a riprendersi a partire dal 1993, ma supera solo nel 2004 il livello dell'export del 1987, registrando in quest'arco di tempo un incremento medio del 5.43%. In seguito scende ancora, dimezzando il tasso di crescita registrato fino al 1980.

La Cina si propone come vera forza trainante dell' interscambio mondiale con un tasso di crescita medio paragonabile a quello del Giappone post-bellico. L'espansione del commercio estero cinese rappresenta per tutto il periodo la principale controtendenza alla decrescenza, da ascrivere al dinamismo tipico di un capitalismo giovane

Se si scompone  l'arco di tempo considerato in sottoperiodi, per alcuni paesi si osservano  alcune temporanee fasi di controtendenza. L'export tedesco è condizionato dal processo di riunificazione delle due Germanie dei primi anni Novanta. Dapprima ne deriva un iniziale rallentamento – analogo a quello giapponese – dovuto al crollo dei mercati dell'ex blocco sovietico, ma l'annessione (perché di questo si trattò) apre il territorio dell'ex DDR, divenuto dall'oggi al domani mercato interno, alla completa conquista delle aziende dell'occidente tedesco, che lo inondano di una massa di merci e investimenti non rientrante nelle statistiche dell'esportazione. Completato l'Anschluss  e distrutto l'apparato industriale orientale, la nuova Germania si proietta con rinnovata forza alla conquista dei mercati est-europei,  sfruttando le delocalizzazioni che innalzano il saggio del profitto medio grazie al risparmio sul capitale variabile; a partire dal picco del 1998 e fino al 2008 il suo export cresce al notevole ritmo annuo del 7,08%, assai più alto di quello del decennio pre-unificazione (4.45 dal 1979 al 1990).

Altra temporanea  inversione di tendenza riguarda l'export degli USA che dal 1990 al 2000 avanza a un tasso medio del 5.70%, superiore, seppure di poco, a quello del periodo precedente (in seguito rallenta al 3.48%). Nel lavoro del 2008, ricordavamo il ruolo di paese importatore che gli Usa hanno progressivamente assunto dagli anni Settanta ad oggi, che ha avuto una funzione notevole nell'assorbire in deficit quote consistenti delle esportazioni mondiali (intorno al 16%, con punte del 19% nel 2000). Ne ha tratto vantaggio la crescita produttiva soprattutto dei giovani capitalismi asiatici, ricambiati a suon di dollari prontamente rientrati nelle banche americane sotto forma di pagamenti e di ingenti finanziamenti del debito pubblico. La crescita dell'interscambio con le vivaci economie asiatiche ha a sua volta  incrementato le esportazioni degli Usa in quelle aree, dando ragione della controtendenza, assieme ad altri fattori su cui si ritornerà più avanti. Si aggiunga a questo che, con il crollo dell'URSS, gli Stati Uniti si sono trovati in prima linea nel rastrellare nuovi mercati oramai orfani delle vecchie influenze.

Dal 2000 al 2008, è l'intero export mondiale a essere in forte controtendenza (6.60% medio annuo, rispetto al 3.89% del ventennio 1980-2000), grazie soprattutto ai contributi della Germania e della Cina, nuova grande protagonista nelle statistiche del commercio internazionale. L'export cinese aveva conosciuto due anni di caduta nella fase di contrazione dell'interscambio dei primi anni Ottanta, ma da allora al 2008 ha preso quota senza soluzione di continuità. La Cina è l'unico paese il cui ritmo di incremento delle esportazioni risulta  in netta controtendenza (un formidabile 14.56% annuo) per l'intero periodo  rispetto a quello precedente (8,9% dal 1950 al 1981), ma questa strepitosa marcia dà la misura della profondità della crisi che la attende. Se si considera il caso del Giappone, dalla fine della guerra alla fine degli anni Ottanta campione di incrementi e progressivamente caduto in  una stagnazione produttiva di oltre due decenni, si può concludere che - se non intervengono altri fattori non economici - proprio i paesi dalle migliori prestazioni nell'export sono quelli destinati a subire i rallentamenti più bruschi e prolungati. I ritmi di crescita dei capitalismi più giovani sono nello stesso tempo ritmi di invecchiamento che ne decretano la rapida senescenza.

La legge vale anche per i sottoperiodi di controtendenza della Germania e  degli Usa. La tenuta della Germania si deve alle condizioni favorevoli in cui opera nella propria area di influenza continentale; quella degli Usa al ruolo ancora dominante nello scenario mondiale (controllo delle fonti energetiche e dei flussi finanziari, privilegio del dollaro, ecc.), più che a un ritrovato vigore dei rispettivi ipertrofici apparati produttivi. Nell'epoca dell'imperialismo, la competitività dei capitalismi è profondamente condizionata dall'interventismo politico e dalla pressione militare che i protagonisti possono mettere in campo, dalla loro capacità di imporre condizioni favorevoli alle proprie produzioni sui mercati internazionali e sul mercato interno. Ricorrendo a questi strumenti, gli imperialismi più forti possono, in certi periodi, invertire temporaneamente la decrescenza, senza per questo eliminare i fattori che ne sono all'origine. Le stesse manovre di “allentamento quantitativo” (quantitative leasing) della Fed e più di recente della BoJ giapponese hanno prodotto un indebolimento dei rapporti di cambio di dollaro e yen, funzionale a un recupero di competitività dei rispettivi sistemi produttivi.

Venendo alla fase più recente, segnata dagli sconquassi della crisi di sovrapproduzione, se si osservano gli anni immediatamente precedenti la crisi del 2008, si nota un vigoroso incremento dell'export rispetto alla media calcolata al 2005: il contributo alla crescita di soli tre anni  (+6.8% medio annuo) eleva la media del periodo di quasi un punto percentuale. E' una ulteriore riprova che in regime capitalistico l'intensità dello sviluppo è direttamente proporzionale all'intensità della caduta. Gli anni immediatamente precedenti alla crisi hanno visto un'accelerazione della tendenza alla sovrapproduzione e all'espansione dell'export mondiale oltre i limiti sopportabili, a partire dal mercato statunitense che, drogato dalla politica del “denaro facile” e del credito, assorbiva in deficit una quota consistente delle esportazioni mondiali. La saturazione del mercato americano ha dato il via alla brusca contrazione mondiale della produzione e degli scambi, effetto della “crescente sovrapproduzione che il mercato estero deve assorbire, e dunque a sua volta come fattore di accelerazione verso l'esplosione catastrofica del processo di sovrapproduzione cronica in atto da oltre un trentennio” (9).

3- Decrescenza, crollo e ripresa (precaria)

Nel nostro lavoro del 2008, si escludeva la possibilità che le controtendenze alla legge della decrescenza potessero manifestarsi per periodi lunghi e che per il capitalismo si stesse aprendo una nuova  fase di espansione. Si considerava possibile che l'espansione continuasse per qualche anno – cosa che in effetti si è verificata - “salvo accelerazioni della crisi”; eventualità che si è puntualmente presentata, e con violenza dirompente. Il 2008 segna per la prima volta nel secondo dopoguerra la completa sincronia della caduta produttiva e commerciale per tutti i maggiori capitalismi. Nel 2009, il crollo dell'export mondiale si attesta intorno al 25%, ugualmente ripartito tra i G6 e il “resto del mondo”. Tra i vecchi capitalismi, i più colpiti sono Russia (- 39%), Giappone (-29%) e Italia (- 28%). La caduta di Francia, Germania e Regno Unito è nella media mondiale, mentre per gli Usa si ferma al 22% e per la Cina – per la prima volta in rosso dal 1983 – al 20%. Per tutti, la durata del crollo si limita a un anno, ma la ripresa risulta fortemente differenziata:  gli “emergenti” recuperano con più rapidità i livelli dell'export del 2008 rispetto a i paesi del G6. Se gli USA ripartono a passo di lumaca ma nel 2011 già superano il dato del 2008, tutti gli altri, Russia compresa, al 2013 non hanno ancora raggiunto il livello di export pre-crisi. La vecchia Europa mostra particolare affanno, con  UK, Germania, Francia e Italia che nel 2012 sono di nuovo in contrazione. Stessa sorte per il Giappone, che continua a decrescere nel 2013 assieme alla Russia. La Cina riprende invece la sua crescita prodigiosa  in termini assoluti (+ 32% dell'export in quattro anni), ma non sfugge alla legge della decrescenza: se i G6 e la Russia decrescono in termini assoluti, il “resto del mondo” sale di un misero 3.5% complessivo e la stessa Cina scende da un incremento annuo di quasi il 15% a un assai più modesto 5.70%.

 

Grafico 1, export macro-aree

 

Elaborazione sulla base dei precedenti indici. Risultano evidenti i due cicli separati dalla caduta dei primi anni Ottanta. Assai più marcata è la caduta del 2008-2009 che dovrebbe preludere a un nuovo ciclo espansivo. Ma la successiva ripresa è seguita da un nuovo rallentamento che non consente ai G6 di recuperare i livelli di export pre-crisi, mentre l'export del "resto del mondo"  li supera di poco.

La caduta del commercio mondiale iniziata nel 1980 durò dai tre ai cinque anni, risparmiando parzialmente il Giappone, e il recupero del livello pre-crisi si raggiunse solo nel 1987. Al confronto, in quella recente  il recupero dei livelli di export globale si raggiunge già al quinto anno (2013). Tuttavia è evidente la precarietà della ripresa stessa e la difficoltà di recupero stabile dei livelli pre-crisi. La crisi del 2008 sembra chiudere il lungo ciclo di espansione del commercio internazionale iniziato dalla metà degli anni Ottanta. Dopo la crisi, il commercio internazionale stenta a recuperare pienamente la capacità di assorbire la sovrapproduzione mondiale, non agisce con  la stessa efficacia da fattore di controtendenza alla caduta del saggio medio del profitto.

La Tabella 3 conferma che il 2008 ha segnato una cesura nell'evoluzione del commercio mondiale. Dal 1985 al 2008, l'indice del commercio è cresciuto 2,6 volte quello dell'industria; dopo quella data, rimane indietro rispetto al pur  modesto incremento della produzione industriale e solo nel 2013 raggiunge e supera il livello pre-crisi (100.5. Fonte Unctadstat).

Tab.3                                                   

(aggiornamento della tabella 13, PC.1/2008, su dati Unctadstat.  Per esigenze di spazio, i dati fino al 2005 sono riportati di cinque anni in cinque anni)

Nel 2000, il primato americano sembrava confermato dalle persistenti difficoltà dei tradizionali competitori internazionali, con la Germania al minimo dal 1960 (8,57%) e il Giappone ancora declinante, ma la crisi economica  esplosa in quell'anno segna uno spartiacque nel declino dell'Occidente capitalistico. Nel frattempo, la Cina in un decennio aveva più che raddoppiato la propria quota di esportazioni, portandosi dall'1,78% del 1990 al 3,87%. La stessa Russia aveva iniziato una faticosa risalita e il “resto del mondo” aveva incrementato la propria quota dal 47,38 al 53.11, superando la quota totale dei paesi industrializzati. L'espansione della produzione e del commercio mondiale, il coinvolgimento nella dinamica capitalistica di nuove aree, avevano creato le condizioni per mutamenti radicali nelle relazioni tra le aree economiche che si manifestano apertamente nel nuovo secolo.

Dal 2000 alla crisi del 2008, la quota del G6 precipita dal 41.39% al 31,80%, soprattutto per la caduta delle quote di USA, Regno Unito e Giappone di oltre 1/3, e  di ¼ della quota francese. La ripresa del declino americano non trova efficace contrasto nelle ricadute economiche della seconda guerra del Golfo, né l'indebolimento del dollaro indotto dalle manovre monetarie espansive della Fed arresta la crescita del deficit strutturale nella bilancia dei pagamenti. Anzi, lo sviluppo abnorme del credito e della speculazione finanziaria prepara il terreno per i primi crolli bancari del 2007 che anticipano la crisi profondissima del 2008. Il declino coinvolge anche gli altri vecchi “big” dell'export, con l'importante eccezione della Germania, che raccoglie i frutti di una serie di fattori favorevoli - il completamento dell'integrazione  dei Laender orientali e le delocalizzazioni nelle aree di diretta influenza, la ristrutturazione produttiva e del mercato del lavoro dei primi anni 2000, i vantaggi dell'euro – che la proiettano al vertice della graduatoria mondiale dell'export dal 2003 al 2008, seppure con  quote più basse rispetto ai periodi migliori.

Ma nel 2008 il primato tedesco è insidiato dalla progressione cinese, che dalla crisi in poi detiene saldamente il vertice della classifica dell'export,  punto di arrivo di un'ascesa inarrestabile che parte dagli anni Settanta, con la progressiva  apertura al mercato mondiale e agli investimenti stranieri (14). La “lunga marcia” del capitalismo cinese conosce una svolta decisiva nel 2001, quando l'ingresso nel Wto prelude a una forte accelerazione delle esportazioni che raggiungono nel 2008 l'8,9% del totale. L'ascesa continua anche negli anni che seguono la crisi, mentre l'export degli altri paesi industrializzati arretra o, nel caso degli USA, ristagna.

Allegato: Grafico 2 - Export Cina, Usa, Giappone, Germania in ml di $]

Allegato: Grafico 3 - Export Cina, Usa, Giappone, Germania, quote mondiali]

I due grafici riguardano gli attuali primi quattro Paesi esportatori. Solo la Cina recupera ampiamente la caduta del 2008 dell'export mondiale e da allora ne detiene stabilmente la quota più elevata.   

Per sintetizzare. I fondamentali mutamenti nelle quote dell'export mondiale dai primi anni Novanta  al 2012 vedono da una parte i sei “big” dell'industria scendere da un livello prossimo al 50% al 29% del totale, il punto più basso mai toccato dalla guerra in poi. A questa caduta, corrisponde l'ascesa del “resto del mondo” considerato nella sua totalità; ma al suo interno alcune aree declinano (Oceania, Africa e America Latina), mentre i veri nuovi protagonisti si collocano nell'Asia orientale (Giappone escluso). In particolare, la Cina sale dalla quota del 2,5% del 1991 all'11.8% del 2013, che da solo rappresenta più di un terzo della quota G6. La potenza asiatica dovrà ben presto rinunciare ai privilegi di un Paese “in via di sviluppo” nell'intescambio mondiale (è previsto che entro il 2014 il Pil cinese supererà quello degli USA) e affrontare a viso aperto le reazioni dei vecchi capitalismi al declino. La discesa dell'Occidente e la contemporanea ascesa dell'Oriente sono “traiettorie irreversibili, fonti del mutamento dell'equilibrio mondiale uscito dal secondo conflitto imperialista che prima o poi devono entrare in collisione” (15).

 

Il 7° posto conquistato dalla Corea del Sud conferma L'Asia Orientale come l'area più dinamica e inserisce il Paese stabilmente nella classifica dei “big” dell'esportazione. Proseguono il declino ormai irreversibile del Regno Unito, precipitato dal 5° all'11° posto, e il recupero della Russia, legato principalmente all'export di materie prime ed energetiche – oltre che di armi – a cui si deve anche il notevole avanzamento delle monarchie reazionarie del Golfo Persico.  Da segnalare infine la riduzione della quota totale dei primi venti esportatori, effetto del progredire di altri paesi nell'agone della competizione mondiale (16).

                        

5- Rimando a ulteriori approfondimenti

Finora la nostra analisi è stata – come doveva essere – essenzialmente “quantitativa”, sulla traccia dei precedenti analoghi lavori di partito. Ben sapendo, con Engels, che i mutamenti quantitativi oltre un certo limite si accompagnano a mutamenti qualitativi, i compagni che si sono occupati di questa materia nel 2008 avevano ritenuto alcune questioni meritevoli di uno studio a parte, per meglio precisare la dinamica del capitale internazionale e la sua direzione. Prima di tracciare un bilancio provvisorio a conclusione di questo lavoro, richiamiamo tali questioni, aggiungendovi alcuni elementi che riguardano l'evoluzione nelle strutture produttive e negli scambi tra paesi capitalistici negli ultimi dieci-quindici anni.

Bilancia dei pagamenti e rapporti monetari

Uno sviluppo ulteriore dell'argomento richiederebbe di considerare la bilancia dei pagamenti dei principali paesi. Tra quelli in attivo, troviamo i capitalismi rampanti dell'Asia orientale (Cina e Corea del Sud), accanto agli europei tradizionalmente votati all'export (Germania, Italia) e alla Russia, grande fornitrice di materie prime ed energia. Il Giappone, tradizionalmente in attivo, dal 2011 registra un crescente deficit con l'estero, al quale non è estraneo l'aumento delle importazioni di energia dopo la catastrofe di Fukushima, mentre Stati Uniti, Regno Unito e Francia, capitalismi parassitari in piena senescenza finanziaria, convivono stabilmente con il deficit con l'estero.

Ampiamente previsto nei lavori di Marx (17), il capitalismo giunto alla fase imperialistica si è integrato in un mercato mondiale dove alcuni paesi sono - per periodi più o meno lunghi - stabilmente in deficit di bilancia dei pagamenti, mentre altri sono stabilmente in attivo. L'avanzo di bilancia dei pagamenti permette a un paese come la Cina di accumulare enormi surplus che, oltre ad alimentare l'espansione della produzione interna, prendono la strada degli investimenti all'estero e, in forma principalmente finanziaria, nei paesi di vecchio capitalismo. Al polo opposto, gli Stati Uniti possono permettersi di convivere con una bilancia dei pagamenti in costante e crescente passivo, almeno finché gli attuali equilibri mondiali glielo permetteranno. Non  sono più alternativamente i singoli stati che, "come un fuoco di fila", ora l'uno ora l'altro, si trovano con la bilancia dei pagamenti in rosso, ma si è creata  una specie di "divisione del lavoro", per cui ad alcuni Paesi dove le condizioni consentono di ricavare saggi di profitto più elevati viene demandato un ruolo più marcatamente produttivo, e altri si assegnano un ruolo di "gestione" finanziaria dei capitali eccedenti. Abbiamo quindi una situazione relativamente stabile di "sovraimportazione" di alcuni e di "sovraesportazione” di altri, ma rispetto ai tempi di Marx non è cambiato il dato di fondo: che a livello complessivo "vi è stata una sovraimportazione e una sovraesportazione“, dovute alla “sovrapproduzione stimolata dal credito e dal generale aumento dei prezzi che vi è connesso"  (18).

Il rapporto diretto tra il crescente deficit strutturale della bilancia dei pagamenti americana e l'attivo strutturale della Cina rafforza l'ipotesi che la crisi di sovrapproduzione mondiale sia stata fortemente alimentata dal vulcano produttivo cinese, la cui energia eruttiva è scaturita, almeno all'inizio, dall'incontro fra l'infinita riserva di giovane proletariato di cui dispone e i capitali eccedenti occidentali, a loro volta frutto della sovrapproduzione di cicli precedenti di accumulazione.

Tab 6- Bilancia commerciale  (2000-2013)

 (milioni di dollari a prezzi e tassi di cambio correnti)

 

Fonte: Unctadstat

In questa "divisione del lavoro", che ha consentito al sistema capitalistico mondiale l'ultima fase di sviluppo fino alla crisi,  ha giocato un ruolo fondamentale la leva del debito pubblico: l'emissione di buoni del tesoro Usa ha finanziato il mercato immobiliare, il credito e i consumi americani, a beneficio delle esportazioni cinesi. Attraverso il debito pubblico - detenuto in buona parte dalla Cina - , gli Usa si possono permettere di pagare le merci cinesi con i soldi dei cinesi. Invece di manifestarsi come "deflusso dell'oro", la crisi si manifesta come espansione del debito pubblico, come manovra volta ad alimentare la produzione mondiale e i consumi attraverso la creazione di valori fittizi. Questi enormi squilibri non possono però perdurare; lo strapotere finanziario degli Stati Uniti è logorato dal declino della sua industria e dall'ascesa del gigante cinese, che non potrà accontentarsi a lungo di scambiare merci con dollari di carta, la cui capacità di rappresentare valore dipende unicamente dal mantenimento degli equilibri mondiali a dominanza americana, oggi in manifesta crisi.

L''inasprirsi della guerra tra briganti per la conquista di quote di mercato internazionale porta inevitabilmente con sé misure protezionistiche (19) e tensioni riguardanti i rapporti di cambio tra le monete, determinanti per la competitività delle esportazioni. Di recente, gli Stati Uniti hanno ripreso ad accusare la Cina di manipolare lo yuan con svalutazioni competitive, dopo che la moneta cinese, dal massimo del gennaio 2014, era scesa in tre mesi del 3,4% (20). Il profondo rosso negli scambi con l'estero non ha certo origine nella sottovalutazione dello yuan, ma nel ruolo parassitario di Stato-rentier, basato sulla capacità di attirare capitali esteri, che gli Stati Uniti sostengono con fatica crescente. Essi potranno continuare ad attirare capitali stranieri per finanziare la voragine del deficit con l'estero e il debito pubblico più elevato del mondo finché il dollaro si confermerà moneta “forte”, ma un rilancio della competitività dell'export per colmare quel disavanzo non può prescindere da un dollaro “debole”. La potenza atlantica super-armata poggia dunque su basi assai fragili, a partire dalla contraddizione tra la necessità di un dollaro abbastanza forte per attestare la supremazia americana e attirare capitali e di un dollaro abbastanza debole per contrastare il declino delle sue produzioni sui mercati internazionali. D'altra parte, lo squilibrio commerciale tra USA e Cina è riflesso della “complessità delle catene logistiche multinazionali e dei benefici di soluzioni di efficienza offshore" (21). In altri termini, al capitale conviene investire e produrre dove si ricavano tassi di profitto più elevati. La causa del declino di un paese imperialista risiede nelle stesse  caratteristiche dell'imperialismo: esportazione di capitali e dominio del capitale finanziario. Allo stesso destino non sfugge la Germania che pure vanta surplus commerciali enormi (22) e che per questo è accusata  dagli Stati Uniti di minare la stabilità mondiale. Ne deriva un'eccedenza di capitali che prendono la strada dell'investimento estero - la Germania è il primo esportatore di capitali al mondo - incrementando la tendenza generale alla sovrapproduzione.

Crescente interdipendenza: le “catene produttive”

 

La tabella 6, che  mette in relazione i dati dell'import-export e quelli del Pil,  permette di valutare il grado di dipendenza dei diversi capitalismi dai mercati mondiali. Nell'ultimo decennio, tutti i paesi hanno aumentato, in misura maggiore o minore, la loro dipendenza dall'interscambio con l'estero. In testa è la Germania, passata da un già alto 64% del 2002 allo stratosferico 93% del 2011. Di riflesso, l'intera area UE ha visto aumentare di molto il peso dell'interscambio sul Pil (dal 66 all'83%). Stati Uniti e Giappone risultano i meno dipendenti dai mercati esteri. La Cina ha invece toccato il culmine dell'incidenza dell'interscambio sul Pil nel 2006, per poi scendere notevolmente negli anni della recessione. Il successivo recupero non la riporta molto al di sopra dei livelli di inizio periodo, e il calo dal 2010 al 2011 sembra confermare il nuovo orientamento di politica economica rivolto all'espansione del mercato interno. Dopo una crescita percentuale significativa fino al 2007, nel 2011 i Pil di Italia e Francia dipendevano per il 56% dall'import-export, agli stessi livelli pre-recessione.

 

Tab.7- Grado di apertura commerciale

Rapporto percentuale tra somma di esportazioni ed importazioni di beni e servizi e Pil

 

Fonte : Elaborazioni ICE su dati Eurostat, FMI e OCSE

Finora abbiamo preso in considerazione le sole esportazioni, seguendo l'impostazione dei lavori precedenti, basati sulla corretta considerazione che a livello complessivo i due andamenti non possono risultare molto dissimili. Tuttavia, merita spendere qualche parola sulle trasformazioni intervenute nella natura degli scambi internazionali negli ultimi decenni, con la costituzione delle cosiddette "catene produttive globali" (23). Oltre al commercio e alla finanza, la crescente interdipendenza economica sui mercati mondiali riguarda la parte prevalente e crescente dei semilavorati negli scambi globali. Nel passaggio da un paese all'altro, i prodotti subiscono lavorazioni successive che aggiungono valore, fino al prodotto finale. Si crea dunque una catena produttiva internazionale i cui anelli sono strettamente connessi e interdipendenti, localizzati laddove si massimizzano l'efficienza e i profitti (24). Le difficoltà della ripresa produttiva e dell'interscambio dopo la crisi del 2008 si sono infatti associate a una contrazione delle importazioni di semilavorati, che dal punto di vista dell'azienda importatrice costituiscono altrettanti investimenti in capitale costante, mentre dal punto di vista di chi esporta costituiscono un valore da realizzare nella circolazione, una merce (25). Questo suggerisce, per il futuro, di  riservare un'attenzione particolare all'andamento delle importazioni dei paesi industrializzati, in quanto riflesso dell'andamento degli investimenti produttivi.

Al di là di questo, la catena produttiva interessa come risultato di un'integrazione economica di aree che assegna funzioni diverse a ciascuna di esse, e una posizione più "a monte" o più "a valle" nella catena (26). La Cina, maggior esportatore mondiale, si colloca in una posizione più "a valle" e si propone come riferimento finale di una vasta area produttiva in Asia orientale. L'area dell'Europa centro-orientale si è progressivamente integrata in una catena produttiva centrata sul polo capitalistico tedesco che, in quanto anello centrale e terminale della catena, fornisce i beni intermedi a maggior contenuto tecnologico e si appropria di gran parte del valore del prodotto finale (27).

Lo sviluppo delle catene produttive porta con sé il rafforzamento dei legami di area che fanno perno su un paese imperialista dominante, ma anche una reciproca dipendenza che rende quelle relazioni vitali per il funzionamento dell'intera macchina produttiva. Queste relazioni, infine, si basano su una forte integrazione di industria e terziario (logistica, trasporti, comunicazioni), che rende sempre più problematico stabilire una netta distinzione tra i due settori.

Tuttavia, la funzionalità delle catene produttive all'interesse degli imperialismi dominanti vale finché lo spostamento all'estero di alcune fase produttive risulta capitalisticamente redditizio. La tendenza alla re-industrializzazione causata dal livellamento dei salari, dalla divisione nazionale delle filiere produttive a tecnologia crescente e dall'incremento dei costi di logistica e dei trasporti comporta necessariamente una contrazione dell'interscambio globale.

Qualità dell'export

La questione della “catene produttive” rimanda alle caratteristiche dei prodotti industriali esportati. Non è indifferente che si tratti di beni di consumo, di beni intermedi o ad alto contenuto tecnologico. Se prendiamo in considerazione l'importante settore dei macchinari industriali, il declino non riguarda tutte le vecchie potenze ed è meno evidente rispetto all'andamento generale delle esportazioni.

La Germania incrementa la sua quota, Italia e Giappone la mantengono, gli Stati Uniti scendono ma recuperano parzialmente dopo la crisi e gli altri “grandi”sono in evidente declino anche in questo settore. Anche qui si nota la crescita potente della Cina, oltre che della Corea del Sud, a conferma di quanto già osservato nel nostro lavoro del 2008: l'industria cinese già allora non si limitava più a sfornare beni di consumo di scarsa qualità. Ad esempio, nel settore di computer e apparecchi elettronici, la quota della Cina è balzata nello stesso periodo al primo posto, passando dall'8.8 al 23%. Nel settore dell'acciaio, da noi sempre considerato misura della potenza industriale di un paese, è salita in dieci anni dal 2.0% al 10.9% del totale.

 

Tab.8- Macchinari e apparecchi industriali- Quote di mercato mondiale

Fonte: elaborazioni ICE su dati Eurostat e Istat

 

Tab.9- Prodotti della siderurgia- Quote di mercato mondiale

Fonte: elaborazioni ICE su dati Eurostat e Istat

 

Nella siderurgia - e ciò vale anche per  il settore chimico - i vecchi paesi industriali, pur nel declino, manifestano una certa tenuta. Contro le tendenze generali, dopo la crisi del 2008 la quota di export di acciaio giapponese è in aumento, mentre la Cina perde oltre un punto percentuale. Si tratta di produzioni tradizionali, ma pur sempre decisive per determinare il peso economico e politico di un paese. Non per caso, tanto nel settore dei macchinari quanto in quello siderurgico la somma totale dei principali esportatori è in aumento, mentre nello stesso periodo quella riguardante il totale dell'export è in calo. Questa osservazione vale a maggior ragione per i settori ad alto contenuto tecnologico che hanno rilevanza strategica, come l'aerospaziale e gli armamenti.

6- Conferma delle previsioni e delle tendenze

Lo sviluppo del commercio mondiale degli ultimi anni conferma pienamente le previsioni contenute a chiusura dell'articolo del 2008, a cui abbiamo fatto spesso riferimento. La Cina ha sostituito la Germania al primo posto nella graduatoria dell'export mondiale nel 2009, e ha mantenuto ed incrementato la posizione fino a oggi, rafforzandola nei settori a più alto contenuto tecnologico che erano prerogativa dei capitalismi più sviluppati. Il Giappone ha intrapreso la corsa al riarmo per fronteggiare l'incombente minaccia cinese, segnale tra i più indicativi di un'accelerazione delle tensioni internazionali in un contesto di disgregazione dell'economia mondiale e di rottura degli equilibri usciti dall'ultimo conflitto imperialista. Se il freno all'espansione dell'interscambio mondiale troverà conferma anche nei prossimi anni, le crescenti difficoltà di accumulazione porteranno inevitabilmente a un ulteriore inasprimento dei contrasti commerciali e all'accelerazione della tendenza alla guerra, sia sul piano locale per il controllo di aree sensibili dal punto di vista strategico e delle risorse, sia a livello generale con la definizione delle alleanze tra imperialismi.

Ciò a cui guardiamo con più attenzione sono le ripercussioni della crisi sui paesi di più recente e impetuoso sviluppo e su quelli di vecchio capitalismo. Nei primi, si stanno accentuando le contraddizioni economiche e di classe. In Cina, le disparità sociali si sono notevolmente approfondite: a una ristretta minoranza di ultraprivilegiati si contrappone un'immensa moltitudine di lavoratori che lottano per affrancarsi dalla condizione di sottopagati e senza tutele, mentre stenta a consolidarsi la cosiddetta “classe media” a reddito medio-alto che dovrebbe sostenere la crescita dei consumi interni (28). Sempre più spesso giungono dalla Cina notizie di decine di migliaia di lavoratori in sciopero che reclamano forti miglioramenti salariali e del welfare (risuona ancora l'eco del grande sciopero di aprile 2014 nella fabbrica di scarpe di Dongguan).

Per contro, nelle metropoli imperialiste sempre meno si respira l'atmosfera fasulla di benessere e di fiducia nel futuro che ha rimbambito i proletari per oltre mezzo secolo. La competizione mondiale e la nuova divisione internazionale del lavoro spingono alla delocalizzazione e alla deindustrializzazione di intere aree, al peggioramento delle condizioni di lavoro e delle retribuzioni degli occupati, allo smantellamento del welfare, all'aumento dell'esercito industriale di riserva, alla precarizzazione e proletarizzazione di ampi strati della piccola e media borghesia. Mentre è in pieno svolgimento il processo di livellamento verso il basso delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari d'occidente, i fratelli di classe d'oriente sono spinti da uno sfruttamento insostenibile a intraprendere lotte di difesa che svilupperanno inevitabilmente organizzazione e solidarietà proletaria. L'abbassamento del prezzo delle merci che concorrono a determinare il valore della forza lavoro, la compressione salariale, l'aumento dei ritmi e orari di lavoro costituiscono il principale portato del “libero commercio”. L'espansione del mercato mondiale, invocata dal cosiddetto neo-liberismo, segna dunque l'apparente trionfo del capitale, ma contemporaneamente porta all'estremo l'antagonismo fra borghesia e proletariato, lavora per l'unificazione del proletariato internazionale, lavora per la rivoluzione.

(novembre-dicembre 2014)

 

NOTE

1-  Cfr. "Il corso del capitalismo mondiale dal secondo dopoguerra del XX secolo verso il terzo conflitto imperialistico o la rivoluzione proletaria", Il programma comunista, n.1/2008.

2- Raggiunta la fase imperialista, “la conquista dei mercati esteri, l'ingaggio di lavoratori stranieri, l'importazione di materie prime, o infine l'esercizio di tutta l'impresa capitalistica in paese estero con elementi e fattori del posto, sono processi che non possono nel mondo capitalistico essere svolti con i puri mezzi economici, come il gioco della concorrenza, ma implicano il tentativo di regolare e controllare prezzi di vendita e di acquisto, e mano mano i privilegi e le protezioni con misure di stato o convenzioni interstatali. Quindi l'espansionismo economico diviene colonialismo aperto o dissimulato, appoggiato con poderosi mezzi militari. E' la forza che decide le rivalità per l'accaparramento delle colonie e il dominio sugli stati piccoli e deboli, si tratti di controllare i grandi giacimenti minerari, le masse da proletarizzare, o gli strati di consumatori capaci di assorbire i prodotti dell'industrialismo capitalistico” (dal nostro testo "Proprietà e capitale", uscito a puntate su quella che allora era la nostra rivista Prometeo, 1948-50; cfr. Cap. XI: La politica imperialistica del capitale).

3- Il commercio mondiale “che costituiva la base della produzione capitalista durante la sua infanzia, ne diventa un prodotto quando essa comincia a svilupparsi, in conseguenza della necessità intrinseca di questo modo di produzione, del suo bisogno di un mercato sempre più esteso” (Marx, Il Capitale, Libro III, Editori riuniti, 1980, p.289).

4- Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, Editori Riuniti, 1992, p. 23.

5-  "I capitali investiti nel commercio estero possono offrire un saggio del profitto più elevato soprattutto perchè in tal caso fanno concorrenza a merci che vengono rodotte da altri paesi a condizioni meno favorevoli; il paese più progredito vende allora i suoi prodotti ad un prezzo maggiore del loro valore, quantunque inferiore a quello dei paesi concorrenti. [...] vende a minor prezzo dei suoi concorrenti e tuttavia al di sopra del valore individuale della sua merce: utilizza insomma come pluslavoro la produttività specifica superiore del lavoro da lui impiegato, realizzando così un sovraprofitto" (Marx, Il Capitale, Libro III, Ed. Riuniti, p.289, Cause antagonistiche). L'export verso paesi con produttività inferiore contribuisce, grazie ai sovraprofitti, a livellare verso l'alto il saggio generale del profitto. Analogamente anche gli investimenti esteri (Marx parla qui di investimenti nelle colonie, non dell'esportazione di capitali propria della fase imperialistica), che offrono un saggio del profitto superiore sia per l'insufficiente sviluppo della produzione sia per lo sfruttamento intensivo dei lavoratori sottopagati, contribuiscono al livellamento in alto del saggio generale.

6- Discorso sulla questione del libero scambio, cit. p.21.

7- Discorso sulla questione del libero scambio, cit. p.22.

8- "La statistica delle esportazioni e delle importazioni ci fornisce un indice dell'accumulazione del capitale reale, ossia del capitale produttivo e del capitale-merce” (Marx, Il Capitale, Libro III, Capitale monetario e capitale effettivo, Ed. Riuniti, p.588).

9- "Il corso del capitalismo mondiale dal secondo dopoguerra del XX secolo…", cit.

10-  Nel marzo scorso (2014), le esportazioni cinesi sono scese del 6,6% e le importazioni dell'11.3% rispetto al 2013 (R. Fatiguso, "Il Pil cinese avanti 'adagio'”, IlSole24Ore del 17.4.2014). Cfr. gli articoli sull'economia cinese apparsi nei nn.3-4, 5 e 6 del 2014 di questo stesso giornale.

11- "Traiettoria e catastrofe della forma capitalistica", Il programma comunista, n.19-20/1957.

12- Accordi sui tassi di cambio sottoscritti il 22 settembre 1985 al vertice dell'Hotel Plaza a New York dai ministri finanziari e dai banchieri centrali dei Paesi dell'allora G5 (Francia, Gran Bretagna, Giappone, Rep. Federale Tedesca, U.S.) e Canada.

13- Nel frattempo, si era già consumato il declino definitivo del Regno Unito come esportatore di rango, sceso dalla quota del 10,23% del 1950, al 4-5% dell'export mondiale già dagli anni Settanta, quota poi sostanzialmente mantenuta fino al 2000. Nello stesso arco di tempo, la Francia aveva conservato il 5-6% del totale, con limitate oscillazioni, mentre l'Italia, dopo una rincorsa che l'aveva portata dal 2% a oltre il 4% nei primi anni Settanta, aveva sostanzialmente tenuto la posizione per tutto il periodo successivo.

14- Sulle tappe di consolidamento e sviluppo del capitalismo cinese, rimandiamo al nostro articolo del 2008 e ai lavori più recenti citati sopra.

15- "Il corso del capitalismo mondiale dal secondo dopoguerra del XX secolo..", cit.

16-Accanto a questi mutamenti dalla valenza globale, sorprende la conquista del 5° posto da parte dei Paesi Bassi.  Sulla “rinascita” del vecchio capitalismo olandese, di storica vocazione commerciale e integrato nell'area di influenza tedesca, gioca la tenuta dell'export della Germania e il ruolo importante rivestito nel sistema dei trasporti marittimi internazionali.

17- A proposito degli effetti della crisi sulla bilancia del pagamenti, Marx osserva che nel corso delle crisi generali "tutte le nazioni hanno, o per lo meno quelle commercialmente sviluppate, la bilancia dei pagamenti sfavorevole e sempre una dopo l'altra, come un fuoco di fila, non appena giunge il suo turno di pagamento. Una volta che la crisi si è iniziata, ad es. in Inghilterra, i termini di questi pagamenti si susseguono a brevissima distanza l'uno dall'altro. Si vede allora che tutte queste nazioni hanno contemporaneamente importato ed esportato in quantità eccessiva (ossia prodotto e commerciato in eccedenza) di modo che per ognuna di esse i prezzi erano esageratamente elevati ed il credito aveva avuto un'espansione troppo forte. E lo stesso collasso colpisce tutte. Il fenomeno del deflusso dell'oro si manifesta successivamente per ognuna di esse e mostra proprio con il suo carattere generale 1) che questo deflusso dell'oro è semplicemente un fenomeno, non la causa della crisi; 2) che l'ordine di successione in cui tutte le nazioni vengono colpite indica semplicemente quando è venuto per esse il momento della resa finale dei conti, il loro turno di essere coinvolte nelle crisi i cui elementi latenti si manifestano anche per esse" (Marx, Il Capitale, Libro III, cit. p.578-579).

18- Marx, Il Capitale, Libro III, cit. p.578.

19-  Possiamo qui solo fare cenno ad una materia che merita una trattazione a parte. Gli ultimi anni hanno visto moltiplicarsi le controversie nell'interscambio, fatte di accuse reciproche di dumping e di forme più o meno mascherate di protezionismo, come agevolazioni e sussidi alle produzioni nazionali ("Wto sommersa di contenziosi", Il Sole 24Ore, 15.3.2013). Le controversie si moltiplicano non solo per iniziativa dei paesi di vecchio capitalismo, sulla difensiva di fronte all'aggressività dei nuovi competitori, ma anche da parte dei cosiddetti emergenti. L'India ha da poco superato gli Stati Uniti nel numero di iniziative antidumping presso il Wto. L'altra strada che molti cominciano a percorrere per contrastare la “concorrenza sleale”, vera o presunta, è quella degli accordi commerciali bilaterali e di area. Anche questi sono un'arma a doppio taglio che consente agli squali di vecchia data di gabbare il pivello di turno: l'accordo bilaterale tra Ue e Corea del Sud, in vigore dal luglio 2011, ha fatto aumentare l'export europeo verso Seul del 37% in un anno, mentre quello coreano in Europa è cresciuto solo dell'1%. Le “regole” tanto invocate dai profeti del libero mercato sono fatte ad uso e consumo degli squali.

20-S. S. Roach, "La disfida delle monete", IlSole24Ore, 1/5/2014. Questa ossessione americana per lo yuan debole - da parte loro, i cinesi potrebbero recriminare sull'effetto degli “allentamenti quantitativi” della Fed sul cambio del dollaro - è buona per scaricare sulla Cina la responsabilità dei bassi salari, della disoccupazione, del crescente disavanzo commerciale (trascurando il fatto che gli Stati Uniti sono in disavanzo con ben 102 paesi, anche se certamente il peso del disavanzo nei confronti della Cina è il più elevato). In realtà, da quando lo yuan si è sganciato dall'ancoraggio al dollaro (2005) si è rivalutato del 37% sulla moneta americana. Nel frattempo, il surplus delle partite correnti cinese è sceso dal 10,1% del Pil del 2007 al 7,1% del 2013, e secondo stime FMI dovrebbe scendere al 2% nel 2014. Nel corso del 2013, il surplus commerciale cinese è stato ancora superato da quello tedesco (Tab. 5; cfr. anche “La Germania supera il surplus commerciale della Cina, Die Welt, 14.01.2014).

21-S.Roach, "La disfida delle monete", cit.

22- L'economia tedesca  “è doppiamente esposta al ciclo internazionale: sia per l'incidenza del commercio estero, sia per qualche problema che emerge nella redditività del capitale investito. Nei giorni scorsi, ad esempio, per la prima volta da anni Volkswagen ha lamentato una redditività bassa (2%) attribuita ai problemi di gestione di un'impresa geograficamente molto dispersa. I sondaggi tra le imprese tedesche segnalano la volontà di rimpatriare parte degli investimenti, proprio come avviene negli Usa.” (C. Bastasin, "La trappola tedesca frena l'Europa", IlSole24Ore, 23.07.2014).

23- "Bollettino Bce", maggio 2013, p.10 e seguenti.

24- Questi passaggi influiscono sulle statistiche gonfiandole, perché il valore lordo dell'export di un paese che ha importato e trasformato semilavorati comprende una parte di valore già registrata nell'import.

25-  “A partire dal 2011 la crescita debole della produzione mondiale condiziona negativamente le importazioni, soprattutto di componenti come scorte e investimenti fissi destinati all'industria ... Tale fattore spiega la dinamica modesta del commercio nelle economie avanzate, specialmente nell'area dell'euro, dove gli investimenti hanno cominciato a contrarsi dalla metà del 2011 e hanno di conseguenza fatto scendere le importazioni [...] il rapporto medio tra crescita delle importazioni e crescita del Pil su scala internazionale, pari a 1,8 prima della crisi finanziaria mondiale, (tra il 1982 e il 2007) è sceso a 1.0 nei primi sei mesi del 2012, riflettendo una flessione particolarmente pronunciata nelle economie avanzate a partire dalla metà del 2011"  ("Bollettino Bce", dicembre 2012).

26-"Tra il 1995 e il 2009, il grado di partecipazione alle catene produttive mondiali è aumentato per tutti i paesi. [...] I paesi che producono principalmente materie prime (quali Russia, Brasile e Australia) e beni intermedi (ad esempio, il Giappone), si trovano più a monte e quelli che si concentrano sulla trasformazione o sull'assemblaggio di prodotti (come nel caso di paesi dell'Europa centrale e orientale e della Corea del Sud) si collocano più a valle." ("Bollettino Bce", maggio 2013, p.13).

27- In un articolo del Sole24 Ore del 3 maggio 2014, si porta l'esempio delle calzature di qualità italiane, che vengono costruite negli emergenti i quali si appropriano solo del 20% del valore, mentre il resto va all'azienda madre, almeno fino a quando sarà possibile “ottimizzare la catena” ("Il ritorno della politica industriale", IlSole24Ore, 3.05.2014.)

28-  L'”indice Gini” che misura le disparità di reddito è passato dallo 0,410 del 2000 allo 0.473 del 2013, “al di sopra della soglia di salvaguardia della pace sociale” ("Sullo sviluppo cinese pesano troppi squilibri”, IlSole24Ore, 1/5/2014).

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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