SECONDA PARTE: DALLE RIFORME ALLA CRISI ECONOMICA MONDIALE

Gli anni '80: forte avvio delle riforme

E' in questo decennio che le liberalizzazioni in economia saranno avviate con maggiore decisione. Un primo impulso in tal senso, proprio agli inizi, sarà espresso da Deng Xiaoping, mentre già a metà anni '80 tutto il Comitato Centrale del PCC si esprimerà in maniera chiara e forte per un sistema economico misto, in cui “coesistano pianificazione e mercato” (espressione sibillina e truffaldina, per dare a intendere la “coesistenza” tra socialismo e capitalismo). In forza di tale linea economica, le imprese statali potranno conservare per sé parte degli utili senza più versarli allo Stato, utilizzandoli sia per gli investimenti sia per i premi di produzione agli operai. Qualche anno dopo, i versamenti di una parte degli utili allo Stato verranno sostituiti dalle imposte progressive sui profitti aziendali: le imprese statali, avendo per sé tutti i profitti aziendali, non saranno però più finanziate gratuitamente dallo Stato (almeno ufficialmente) e dovranno reperire i loro finanziamenti attraverso il credito bancario a interesse; le stesse aziende potranno scegliere clienti e fornitori fuori da ogni “piano” statale, negoziando anche i prezzi; lo Stato imporrà per qualche tempo speciali “contratti” tra imprese statali e amministrazioni locali, le quali ultime dovrebbero “controllarle” al fine di “garantire” profitti, contributi, innovazioni tecnologiche, ecc. – un sistema che verrà subito dopo abbandonato a causa delle forti “tutele” (leggi: speculazioni e corruttele varie) da parte delle stesse amministrazioni locali.

Dal 1978, la Cina farà ampiamente ricorso ai capitali esteri, sia in forma finanziaria (prestiti a medio e lungo termine, concessi da istituti finanziari mondiali come la Banca mondiale, di cui la Cina farà parte sin dal 1980) sia nella forma degli investimenti diretti (IDE, questi ultimi particolarmente favoriti, perché permettono di importare tecnologia e metodi moderni di gestione). Questi capitali esteri saranno indirizzati soprattutto verso le società cinesi a capitale misto in particolari regioni della Cina (soprattutto quelle costiere) e verso specifici settori di attività. Sul piano commerciale, il monopolio statale del commercio con l’estero, e dunque una certa residua pianificazione e controllo dall’alto, cedono il posto a una miriade di società e imprese che si occupano specificamente del commercio e dei rapporti con l’estero (lo Stato ne controllerà alla fine solo il 20%). Tuttavia, le tariffe doganali rimarranno all’inizio ancora alte sui prodotti importati (tranne per quelli destinati all’assemblaggio e poi all’esportazione), mentre saranno più agevolate in genere le industrie esportatrici.

L’aumento generale dei redditi nel corso degli anni '80, l’aumento del risparmio delle famiglie (i depositi bancari passano dal 5% del PIL nel 1978 al 37% nel 1990) (1) e il crollo del finanziamento statale mettono sempre più in forte risalto la funzione delle banche per il credito alle imprese (investimenti per il capitale fisso) e alle famiglie (per il consumo). Come effetto, nel 1983, il sistema centrale fondato sulla “monobanca” si sdoppia: alla Banca centrale, che si occuperà solo di tassi di interesse e politica del credito, si affiancano quattro grandi banche commerciali – la Banca industriale e commerciale, la Banca di Cina per le operazioni in valuta, la Banca delle costruzioni e quella dell’agricoltura.

Nel settore agricolo, dal 1979 al 1983, si ritorna alla privatizzazione in senso familiare, invertendo così la rotta avviata con la riforma del 1950 attraverso la formazione delle cooperative prima e delle comuni agricole poi. In effetti, quelle forme di conduzione collettiva avevano denunciato scarsa produttività e fatto solo da copertura sia al forte sviluppo industriale sia alla effettiva conduzione di tipo familiare: più o meno come era avvenuto per i colcos russi. Adesso, anche sul piano formale, nel 1978 appaiono “contratti di responsabilità” tra le comuni popolari e le famiglie contadine, in base ai quali queste ultime, detratta una quantità forfettaria di prodotto, possono tenere per sé tutto il resto, per venderlo liberamente (2). La terra rimane sempre proprietà della stessa comunità, ma attraverso quei contratti (una sorta di concessione) essa è divisa e poi gestita liberamente dai contadini, all’inizio per 3-4 anni e in seguito per 15. Già alla fine del 1984, quasi tutta la terra sarà gestita in questa forma familiare privata. Sulla quota di prodotto venduta allo Stato, questo accorda un aumento di prezzo che, tra il 1979 e il 1981, sarà del 40%: prezzo che non viene trasferito sul dettaglio per non produrre inflazione. Lo “scarto” tra il prezzo di produzione e quello al consumo viene “colmato” dallo Stato, che in tal modo aumenta però in misura rilevante il proprio disavanzo.

Si inverte insomma, sia pure momentaneamente, la politica dei prezzi bassi che negli anni passati aveva facilitato lo sviluppo industriale. Con l’abolizione del monopolio dello Stato sulla produzione dei cereali e su altri prodotti agricoli, si sviluppa sempre più il commercio privato delle famiglie contadine, cresce l’agricoltura specializzata e si costituiscono sempre più imprese private o societarie. La funzione delle comuni agricole viene in tal modo completamente svuotata e così, nel 1983, verranno ufficialmente soppresse. Il tenore di vita dei contadini aumenta leggermente. Tuttavia, nella seconda metà del decennio, i prezzi agevolati dei prodotti venduti allo Stato, considerando il forte aumento del carico di spesa per il bilancio statale, non saranno più garantiti dallo Stato stesso, se non per una certa quantità, oltre la quale i prodotti agricoli saranno venduti senza più alcuna “garanzia” statale.

Riguardo al cosiddetto “sistema misto”, statale e liberale nello stesso tempo, non si tratta né di “socialismo” nel primo caso né di “economia di mercato socialista” nel secondo, ma dello stesso, unico sistema capitalistico, espresso con un maggiore intervento, controllo e pianificazione dello Stato sulle aziende nel primo caso e da una più forte possibilità e capacità di decisione autonoma aziendale nel secondo. Si avrà in tal modo anche la coesistenza di due strutture di prezzi: quella imposta dal controllo dello Stato sulle vendite e approvvigionamenti e quella determinata liberamente dal mercato. Nel 1985, vengono aboliti anche i limiti superiori ai prezzi liberalizzati: crescerà l’inflazione, mentre le speculazioni e la corruzione assumeranno dimensioni mai viste, che faranno da motivo e da sfondo alle manifestazioni del maggio 1989 a Pechino e in altre grandi città, represse poi sanguinosamente dall’esercito il 3-4 giugno sulla piazza Tienanmen.

Blocco delle riforme: la “pausa” del 1989-1991

Il segnale d’allarme rappresentato da manifestazioni e scontri sociali impone un altro, sia pur breve e momentaneo, passo indietro (cosiddetto “di sinistra” o anche “conservatore”), rappresentato dal nuovo primo ministro Li Peng. Per calmare l’inflazione (i prezzi nelle grandi città aumentano del 15-20 %) si congelano in parte le riforme e si ristabiliscono i prezzi amministrati, il tutto accompagnato, a mo’ di giustificazione, dai soliti sconci discorsi “ideologici”. Ma evidentemente, dopo avere avviato un'estesa e forte liberalizzazione delle aziende statali e del mercato, indietro non si torna più: lottare contro l’inflazione ormai significherebbe lottare contro le stesse riforme e contro la crescita economica, significherebbe frenare la stessa occupazione nelle grandi città. Alla fine del decennio, i sostenitori del più deciso intervento statale e del controllo dei prezzi perdono decisamente terreno e il colpo fatale viene assestato, alla fine del 1991, dal crollo dell’URSS.

A fine anno, i rapporti di forza dentro il PCC sono ormai decisamente a favore dei riformatori in senso liberale. La Cina riesce così a traghettare la propria economia capitalistica da un sistema in cui era sempre stata prevalente la gestione o il controllo statale a un’economia con più forte autonomia e decisione aziendale. Riesce insomma nell’“impresa” che non era riuscita all’URSS in quegli stessi anni (3). Quest’ultima, nonostante avesse sentito la necessità di una più forte libertà e decisione aziendale già nel 1956, e pur mettendola in atto in qualche misura già negli anni '60 e seguenti, era rimasta però bloccata dal suo più forte e radicato statalismo borghese – statalismo che traeva certamente origine, sul piano formale, anche dai provvedimenti rivoluzionari in direzione socialista presi nel 1917, ma che con quelli di allora nulla aveva a che fare, poiché le misure bolsceviche miravano strategicamente a ben altre prospettive che non il semplice controllo, pur necessario sul piano immediato, sulla produzione, sul commercio, sulle banche, ecc. In ogni caso, quelle misure non vennero mai contrabbandate, fin quando rimasero a quel livello, per “socialismo”, se non dopo il trionfo della controrivoluzione nazionale staliniana, che le spacciò invece come “trionfo del socialismo”. Quel forte statalismo nazionale borghese rimarrà comunque come una “cappa di piombo” sull’economia capitalista russa, nonostante la volontà e le misure prese in senso riformista. La necessità di mantenere un forte controllo statale in un’economia fortemente militarizzata, lo stesso forte e deciso controllo economico e militare sui paesi dell’Est europeo, agiranno da freno a una più forte evoluzione riformista in senso economico generale: resero in sostanza la stessa economia poco competitiva, soprattutto nei settori civili, non militari, che richiedevano ammodernamenti in grado di contrastare la concorrenza delle merci dei rivali imperialisti sul mercato mondiale. Alla fine, l’economia russa dovette collassare, e con essa collassò l'elefantiaco apparato statale (svenduto ai grandi speculatori finanziari russi) e militare, plurinazionale, burocratico e politico, legati indissolubilmente tra di loro.

Il percorso in Cina sarà ben diverso. Per quanto possa essere stato forte il peso statale nel dare un grande impulso all’economia nei primi decenni dopo il 1949, necessario anche a tenere unito e politicamente indipendente il paese, esso non fu “bloccato” e paralizzato né da un apparato militare che, come quello russo, si proponeva, dalla fine del conflitto bellico, di “rivaleggiare” con la leadership americana né da un controllo centralizzato e burocratico su altri paesi e Stati, presunti “fratelli socialisti”. L’economia cinese riuscirà così, alla fine, a prendere più liberamente e decisamente la strada delle riforme liberali, già preparata e avviata, in effetti, fin dall’inizio (4). E ciò, in un periodo e in una situazione in cui la concorrenza internazionale della fine anni ‘80 e lo sviluppo capitalistico interno, già in buona parte realizzato, imponevano una direzione ancora più decisa e spinta verso la liberalizzazione (5).

Gli anni novanta: deciso rilancio delle riforme

Riprenderà così, dopo la breve pausa, la “seconda ondata riformatrice” e anche la... “costruzione di un socialismo alla cinese” (come se quello precedente, maoista, non ne avesse rivendicato le stesse peculiarità nazionali!). Sul piano ideologico, a giustificazione di un tale rilancio, vi è il vecchio motto denghista secondo cui basta che vi sia “sviluppo” e… siamo nel socialismo (6). All’inizio del nuovo decennio, le imprese industriali pubbliche non riescono a decollare: bassa produttività a causa di tecnologie obsolete, saggi di profitto molto bassi; i profitti sono privatizzati, ma le perdite vanno allo Stato.

In tutto il decennio 1990-2000, si cerca di trasformare molte imprese statali in imprese private attraverso la loro transitoria trasformazione in società per azioni (processo inverso a quello degli anni '50). Nel 1992, per la prima volta, alla Borsa di Shanghai viene messo in vendita un milione di azioni speciali per stranieri e si distribuiscono “certificati per l’acquisto di azioni” riservate ai cinesi (7). Qualche mese più tardi (cfr. Il sole-24 ore del 29/3/2013), si prevede “che il governo si tiri completamente da parte diventando sempre più un piccolo governo”. Nel 1997, il XV Congresso del PCC decide che lo Stato deve “disimpegnarsi” dalla proprietà delle imprese, eccezion fatta per quelle dominanti e strategiche (infrastrutture, acqua, elettricità, auto). In effetti, l’operazione sarà più “semplice” solo per le piccole imprese, spesso vendute ai vecchi dirigenti o alle autorità locali, mentre risulterà molto più difficoltosa per quelle grandi o medie, che non riescono, soprattutto attraverso emissione di azioni, ad attirare capitali. D’altra parte, la crisi finanziaria asiatica del 1997-2000 e il crollo delle azioni in borsa del 2001 renderanno tutto ancor più difficoltoso, ragione per cui il capitale statale risulterà infine ancora dominante, nonostante lo sforzo di trasformazione giuridica delle imprese. L’unico risultato apprezzabile sarà la maggiore “razionalizzazione“ delle imprese statali in termini di eliminazione di eccesso di manodopera e quindi di rilancio della produttività (le fregature per i proletari, nel sistema capitalistico, sono sempre assicurate!) – razionalizzazione che procederà comunque a rilento, viste la grande concentrazione di forza lavoro e la forte combattività dei proletari del settore statale (8).

Riguardo al settore delle imprese private, che aveva conosciuto vita stentata nei primi tre decenni dopo l’indipendenza politica a causa della campagna di statizzazione iniziata dagli anni '50, esso entra “di diritto” nella Costituzione cinese del 1982 (dopo il suo riconoscimento già nel 1952), quando il settore verrà riconosciuto come “complementare” a quello pubblico, e soprattutto nel 1999, quando è ufficialmente riconosciuto “componente importante dell’economia”. Le imprese private cominceranno ad emergere di fatto dagli inizi degli anni ’80 e alla fine del decennio saranno sistemate anche giuridicamente con forme individuali, s.r.l. o società per azioni. La trasformazione delle imprese statali in private si svolgerà invece nella più grande difficoltà e confusione, non solo sotto l’aspetto degli apporti di capitali da parte dei privati, sostanzialmente esiguo, ma anche sotto quello del nuovo assetto giuridico (forme societarie) e delle funzioni da svolgere (assegnazione dei profitti, trasferimenti dei capitali, controlli sulla gestione, ecc.). Le imprese private prendono più deciso impulso per via dell’apporto di capitale straniero, soprattutto nelle forme di società a capitale misto (cinese privato e straniero) o totalmente straniero. Nel 1998, il settore non statale, tra imprese private e collettive societarie, produce il 60% del PIL (di cui il 6% a capitale straniero) e impiega la stragrande maggioranza della popolazione urbana. Nello stesso anno, quasi metà delle imprese statali sono invece in perdita e sopravvivono coi crediti bancari e varie agevolazioni fiscali: grava su di loro anche il peso delle amministrazioni pubbliche locali e di certe “funzioni sociali” ereditate dal periodo precedente.

Intanto, proseguono a passo sostenuto gli investimenti esteri in Cina, avviati negli anni ’80, passando da 1,8 mld $ del periodo 1979-83 a 28,8 mld $ nel 1994 (9). Sono sempre favoriti gli investimenti esteri nelle industrie esportatrici o nei settori come quello automobilistico che dipende ancora dall’estero, allo scopo di poterne superare il ritardo. Si tenta, da una parte, di proteggere il mercato interno dall'eccessiva penetrazione di capitali, dall’altra di incentivare l’industria esportatrice. I maggiori investimenti esteri arrivano da Hong Kong (nel 1994 il 75%), ma anche da Taiwan e Singapore, con i quali il commercio estero (valutato circa 467 mld $) è quarto al mondo, dopo USA, Germania e Giappone. Il primo partner commerciale della Cina sono gli USA, seguiti a ruota dal Giappone. Si varano agevolazioni fiscali sui redditi a seconda delle localizzazioni delle imprese: sono ovviamente favorite le imprese localizzate nelle zone costiere, dove la aliquota ordinaria sui redditi scende dal 33% al 24% e anche al 15%. Dal 1995, vengono poi ridotte le tariffe doganali anche per la generalità dei prodotti importati, che si riducono di quasi un terzo dal 1992 al 200 (10).

Sul piano finanziario, dopo un periodo di progressiva moltiplicazione di società finanziarie non bancarie che agivano per la domanda a livello locale (e la successiva loro trasformazione e fusione in banche commerciali locali), viene varata la riforma bancaria del 1994-95. Scopo principale era di consentire, attraverso le autorità locali, il “rispetto” della politica creditizia della Banca centrale da parte delle varie banche commerciali locali. I piani creditizi centrali infatti venivano allora fatti “saltare”, e con la riforma verrà deciso di trasformare le quattro banche commerciali pubbliche in banche direttamente responsabili dei propri profitti e perdite. Tale comportamento “più responsabile e prudenziale” agirà però da freno al sistema creditizio, che verrà indirizzato, da parte delle quattro banche commerciali (che raccolgono i tre quarti di depositi e realizzano il 70% dei prestiti), verso le più sicure e garantite imprese statali. Le imprese private, invece, quelle più dinamiche e competitive, dovranno fare ricorso ai circuiti non ufficiali, agli investimenti delle banche estere o all’autofinanziamento. Ma, nonostante quelle condizione di privilegio, le imprese statali si troveranno sempre in condizioni precarie, per cui il loro finanziamento produce, nelle quattro banche erogatrici, un imponente stock di crediti in sofferenza: lo Stato dovrà così intervenire per ricapitalizzare quelle stesse banche, iniettando fondi per un ammontare pari a circa il 3,5% del PIL.

Nel corso degli anni ‘90, la Cina si trova comunque in una fase di grande espansione, di forte riproduzione allargata, di continuo aumento della capacità produttiva (se non della produttività). Si costruiscono nuove fabbriche, nuovi impianti e in alcuni importanti settori (cemento, acciaio grezzo, pneumatici, elettricità) la produzione risulterà raddoppiata, mentre ad es. in Francia, Giappone e Germania è in diminuzione. La produzione industriale, negli anni 1990-97, cresce al ritmo annuo medio del 19%: nel 1996, la produzione di acciaio supera i cento mln. di tonnellate, un livello che pone il paese al primo posto mondiale (nel 1994, era al secondo posto dopo il Giappone e prima degli USA, coprendo il 13% della produzione mondiale, con il Giappone al 13,3% e gli USA al 12,3%)(11). Nel 1993, la popolazione attiva era di 707,5 milioni, di cui 132 nell’industria (18,6%), 114,6 milioni nei servizi (16,2%) e il resto (454 milioni, pari al 65,2%) nell’agricoltura. Vent'anni prima, nel 1973, le percentuali erano, rispettivamente, del 12,3%, del 9% e del 78,7%: dunque, c'era stato un forte aumento della popolazione attiva nei settori dell’industria e dei servizi e un forte calo nell’agricoltura. Sempre nel 1973, come produzione percentuale sul PIL, l’agricoltura è al 34,1%; dopo vent'anni, scende al 18,8%. Nell’industria abbiamo: 1973, 38,4%; 1993: 48,5%. Nei servizi: 1973, 27,5%; 1993, 32,7%. Sempre nel 1993, come percentuale della produzione industriale rispetto a quella mondiale, la Cina si trova al terzo posto (10,2%), alle spalle di USA (19,3%) e Giappone (10,7%). Tenendo conto anche della percentuale della propria popolazione sul totale mondiale, l’indice dell’intensità qualitativa vede scendere la Cina, ovviamente, fino al nono posto, ma con forti potenzialità dovute all’ulteriore utilizzo della popolazione attiva. Già nel 1995, secondo fonti ufficiali, essa diventa la terza potenza mondiale, a ridosso del Giappone e al posto della Russia, dopo la caduta del Muro e il collasso della sua produzione industriale di oltre il 50%. Dopo gli incrementi medi del PIL, nel decennio ’65-’75, del 5,6% e, nel decennio 1975-85, del 7,8 %, nel decennio successivo si arriva a un incremento medio del 10%. L’inflazione cresce con il crescere disordinato della massa di denaro buttata nella circolazione: nel 1994 è al 25%, con punte del 30% nelle grandi città (12).

In campo agricolo, le misure sui prezzi (la loro liberalizzazione, cioè l’aumento dei prezzi dei prodotti dell’industria leggera e dei beni di consumo) fanno salire l’inflazione nelle grandi città, gravando in modo micidiale sui salari già bassissimi. Le misure sulle forme di conduzione (concessioni gestionali più ampie alle famiglie contadine) non danno i risultati sperati. I redditi rimangono molto bassi; i prezzi anche se più sostenuti, devono fare i conti con l’aumento più forte dei costi di produzione (concimi, pesticidi, ecc.). Si cerca di ovviare in parte tralasciando il settore dei cereali per altri più redditizi: nel giro di due decenni (1978-2000), però, la produzione di cereali scende del 12%. Inoltre, la mancanza di infrastrutture nelle campagne e dunque di trasporti crea un forte divario tra le ricche province del nord, che producono in eccesso e accumulano stock, e quelle del sud, che producono pochi cereali. Nel 1993, la durata dei “contratti di responsabilità” per le famiglie contadine viene aumentata da quindici a trent’anni. Le famiglie possono scambiarsi anche tra loro i “diritti di utilizzo” del suolo (vendita, affitto, subaffitto, trasmissione ereditaria del suolo); ma, nonostante le aspettative, tutte queste misure giuridiche non possono sostituire la scarsezza dei redditi (in media, un quarto di quello delle città), insufficienti a sfamare gran parte delle famiglie contadine. L’emigrazione rurale, l’inurbamento, aumentano ancora e quei “diritti” potranno solo tamponare in piccolissima parte, come semplici ammortizzatori sociali, la drammatica situazione, tanto più che nelle campagne, nei distretti rurali, anche le attività industriali vengono sempre meno.

La produzione agricola nel 1994 cresce al basso ritmo del 4,2%, se raffrontata con il PIL (11,8%) o soprattutto con la produzione industriale (18%). L’occupazione agricola, che era del 68%, nel 1980 diminuisce al 57,3% nel 1991. I prezzi agricoli saranno ancora calmierati dallo Stato e in più pesa sui contadini l’onere di numerosi balzelli, contributi, imposte pagate in denaro, in natura o in ore di lavoro, oltre alle imposte ordinarie da pagare alle autorità locali per far fronte alle spese sulle stesse infrastrutture, mal gestite o dilapidate. Tra agosto e settembre dl 1993, si avranno così numerose proteste di contadini, che spesso si trasformano in tumulti nelle distese del Sichuan, dello Henan, di Guandong, di Hanu: si parla di 170 episodi di rivolte, con incendi di fabbriche, fucili rubati o distribuiti, dirigenti malmenati, ecc. Intanto, aumenta l’emigrazione (si stima attorno ai 180-200 milioni di contadini) e sui terreni agricoli ormai spogli delle ex comuni agricole si avventano gli avvoltoi delle speculazioni immobiliari che se ne appropriano (circa 200.000 ha. nel 1993) per compensi finanziari puramente simbolici. Insomma, la Cina vive anch’essa, al proprio interno, i normali drammi di ogni “sud del mondo”, ma il suo sviluppo capitalistico tanto accelerato e tanto più distorto (e così decantato a destra come a “sinistra”), le sue dimensioni geografiche e demografiche, la enorme corruzione, esasperano quei drammi, portandoli a livelli altissimi. Le disparità sociali di reddito sono enormi: si stima che i tre milioni di cinesi benestanti abbiano nelle casse delle varie banche locali più denaro degli ottocento milioni di contadini, senza parlare dei beni portati all’estero.

Lo Stato ha sempre più difficoltà a gestire e mobilitare direttamente risorse finanziarie. Gli introiti delle imprese statali, principale sua fonte di entrata, si sono grandemente ridotti a causa del loro declino, mentre la pressione fiscale su quelle private si è man mano ridotta. Inoltre, il peso del bilancio statale crolla drasticamente, a meta anni '90, a favore di quello delle provincie. S'impongono rigide regole di ripartizione tra i due tipi di bilanci, s'introducono riforme sul piano fiscale, si istituiscono l’imposta sul valore aggiunto e l’imposta progressiva sul reddito delle persone fisiche, sulle società e sui dividendi. Ma, nonostante questi tentativi di “razionalizzazione”, le situazioni sono sempre meno controllabili. Il bilancio delle varie amministrazioni locali non riesce a fare fronte, con le risorse disponibili, alle spese sociali e infrastrutturali e si creano situazioni di forte divario tra le varie amministrazioni locali.

Gli anni 2000: continua la corsa

Nel 2001, il PIL cinese, nonostante gli altissimi tassi di sviluppo annui in termini di valore assoluto, si aggira attorno ai 1.180 Mld $, ancora dieci volte più piccolo di quello USA e dell’area Euro, che si aggira sui 10 Mld $. Se si divide il PIL cinese per la sua popolazione (1 miliardo e 300 milioni), il reddito pro capite è ancora più basso dei più poveri dei paesi europei. Coi dati del 2001 e a venti anni dall’avvio delle privatizzazioni, vi sarebbero in Cina ancora 118 mila imprese statali, la maggior parte delle quali operano in perdita e con scarso livello di competitività: esse generano circa un terzo del PIL, ma assorbono ben due terzi dalla forza lavoro cinese e circa il 40% del PIL nei settori che richiedono ingenti investimenti (energia, chimica, petrolchimica, tabacco, siderurgia, trasporti). Nel solo settore industriale, esse producono il 27% del PIL e impiegano il 70% della forza lavoro. Il governo cinese stimava che la ristrutturazione dell’apparato industriale del settore statale avrebbe reso “superfluo”, cioè eccedente, oltre un terzo della forza lavoro impiegata. Tale liberazione di forza lavoro in eccesso, in tali proporzioni, non è avvenuta, ragione per cui la ristrutturazione delle imprese statali è dovuta procedere a rilento. Tuttavia, nel solo 1999, sono state licenziati dalle imprese statale più di sei milioni di lavoratori.

Le imprese private, dal canto loro, contribuiscono al 30% del PIL, soprattutto nei settori tradizionali (tessile, legno, costruzioni, materiale elettrico), ma la scarsità degli investimenti favorisce lo sviluppo delle imprese a capitale straniero (altro 30% del PIL). Si tratta soprattutto delle imprese di Hong Kong e di Taiwan, che si distinguono per una maggiore produttività del lavoro in settori come materiale elettronico e telecomunicazioni, ma anche auto private, materiale per ufficio, cuoio e calzature. L’industria dell’auto, ancora inesistente a meta anni ’80, si sviluppa negli anni ’90 per mezzo degli investimenti esteri e nei primi anni del 2000 le multinazionali si dividono già i quattro quinti del mercato cinese, producendo localmente molte componenti prima importate e contribuendo allo sviluppo di un sistema industriale più completo, anche grazie alla forte riduzione delle tariffe doganali per il settore. Anche nel settore dell’elettronica, è il capitale di Taiwan a delocalizzarsi in Cina per la sua attività di assemblaggio, realizzando qui il 50% della produzione del settore, più alto di quello nella stessa isola (38%). Nel 2002, in tal modo, si produce in Cina il 50% di DVD mondiali e il 30% di computer e telefoni cellulari. Si tratta però di prodotti ad alta tecnologia importati per l’assemblaggio, che richiedono ancora capacità di “assorbimento” da parte delle industrie cinesi: si cerca di superare questo ostacolo con l’incremento delle spese di ricerca e con sostegni vari alle imprese, che intraprendono l’innovazione tecnologica.

Con l’entrata nel 2001 nell’OMC (13), la Cina dovrà “impegnarsi” ad abolire quasi del tutto il controllo statale sulla maggior parte dei prezzi delle merci e dei servizi. Oltre due terzi dei prezzi dei prodotti agricoli e delle materie prime vengono decisi dal mercato. Lo Stato si impegna, tra l’altro, a sovvenzionare l’agricoltura solo per l’8% del PIL, mantenendo il controllo solo sui prodotti ritenuti di interesse strategico (cereali, olio vegetale, cotone, tabacco). Il risultato sarà l’immediata impennata dell’inflazione che si porta a circa il 20%. Mentre, per la produzione agricola, la Cina sarà costretta a subire la forte concorrenza dei prodotti dei grandi monopoli internazionali, un vantaggio l’ottiene nell’esportazione nei settori produttivi con scarsa tecnologia e alto impiego di forza lavoro con bassi salari. Rispetto alla produzione mondiale, nel paese viene prodotto l’83% dell’abbigliamento per donna e casual, l’80% delle scarpe, il 75% degli articoli sportivi. Con l’entrata nell’OMC, inoltre, la Cina dovrà ridurre fortemente le tariffe doganali su tutti i campi e settori e, nel campo industriale, abbassare le tariffe ancora dal 17 al 9% (soprattutto in quello dell’auto: dal 100% al 25%). In quello dei servizi (commercio) e delle telecomunicazioni, si impegna poi a eliminare tutte le tariffe doganali entro un certo numero di anni. Le banche straniere vengono autorizzate a operazioni con valuta locale con imprese e consumatori; agevolazioni sono introdotte anche per le operazioni delle società di assicurazioni straniere. L’ingresso nell’OMC, l’apertura alle importazioni estere, stimoleranno comunque l’accelerazione delle ristrutturazioni interne sia nel campo industriale che in quello dei servizi.

Il sistema finanziario cinese appare più in difficoltà di quello degli altri paesi asiatici meno sviluppati. Dopo il salvataggio del sistema bancario del 1998-99, se ne richiede uno ancora più forte per poter affrontare la concorrenza delle banche straniere. Sul piano azionario, le società quotate in borsa sono ancora molto poche e sono soprattutto imprese pubbliche, le cui azioni, all’inizio non negoziabili, lo saranno solo a partire dal 2002. Il mercato appare diviso tra azionisti cinesi in valuta cinese e azionisti stranieri in valuta straniera.

Un dato di grande rilievo è il continuo grande sviluppo industriale della fascia costiera del sud est cinese. Nel 2001 (14), mentre per tutta la Cina le esportazioni, in percentuale sul PIL, sono del 23% , l’incidenza delle province costiere è del 33%, di cui la sola Canton il 44% e Shanghai il 45%; le province interne prendono parte solo per il 6%. Quasi identica la situazione per le importazioni: per tutta la Cina, 21%; province costiere 30%; Canton 65%; Shanghai 57%; mentre per le province interne solo il 5%. Il 40% della produzione industriale è realizzata con capitale straniero, quota che raggiunge il 60% a Canton e Shanghai. Mentre diminuiscono nel corso degli anni '90 gli scambi interprovinciali (dal 26 al 16% del PIL), crescono invece quelli con l’estero (dal 10 al 18%), soprattutto quelli delle province costiere e in particolare delle province del Guandong e del Fujian (fortemente integrate e complementari) con Hong Kong e Taiwan. Tra il 1978 e il 2001, il contributo al PIL della fascia costiera (sette province più Pechino, Tianjin e Shanghai) passa dal 48 al 64%. Da notare come, sul piano demografico, non vi sia più stata, in questa zona, alcuna crescita della popolazione attiva dal 1978 al 2001). Lo sviluppo economico, relativamente ancora poco industrializzato nel 1978 e con poche imprese pubbliche, è poi proseguito velocemente senza assunzione di nuova forza lavoro: semplicemente attraverso un aumento della produttività, tramite continui investimenti tecnologici.

Un enorme divario, in termini di produzione e commercio, si produce dunque tra le province costiere e quelle interne, soffocate invece da problemi di ristrutturazione dell’industria pesante e dall’esistenza dominante di imprese statali. Lo Stato, che poteva, qualche decennio prima, realizzare ancora una qualche redistribuzione delle risorse in modo ancora abbastanza omogeneo tra tutte le province, metterà le sue risorse e iniziative a disposizione della rapida crescita capitalistica della fascia costiera, mentre di fatto abbandonerà a se stessa l’economia delle province interne.

Grandi sono le risorse energetiche a disposizione della Cina. Riguardo al carbone, le riserve (114 mld. di tonn., pari al 12% del totale mondiale) si collocano al terzo posto dopo USA e Russia: come produttore e consumatore, il paese è secondo solo agli USA. Nel 2001, la produzione (un mld. di tonn.) assicurava il 70% del consumo di energia commerciale con un aumento delle esportazioni (55 mln. di tonn.). Le riserve di petrolio costituiscono il 2,3 % del totale mondiale (3,3 mld. di tonn.), mentre la produzione (163 mln. di tonn.) nel 2001 cresce meno rapidamente del consumo, per cui si deve ricorrere alle importazioni (80 mln. di tonn.), che coprono il 40% del consumo interno. Nel 2004, la Cina è così il secondo importatore mondiale di greggio, dopo gli USA. La governativa CNOOC (China National Offshore Oil Corporation) tenta la scalata alla storica compagnia petrolifera americana UNOCAL; le tre sorelle petrolifere cinesi (CNOOC, Sinopec, Petrochina) acquistano partecipazioni nelle compagnie russe, nei giacimenti in Sudan, e diritti di estrazione in Gabon e Angola. Si cerca di incrementare la produzione di giacimenti nell’ovest (Xinjiang), nell’Asia centrale (Kazakistan), nella Russia, oltre che nei fondali marini. Le riserve nel mare della Cina del sud (Isole Spratly) suscitano rivalità con altri stati della regione, specie col Giappone. La produzione di petrolio rappresenta il 24% del totale di energia. Le riserve di gas naturale, sempre nel 2001, rappresentano l’1% del totale mondiale (1370 mld di mc), mentre la produzione (30 mln di mc) assicura il 3% del consumo totale di energia. Anche il potenziale idroelettrico è considerevole (sui 379 gW): appena un quinto delle riserve sfruttabili, a coprire il 2% del totale di energia. Comunque, tra importazioni di materie prime e di capitali (IDE) ed esportazioni, vi sarà in Cina quasi un perfetto equilibrio. Dal 1952 al 2000, sia le importazioni che le esportazioni cresceranno dal 5% del PIL al 25%, ed ambedue le voci hanno più o meno lo stesso andamento. La Cina non conoscerà così alcun debito estero: non solo importazioni ed esportazioni si bilanciano ma vengono accumulate nel tempo forti riserve valutarie (a fine 2000, circa 156 miliardi di dollari) che le permettono di non svalutare la propria moneta, consentendo l’afflusso di capitali esteri, e di respingere gli attacchi speculativi alla propria moneta (15).

La concorrenza sul mercato interno ed esterno e la crisi asiatica del 1997-98 hanno spinto verso una radicale ristrutturazione che ha accresciuto la produttività a discapito dell’occupazione. Anche l’industria statale elimina il 35% di proletari (da 44 a 28 milioni nello stesso periodo). Tuttavia la Cina, sempre nel 2001, nonostante quel forte recupero, accusa ancora un forte ritardo nella produttività industriale nel suo complesso rispetto agli altri paesi, anche se le differenze con i settori in cui è presente il capitale estero (elettronica, tessile, costruzione auto) si sono andate notevolmente ridotte. L’eliminazione dell’esubero di occupazione viene sostenuta da misure politiche. Nel 1979, viene lanciata la “politica del figlio unico”, che dal 1984 viene applicata rigorosamente solo nelle grandi città. Il tasso di natalità, dal 37 per mille degli anni '50, si riduce così al 34 agli inizi e al 18 per mille alla fine degli anni ’70, per ridursi ancora, alla fine degli anni ’90, al 16 per mille. Dato che anche il tasso di mortalità si riduce al 6,5 per mille, la differenza tra i due tassi (16–6,5) indica che la popolazione cinese aumenta al 10 per mille l’anno: su un miliardo e trecento milioni di popolazione, crescerebbe così di 13 milioni l’anno. Le esigenze produttive del profitto sono così assecondate e sostenute non solo con la riduzione del tasso di natalità, ma anche con l’aumento del tasso di mascolinità: il rapporto tra il numero di nati maschi e di nate femmine cresce nel 1995 al 1,15. Nel 2000, la fascia di età tra 10 e 14 anni contava 170 milioni di maschi e 150 milioni di femmine.

NOTE

(1) F. Lemoine, L’economia cinese, cit., pag. 39.

(2) Cfr. “Riformismo cinese in corsa”, Il programma comunista, n. 3/1988.

(3) Cfr. anche “Cina e URSS fra 'socialismo reale' e 'socialismo primordiale'”, Il programma comunista, n. 1/1988.

(4) La Costituzione del 1954, nei suoi art. 5-12, fa appello all’iniziativa privata e individuale sulla base di quattro forme di proprietà terriera e industriale, riconosciute e protette.

(5) Su questo aspetto, cfr. “Riformismo cinese in corsa”, cit. sopra.

(6) “Che i gatti siano neri o bianchi non importa, purché catturino i topi”.

(7) Il sole 24 ore, 14/1/1992.

(8) Le Monde diplomatique riporta un numero di scioperi fra i 6000 e i 12000 nel corso del 1993, in tutti i settori, con occupazioni di imprese, distruzioni di edifici, scontri con la polizia, ecc.

(9) Cfr. “La lunga marcia dell’imperialismo cinese”, Il programma comunista, n. 5/1995.

(10) F. Lemoine, L’economia cinese, cit., tab. 2.4, pag. 49.

(11) Cfr. “La Cina e l’acciaio”, Il programma comunista, n.1/1997.

(12) Cfr. l'inserto “Aggiornamento sul corso del capitalismo” (con relative tabelle), supplemento al n. 2/97 de Il programma comunista.

(13) Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO), succeduta al GATT nel 1995.

(14) I dati economici riportati più avanti sono tratti da F. Lemoine, L’economia cinese, cit.

(15) F. Lemoine, L’economia cinese, cit.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2014)

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