L’analisi della spesa in armamenti s’inserisce nel quadro più generale di analisi economica cui ci dedichiamo da tempo, in quanto rappresenta uno degli indicatori della tendenza del capitale alla guerra come soluzione estrema per uscire dalla crisi.

Una premessa

Il capitale va infatti incontro a cicliche crisi mondiali di sovrapproduzione, che possono essere risolte solo con la guerra. È la storia stessa a confermarlo. È quanto avvenne con la crisi che ha preceduto la Prima guerra mondiale e ha dato inizio alla fase imperialista e monopolista. Ed è quanto si è ripetuto di nuovo con la crisi del ’29, da cui si è usciti solo con la Seconda guerra mondiale. A quest'ultimo proposito, in un articolo del 1977 dedicato proprio agli armamenti, ricordavamo che lo Stato “intervenne massicciamente nell’economia (chiamando anche alla responsabilità i sindacati) e si realizzarono giganteschi piani d’investimenti pubblici. Oggi si riconosce che tutto ciò ebbe un effetto secondario sull’economia americana, che infatti nel 1937-38 riprecipitò verso la crisi: solo gli stanziamenti per il riarmo nel ’38 inaugurarono una ripresa ‘vigorosa’ e si raggiunsero i massimi storici d’incremento della produzione” 1. Non siamo solo noi a dirlo. Lo riconoscono anche gli analisti borghesi – ad esempio, il borghesissimo premio Nobel per l'economia Douglas C. North: “Non siamo usciti dalla Depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda Guerra Mondiale" 2. Gli stessi Baran e Sweezy scrivono, nel loro Capitale monopolistico: “Considerato come operazione di salvataggio dell’economia degli Usa nel suo complesso, il New Deal fu un palese fallimento. Anche Galbraith […] ha riconosciuto che nel decennio 1930-1940 l’obiettivo non fu neppure sfiorato. Secondo le sue parole ‘la grande crisi non terminava mai’. Essa scomparve soltanto con la grande mobilitazione degli anni ’40. La spesa militare fece ciò che la spesa sociale non era riuscita a compiere” 3. Insomma: Warfare is better than welfare!

Le cifre, del resto, parlano da sole. Durante il New Deal rooseveltiano, la spesa pubblica civile era cresciuta dai 10,2 miliardi di dollari del 1929 ai 17,5 del 1939. Ciò però non aveva potuto impedire che, nello stesso periodo, il PIL calasse da 104,4 a 91,1 miliardi di dollari e che la disoccupazione invece salisse dal 3,2% al 17,2% della forza lavoro complessiva. Dal 1939, lo scenario cambia. Il sistema economico è dapprima tonificato dalla vendita di armi agli inglesi e ai francesi (ma, come oggi sappiamo, le grandi imprese americane, dalla Ford alla IBM, non disdegnarono di fare contemporaneamente affari anche con i nazisti), e poi definitivamente rimesso in carreggiata con l'ingresso diretto degli USA in guerra (dicembre 1941): il PIL riprende a crescere, la disoccupazione viene praticamente azzerata 4.

Ma la dialettica ci insegna che, sebbene la guerra costituisca un bagno di giovinezza per il capitale consentendogli di avviare un nuovo ciclo di espansione, quest’ultimo non si ripete mai in maniera identica. Vi sono diversi rapporti quantitativi che determinano differenze qualitative. In altri termini, la storia e lo sviluppo precedenti lasciano delle tracce. I cicli quindi si ripetono, ma ad un livello superiore. Ad esempio, subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale la dirigenza USA aveva ben presente che era stata la crescita vertiginosa della spesa militare a far uscire il mondo dalla Grande Depressione e quindi temeva che la diminuzione delle spese militari potesse invertire questo processo, con il pericolo che il mercato crollasse, che la disoccupazione spiccasse il volo e che perfino la “legittimità” del capitalismo fosse messa in discussione. Cercando di allontanare questa prospettiva, nel 1950 il Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli USA stendeva un documento top-secret, chiamato NSC-68. Il documento, che sarà declassificato solo nel 1977, raccomandava in modo esplicito al governo di dare l’avvio a spese militari più alte, come modo per prevenire un tale esito.

Dopo la Seconda guerra mondiale, il capitalismo non ha riportato il livello di spesa militare alla fase pre-crisi. Si è succeduta una serie di guerre: di Corea, del Vietnam, la “guerra fredda” con relativa spesa in armi nucleari e poi il progetto di scudo atomico dagli anni 80; quindi, ci sono stati gli interventi nel Corno d’Africa e nei Balcani, e infine le guerre in Iraq e Afghanistan.

Dal Grafico 1, si può osservare come i livelli di spesa militare degli Usa siano rimasti relativamente alti anche dopo la fine della guerra.

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Se volessimo aggiornare la tendenza fornita da questo grafico, utilizzando come fonte il SIPRI (Istituto Internazionale di Ricerche sulla Pace di Stoccolma), vedremmo che la spesa militare USA negli ultimi anni si mantiene pressoché stabile, su valori dell’ordine del 4,7 % del PIL.

Determinare con un anticipo di molti anni l’inizio della fase di preparazione di un terzo conflitto mondiale è impossibile: infatti, una netta accelerazione nella spesa militare si ha solo nella fase immediatamente precedente lo scoppio del conflitto. Ciò che interessa non è stabilire la data d’inizio, che non dipende solo dalla spesa in armamenti ma anche da altri fattori economici, politici e sociali (come ad esempio il livello della lotta di classe), bensì di comprendere le tendenze generali.

 

L’accelerazione dell’ultimo decennio

Facendo riferimento all’ultimo rapporto annuale del SIPRI, pubblicato nel 2013 e riportante stime relative all’anno 2012, si nota subito che le spese militari mondiali hanno raggiunto la colossale cifra di 1745 miliardi di euro nel 2012, con una crescita addirittura superiore al 50% rispetto alle spese del 2000. A una prima analisi dei dati per macro aree geopolitiche, risulta che la distribuzione della spesa militare nel 2012 evidenzia “i primi segnali di uno spostamento del baricentro dall’Occidente verso altre parti del mondo, in particolare Europa orientale. […] Una decelerazione meno incisiva delle spese militari si è registrata in Europa orientale e Asia sudorientale. Al contrario, il tasso di crescita è aumentato in Medio Oriente e Africa settentrionale. L’effetto complessivo sul totale mondiale è stato una crescita ridotta” (cfr. Sipri Yearbook 2013).
 

I paesi con il maggiore incremento nelle spese militari nel periodo 2003-2012 sono: Cina +175%; Russia +113%; Arabia Saudita +111%; India +65%; Brasile +56%; Corea del Sud +44%; Canada +36%; USA +32%; Australia +29%. I dati forniti dal SIPRI sono confermati, in linea di massima, come tendenza, anche da altre fonti, che riportano spese relative al 2013 e 2014. I dati relativi al 2013 forniti dall'IISS (International Institute for Strategic Studies) vedono la spesa militare statunitense a 600 miliardi di dollari, davanti a Cina (112), Russia (68), Arabia Saudita (60), seguiti da Regno Unito e Francia (entrambi 57), Giappone (51), Germania ( 44) e India (36). L'Italia si classifica al 13° posto con 25 miliardi di dollari. Il rapporto dell'IISS evidenzia come 8 dei primi 15 Paesi che più spendono per la Difesa appartengano all'area Asia/Pacifico (oltre a quelli citati vi sono anche Australia e Corea del Sud) – un trend che è confermato anche dal rapporto IHS Jane's (società di consulenza per la difesa e il settore aerospaziale) che prende in considerazione invece le spese militari globali relative al 2014: dopo cinque anni di continua flessione, si ha un'inversione di tendenza con un +0,6 per cento, passando da 1.538 miliardi di dollari a 1.547 miliardi. Anche per queste altre fonti si conferma che Stati Uniti ed Europa continuano a tagliare i budget militari, mentre l'incremento è da attribuire soprattutto alla corsa al riarmo che coinvolge l'Asia e che nel 2014 vedrà la spesa militare cinese salire ufficialmente a 148 miliardi di dollari e dovrebbe raggiungere nel 2015 i 159 miliardi. La Corea del Sud entrerà nella "top ten" dei Paesi che più spendono per la difesa e Tokyo rafforzerà la sua posizione; in Medio Oriente, paesi come Arabia Saudita e Oman hanno aumentato di oltre il 30% i propri budget negli ultimi tre anni; ambiziosi programmi anche per la Russia, terza nel mondo per le spese militari, che sta innalzando del 44% in un triennio il suo budget annuale, per portarlo a 196 miliardi di dollari nel 2016.


Cerchiamo ora di vedere più in dettaglio le spese delle potenze imperialistiche dominanti (dove non specificato ci riferiamo ai dati del SIPRI Yearbook 2013).

 

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USA

Con 684 miliardi di dollari, rappresentano da soli il 38% della spesa globale nel 2012. Benché le loro spese abbiano subito, in un solo anno, un decremento del 5,6%, il livello di spesa è più alto del 69% rispetto al 2001, quando cominciò la cosiddetta “guerra globale al terrorismo” (vedi Grafico 2). Gli USA rimangono il maggiore acquirente di sistemi d’arma al mondo. Anche se la loro quota sul globale mondiale di spesa, per la prima volta dal crollo dell’Unione Sovietica, scende nel 2012 sotto il 40%, essa rimane maggiore della spesa complessiva dei successivi dieci Paesi al mondo, a scorno di tutti gli ingenui che avevano salutato e premiato Obama come il pacifista mondiale per eccellenza.

Di fatto, se da un lato il presidente Obama decide di estendere lo stato di allerta nei confronti della Russia a causa del suo incremento nella produzione bellica a base di materiale fissile all’uranio arricchito, dall’altro egli non disprezza di firmare contratti per allargare i propri arsenali. Come ha affermato Freeman, direttore del Progetto SIPRI, “La prima potenza imperiale è, senza sorpresa, il paese con le più grandi spese in armi nel mondo”. Non deve quindi suscitare sorpresa alcuna il dato effettivo che vede gli USA proiettare la propria potenza di fuoco con circa 1000 basi militari su tutto il pianeta e, benché non esistano dati precisi sul loro numero in Italia (alcune sono state dismesse, altre sono state integrate e sostituite o spostate in altri paesi), possiamo dire che esse superino le 100 unità operative territoriali. Il progetto di scudo spaziale avviato da Bush negli anni ’80 è in uno stato di quiescenza, ma non è stato bocciato.

Ora, noi non possiamo trarre conclusioni sugli sviluppi futuri in base ai soli dati dell’ultimo anno e nemmeno dell’ultimo decennio. Il rapporto tra crisi economica e corsa agli armamenti non è meccanico: è mediato in termini dialettici da fattori politici e sociali. La flessione al lieve ribasso degli ultimi anni è solo un riflesso politico e immediato, temporaneo, del tentativo della nuova dirigenza USA di costruirsi una facciata pacifista. Analizzando i dati sul lungo periodo, gli USA mantengono ben salda la loro posizione di dominio imperialistico mondiale. E’ stato il crollo economico del principale concorrente, l’URSS – con la conseguente distruzione di gran parte del suo apparato militare, equivalente a una sconfitta di guerra – a permettere agli USA di instaurare il “nuovo ordine mondiale” senza dover incrementare in maniera eccessiva il proprio apparato militare. Per tutto il periodo degli anni ’90, in cui sulla Russia pesavano le conseguenze del crollo economico, gli USA hanno potuto ridurre le proprie spese militari: sono riusciti addirittura a impegnarsi nelle guerre del Golfo, facendole pagare in gran parte ai loro alleati. Solo dal 2001, in rapporto con la cosiddetta “guerra al terrorismo”, si ha una nuova tendenza al rialzo. In effetti, questo rialzo è legato alla recessione precedente agli attentati dell’11 settembre 5 e al presentarsi sulla scena di nuovi concorrenti per il controllo di aree strategiche dal punto di vista degli scambi commerciali e delle risorse energetiche: Europa dell’Est, Medio oriente, Pacifico sud occidentale-Asia orientale. Da anni, gli Usa sono impegnati su questi tre fronti strategici e devono confrontarsi con concorrenti che stanno aumentando la propria spesa militare: Cina, Russia, Iran e India 6.

Nonostante lo stallo in cui si trova ora il progetto di scudo spaziale a causa di tensioni politiche, si può affermare che per l’amministrazione americana il progetto di scudo anti-missile (Nmd, National Missile Defense), il cui costo viene valutato fra i 60 e i 100 mld di dollari, non potrà che farsi strada come una necessità: “un nuovo volano di spesa pubblica e quindi di sostegno alla domanda del settore industriale pesante, oltre che come attivo ‘deterrente’ nei confronti tanto dei concorrenti capitalistici quanto del proletariato asiatico ed europeo” 7. Inoltre, gli Usa si trovano in una fase di transizione e stanno spostando le loro truppe dal fronte eurasiatico e medio-orientale a quello del Pacifico sud Occidentale.

 

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Cina e Asia

Dal canto suo, anche la Cina ha imparato bene a utilizzare il pretesto della lotta al terrorismo contro le spinte separatiste dei “terroristi uiguri” della provincia dello Sinkiang per giustificare il proprio riarmo, ma in realtà lo scopo è più ampio e generale. La Cina è divenuta di recente la seconda potenza economica mondiale: deterministica conseguenza è l’incremento delle spese militari di parecchi punti percentuali: con i suoi 166 miliardi di dollari nel 2012, lo Stato cinese spende il 7,8% in più rispetto all’anno precedente. L’incremento del colosso asiatico è del 175% nel decennio 2003-12, il più significativo fra i 15 maggiori acquirenti del mondo (vedi Tabella seguente). Altri paesi dell’area che si fanno notare per incrementi importanti nel decennio in questione sono il Vietnam (+130%) e l’Indonesia (+73%).

La Cina ha triplicato negli ultimi dieci anni la sua spesa in armi, e a partire dal 2008 è diventato il secondo paese al mondo al riguardo, nonostante il fantomatico embargo; inoltre, raggiunge attualmente il quinto posto come esportatrice di armamenti, strappando la posizione alla Gran Bretagna 8.

Pechino compra sempre meno armi 9, ma produce da sé l’incremento delle proprie dotazioni militari. Inoltre, esporta alta tecnologia in quantità sempre crescenti, specialmente verso il Pakistan o l’Indonesia (con cui ha in progetto una collaborazione militare per produrre i missili antinave C-705 di concezione moderna), trasformandosi in vera e propria potenza militare, consapevole del fatto che dovrà allungare le proprie propaggini a livello internazionale, preparandosi allo scontro per la definizione dei rapporti di forza imperialistici. Come abbiamo già evidenziato in precedenti articoli 10, la Cina si proietta con sempre maggiori ambizioni di dominio su tutta l’area del Pacifico sud-occidentale. Scrive AGICina: “La Cina sta andando verso una prima classe di portaerei di almeno tre unità. Lo stesso vale per il programma missilistico che è ormai ben consolidato. Il People's Liberation Army Daily, il quotidiano dell'esercito, ha pubblicato a gennaio di quest’anno le immagini del Dongfeng-31, il nuovo missile a lunga gittata che la Cina mette in campo come deterrente nei confronti degli Stati Uniti per le dispute territoriali sul versante occidentale dell'Oceano Pacifico. Secondo i primi esperti, il missile potrebbe raggiungere gli Stati Uniti, e sul portale sohu.com sono apparse immagini dei primi militari impegnati nei test di prova della nuova arma”. Secondo fonti australiane e britanniche, la Cina progetta di varare sino a 12 sottomarini nucleari lanciamissili classe Xia, capaci di portare una bomba da due megatoni a 3.000 km. Sta poi costruendo su licenza russa 150 caccia Sukhoi 27 capaci di rifornimento in volo e comprando aerei-radar.

Ma la Cina è attiva anche sul fronte africano e medio-orientale. E’ notizia recente la vendita di missili alla Turchia: a settembre del 2013, “La Turchia ha annunciato, a sorpresa, di aver siglato un accordo per l'acquisto di missili a lungo raggio e di un sistema di difesa missilistica per un valore di 4 miliardi di dollari con una azienda cinese, una società per di più colpita da sanzioni dagli Stati Uniti, il maggior alleato di Ankara. Il governo turco ha scelto i cinesi rifiutando le offerte di società rivali americane, russe, ed europee tra cui il consorzio italo-francese Eurosam SAMP” (Il sole 24 ore, 23/9/2013). Sono seguite naturalmente pressioni politiche da parte dell’Europa e degli USA. A febbraio 2014, il governo turco annuncia che potrebbe tornare sui propri passi e si dà tre mesi di tempo per decidere se acquistare i missili cinesi o quelli occidentali. Tutto ciò non fa che confermare il quadro generale e la tendenza al riarmo e allo scontro commerciale tra imperialismi, preludio di quello militare
 

Quest’attivismo cinese ha provocato in tutta l’area asiatica una corsa al riarmo generale, che coinvolge anche i piccoli paesi, i quali, per non restare tagliati fuori dal grande gioco, si sono visti costretti a buttarsi nell’acquisto di armamenti, tra cui in particolare missili a medio e lungo raggio. L’Indonesia necessita di una partnership con la Cina al fine di migliorare la tecnologia missilistica; Taiwan – che aveva abbandonato le ricerche in campo nucleare all'inizio degli anni '70, in seguito alla pressione americana – ora prospetta un riavvio delle stesse e nel campo dei vettori ha già sviluppato il missile Chieng Feng con una gittata di 130 km, ma lavora alacremente sul vettore Tien Ma di maggiore autonomia; la Corea del Sud sta rapidamente emergendo fra le potenze militari del Sud-Est asiatico, con spese per la difesa in progressivo aumento: da una quota di bilancio pari al 3% nel 1996 è passata all’11% nel 2011, necessari per la produzione dei missili l'NHK-1 (gittata di 250 km) e per assemblare, assieme a Taiwan, moderni lanciatori spaziali utili per dotarsi di missili balistici intercontinentali; notevoli progressi vengono fatti anche in Corea del Nord, specie nel settore della missilistica, dove spicca la produzione in proprio dei temibilissimi Nodong-1 (gittata 1000 km), che solo pochi mesi fa si dice siano stati puntati sulle coste occidentali statunitensi.

Questo riarmo regionale spinge particolarmente India e Giappone ad adottare misure strategico-militari adeguate per controbilanciare la pressione cinese, trasformando l’area Asia-Pacifico, che già sul piano economico presenta tassi di sviluppo più dinamici rispetto alle aree di vecchia industrializzazione, nel primo mercato di armi al mondo. Il Giappone, che spera in un graduale affievolirsi della presenza militare americana, accelera al massimo l’integrazione fra la produzione civile e quella militarizzata, ansioso di controllare le rotte petrolifere nel Mar Cinese Meridionale. I movimenti nazionalisti nipponici chiedono con vigore crescente l'adozione di una nuova strategia militare e Tokio ormai non esclude nemmeno più la possibilità di produrre l'arma nucleare. Il programma di utilizzo del plutonio per scopi civili lascia intendere, infatti, un impiego per possibili usi bellici, pur restando evidente il tentativo di diminuire la dipendenza energetica dall'estero. Ulteriore conferma di questa lettura della politica giapponese è rappresentata dalla rielezione del primo ministro nipponico Abe, che ha condotto la campagna elettorale utilizzando come slogan principale la modifica dell’articolo 9 della Costituzione, che impedisce al Giappone di avere un vero esercito, e ricordando che la Costituzione del dopoguerra fu imposta dagli Stati Uniti.

Le tensioni nel Mar Cinese Meridionale e Orientale hanno favorito l’“amicizia” in chiave anti-cinese fra il premier nipponico e l’omologo vietnamita, e proprio questo elemento va ritenuto di particolare interesse, poiché, se da un lato gli USA in difficoltà di bilancio tendono ad assecondare il Giappone come gendarme della regione, dall’altro essi temono una politica d'armamento nipponica eccessivamente autonoma, tanto da poter produrre un ritorno dell’esasperato militarismo di Tokio.

 

Russia

Prima del crollo dell’URSS, il comparto tecnologico militare raggiungeva una spesa di poco superiore ai 400 miliardi di dollari annui. Oggi Mosca dichiara una spesa militare di circa 96 miliardi di dollari annui, In seguito al crollo del 1991, la Russia ha dovuto tagliare il proprio budget militare in modo considerevole. Questo trend “negativo” ha invertito la corsa a partire dal 1998: lo Stato russo continua a giocare un ruolo decisivo all'interno dell’economia nazionale, ancora molto orientata verso l'estrazione e le esportazioni di risorse, sostenendo con le spese militari un settore manifatturiero relativamente debole se paragonato al capitale impiegato nell’energia. Come abbiamo già evidenziato, nel periodo 2003-2012 la spesa in armamenti della Russia è cresciuta del 113%. Il ministro della Difesa russo, Yuri Borisov, ha reso noto – come riporta RIA Novosti – che nel 2014 la spesa militare crescerà del 25 % rispetto all’anno precedente, per lanciare un ambizioso progetto di riarmo che dovrebbe toccare i 640 miliardi di dollari entro il 2020, dando priorità all’aspetto qualitativo rispetto a quello quantitativo 11.

Esiste quindi una nuova propensione di potenza della Russia, come dimostrato anche da altri fattori oggettivi: missili Iskander nell’enclave di Kaliningrad nel cuore dell’Europa; nuova difesa antiaerea; grande attivismo in Armenia e nell’Asia Centrale; le continue tensioni in Ucraina e più in generale lo scontro per il controllo dell’Europa orientale, in cui la Russia vuole riguadagnare le posizioni cedute a causa della sconfitta nella “guerra fredda”; l’alleanza tra Russia e Cina; gli scontri in Siria e in Iran contro gli USA ed i relativi successi diplomatici della Russia, impensabili negli anni ’90 (né va dimenticato che la Russia è il maggior fornitore di energia all’Europa occidentale). A luglio 2013, si è poi svolta l’esercitazione militare combinata tra Russia e Cina, denominata “Mare unito 2013”: essa ha avuto un'importante eco dal punto di vista geopolitico, tanto che, secondo il New York Times, le manovre congiunte tra Cina e Russia avrebbero inaugurato una nuova fase, di rapporti più stretti, tra i due Paesi. Le esercitazioni, infatti, devono essere considerate come la risposta alla strategia Usa – la cosiddetta “Pivot to Asia” – di allargamento della propria sfera di interessi nell'area. “Mare unito 2013” ha anche rafforzato il rapporto commerciale tra il Dragone e la Russia, dopo che a marzo il presidente cinese Xi Jinping aveva scelto Mosca come meta della sua prima visita ufficiale nelle vesti di successore di Hu Jintao e a seguito degli ultimi accordi che sembrano orientati alla creazione della grande “Eurasia” voluta dal presidente russo Vladimir Putin 12.
 

Ulteriori conferme delle tendenze fin qui delineate vengono dai dati forniti dal Sofex (Strategic Operations Forces Expo), la “fiera” mondiale delle armi svoltasi ad Amman, che ha registrato la partecipazione di 680 esperti del settore: Mosca mantiene i suoi piani di spesa ulteriore, nonostante i severi problemi economici, registrando un incremento del 13% rispetto all’anno 2012, e addirittura dell’86% nell’arco di un intero decennio, conscia del fatto che il Dragone cinese procede con la propria crescita economica, vincolandola alle proprie ambizioni di superpotenza nello scenario internazionale.

 

Dalle cifre alla prospettiva futura

Le cifre sopra riportate rivelano in modo inconfutabile che esiste una relazione simbiotica fra crisi capitalistica e capitale destinato alle armi. Solo apparentemente gli USA stanno disarmando: lo si può credere solo se si leggono i dati in maniera statica e meccanica. Il calo recente nella spesa militare degli Usa è in larga parte determinato dalla diminuzione dei fondi supplementari destinati alle OCO (Overseas Contingency Operations, le missioni all’estero) e solo in minima parte dagli effetti del Budget Control Act del 2011 che ha determinato un taglio di 487 miliardi di dollari tra gli anni fiscali 2012 e 2021. Negli anni a venire, in base al cosiddetto sequestration, cioè i tagli automatici, le spese per la Difesa dovrebbero diminuire di circa 500 miliardi di dollari in 10 anni. Ciò porterebbe al riassetto degli equilibri mondiali anche a breve termine, soprattutto se sommati all’analoga tendenza in atto per tutto l’Occidente. Ma nel lungo periodo non può darsi una politica di disarmo degli USA: prima o poi, le necessità economiche si affermeranno sugli orientamenti politici. Nonostante la politica pseudo-pacifista del governo Obama, gli Stati Uniti destinano ancora a questo settore più del 4% del proprio PIL: da soli, rappresentano quasi il 40% dell’intera spesa militare mondiale e il divario con i principali concorrenti è ancora enorme.

Ma, soprattutto, il calo della spesa sarebbe dovuto al fatto che, almeno nelle condizioni attuali, la strategia americana starebbe attraversando un “periodo di transizione”: alla smobilitazione in Afghanistan e Medio Oriente, si accompagna un concentramento di truppe nel Golfo Persico, Oceano Indiano, Pacifico occidentale – un’impostazione basata su una maggiore capacità e velocità di spostamento delle forze. La politica di Obama del lead from behind (“guidare da dietro”) si coniuga molto bene con una strategia che prevede forze altamente proiettabili con basi a distanza dagli eventuali teatri operativi: è l’“imperialismo delle portaerei” 13. Le strutture USA in Bahrain subiranno un consistente ampliamento con conseguente aumento del personale, soprattutto della U.S. Navy. Lo stesso dicasi per l’Australia, in prospettiva di un controllo delle rotte oceaniche. Accordi appositi per l’aumento del traffico militare e delle portaerei USA sono stati stretti con Australia, Bahrain, India, Indonesia, Filippine e Singapore.

Sempre in funzione di un contenimento dell’espansionismo cinese, il 2014 vedrà anche il consolidamento della presenza militare USA in Africa con un bilancio netto che vede circa 5000 uomini in più. Allo stesso tempo, gli USA non possono permettersi di concedere alla Cina il controllo delle riserve energetiche del Medio Oriente. Leggiamo su Geopolitica. Rivista dell’Istituto di alti studi in geopolitica, gennaio 2012: “L’Iran concentra su di sé l’ostilità degli Stati Uniti non solo a causa delle sue vaste riserve di energia e delle sue risorse naturali, ma anche poiché importanti considerazioni geo-strategiche lo rendono un trampolino di lancio ideale contro Russia e Cina. Gli USA non vogliono acquisire il controllo degli oleodotti e gasdotti iraniani per sole ragioni economiche o di consumo diretto. Washington vuole mettere la museruola alla Cina attraverso il controllo della sicurezza energetica cinese e desidera che i dollari USA siano la moneta di scambio per le esportazioni energetiche iraniane, in modo da assicurare l’uso continuo del dollaro nelle transazioni internazionali. Come se non bastasse, l’Iran ha stipulato accordi con partner commerciali come la Cina e l’India, in cui le transazioni commerciali non avranno luogo in euro o in dollari statunitensi. Nel gennaio 2012, Russia e Iran hanno sostituito, per i propri scambi bilaterali, il dollaro statunitense con le rispettive monete nazionali, il rublo russo e il rial iraniano, sferrando un duro colpo al cuore economico e finanziario degli Stati Uniti. Russia, Cina e Iran supportano fermamente la Siria. L’assedio diplomatico ed economico contro la Siria è legato alla posta geo-politica in gioco per il controllo dell’Eurasia. L’instabilità della posizione siriana è legata all’obiettivo di combattere l’Iran e di trasformarlo, infine, in un partner degli Stati Uniti contro Russia e Cina. Lo spiegamento di migliaia di truppe statunitensi in Israele per Austere Challenge 2012, poi cancellato o posticipato, era finalizzato a far aumentare la pressione contro la Siria”.

Nel quadro dell’analisi dei poli imperialistici non ci siamo occupati della Germania e dell’Europa. Germania, Francia e Italia spendono complessivamente circa 140 miliardi di dollari, ossia meno della Cina. E di fatto tutti gli analisti sembrano non tenere in considerazione l’Europa e la Germania nella valutazione dei rapporti di forza militari tra poli imperialisti, dando per scontata e irreversibile una politica di non belligeranza, nonostante il recente attivismo della Francia. Al limite, ci s’interroga sull’allineamento futuro dell’Europa agli USA o alla Russia, ma con ruoli da comparsa. Noi crediamo invece che, prima o poi, anche la Germania dovrà dotarsi di un apparato militare corrispondente alla sua forza economica e alle sue proiezioni di potenza – nonostante tutte le ipocrite e idiote remore storiche di cattiva coscienza e la costituzione pacifista e antimilitarista impostale dall’ideologia e dalla forza politica e militare dei vincitori della Seconda guerra mondiale 14. Attualmente, circa il 40% del consumo interno di energia in Germania arriva dalla Russia, anche per la scelta di ridurre l’utilizzo del nucleare e delle proprie risorse di carbone. Può la Germania dipendere in maniera così rilevante dalle importazioni di energia e tuttavia non avere una forza militare necessaria a garantire la sicurezza del suo approvvigionamento? D’altronde, nonostante questa politica di relativo disarmo, la Germania mantiene viva e prospera una capacità potenziale di riarmo: pur avendo ridotto la dotazione militare negli ultimi anni, allo stesso tempo rappresenta il terzo esportatore mondiale di armi nel settore dopo i colossi USA e Russia. Il report del Sipri mette in evidenza la crescita incredibile dell’export tedesco negli ultimi cinque anni, in particolare grazie alle esportazioni extra-europee e soprattutto verso il Medio Oriente (Arabia Saudita e Israele sono tra i maggiori acquirenti di tank e veicoli armati di vario genere), l’Africa e l’Asia. Questa rinascita si deve soprattutto ai due colossi dell’industria civile/militare tedesca, la Rheinmetall e la Krauss-Maffei Wegmann (gli equivalenti dell'italiana Finmeccanica).

L’imprenditoria bellica è inscindibile dai rapporti strettissimi con il cartello energetico e delle banche 15, una fitta rete di interessi che legano le élites militari-industriali all’alta finanza planetaria. Sono questi, in ultima analisi, i fattori determinanti, che quindi vanno monitorati con attenzione nel prossimo futuro. Ma per capire in che misura un terzo conflitto mondiale vada preparandosi, occorre legare dialetticamente l’evoluzione storica di questi fattori determinanti con quella dei fattori di carattere politico e sociale, cioè i rapporti tra gli Stati e tra le classi. In questo senso, dato il livello ancora basso della capacità di difesa e di lotta del proletariato, si può dire che un nuovo conflitto mondiale non sia ancora vicino: per il momento, il proletariato non costituisce ancora una reale minaccia per la classe dominante.

Nel legame tra gli aspetti determinanti e i rapporti tra gli Stati e tra questi e il proletariato, si avranno una serie di alleanze, temporanee ed estremamente instabili, che troveranno un posizionamento più saldo solo nei periodi strettamente prebellici. Per noi, tutti i dati, oggettivamente, non fanno che confermare ciò che già avevamo affermato dopo un’attenta analisi dei precedenti conflitti mondiali: che cioè essi non furono solo una questione di territorio, controllo, potere, profitto e imperialismo, ma anche l’espressione della lotta fra le classi nelle diverse condizioni storiche. La guerra non rappresenta soltanto il frutto naturale del capitalismo – un frutto velenoso soprattutto per il proletariato in quanto carne da cannone – , necessario di volta in volta a ridare impulso a una economia che, perduto lo slancio espansivo trasmesso dalla ricostruzione postbellica, ricade per l’ennesima volta nella palude della sovrapproduzione. Il capitale vive in funzione della guerra, nella stessa misura in cui essa è funzionale alla crescita del profitto e alla sua stessa sopravvivenza: a questo fine, il proletariato va sempre più represso e disciplinato.

Come già avvenuto in passato, le borghesie nazionali cercheranno di riassorbire la manodopera in eccesso mediante programmi di riarmo ancor più pronunciati rispetto alla già intensa produzione bellica attuale: in questo modo, vorrebbero anche alleggerire la tensione tra le classi. Quanto alla piccola borghesia, nelle sue varie vesti, pacifiste o interventiste, essa sarà sempre pronta a schierarsi a favore degli interessi dell’economia nazionale – e dunque della guerra.


A prescindere da quali possano essere i fronti di contesa inter-imperialistica, che non possono essere previsti già da ora, noi comunisti sappiamo che, per mantenersi in vita, il modo di produzione capitalistico, in situazioni di crisi profonda, non può fare a meno di distruggere merci e forze produttive in eccesso, tra cui la forza lavoro (per poi rimetterla alla catena, nel ciclo economico espansivo successivo). La vittima da immolare sarà, ancora una volta, com’è successo nei due conflitti precedenti, il proletariato mondiale. Sarà compito di quest’ultimo, sotto la guida del partito comunista, impedirlo.


 

1 “Armamenti: un settore che non è mai in crisi”, Quaderni del Programma Comunista, n°2, giugno 1977, pp.29-30.

2 Douglas C. North, “Una nuova economia di guerra”, intervista pubblicata sul Sole 24 ore del 10 ottobre 2001.

3 Baran e Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi1966, pag.136.

4 Cfr. F. Battistelli, Armi: nuovo modello di sviluppo?, Torino, Einaudi, 1980, pp. 68-77, e V.A. Ramey, M.D. Shapiro, “Costly Capital Reallocation and the Effects of Government Spending”, NBER Working Paper, 1999.

5 "Banks' reports confirm pre-Sept. 11 slowdown", Financial Times 17/10/2001; "Il 99.8% dell'attuale crisi economica era già in corso, anche se ora tutti danno la colpa al terrorismo" Lester Thurow, Il Sole 24 ore, 24/10/2001

6 Cfr. il nostro articolo “Politiche e geo-strategie nell'Asia Sud-orientale”, Il programma comunista, n.5/2013.

7 Cfr. il nostro articolo “Lo spettro della riunificazione coreana sulla strategia della dominazione americana in Asia e nel Mondo”, Il programma comunista, n. 2/2001.

8 In effetti, qui è bene precisare che alcuni paesi risultano fra i primi produttori di armi, ma non sono allo stesso tempo i più armati. L’Italia, per esempio, rappresenta un'interessante fabbrica di armi destinate alla vendita a paesi terzi, ma nel medesimo tempo il suo budget destinato alla difesa territoriale e alla sua conseguente proiezione imperialistica appare piuttosto esiguo (34 miliardi, Stima Sipri per il 2012), specie se paragonato ai vertici della classifica mondiale e se si considerano i dati in valore assoluto. Noccioline, comunque…

9 In realtà, molti paesi – fra cui Singapore, Malaysia e Thailandia – stanno sviluppando proprie industrie della difesa in grado di competere con le nazioni più avanzate dell'Occidente. È quindi in atto una ricerca di nuove tecnologie, per poter produrre una linea “nazionale” di strumenti per la difesa, riducendo i contratti d’acquisto con gli USA.

10 Cfr. i nostri articoli “La minacciosa Corea del Nord”, Il programma comunista, n. 4/2013; “Politiche e geo-strategie nell'Asia Sud-orientale”, Il programma comunista, n. 5/2013; “La Cina tra nuove riforme, repressioni e antagonismi interimperialistici”, Il programma comunista, n.1/2014.

11 Nello specifico, il programma vedrà un’impennata del 30% nel 2015 e del 70% nel 2020. Secondo quanto affermato dal direttore del SIPRI, Freeman, questi dati sono in linea con l’“Arms Expenditure Report” pubblicato nell’anno appena trascorso, dove si nota che la spesa militare di Cina e Russia starebbe crescendo in modo esponenziale, a fronte di una leggera contrazione in termini relativi della spesa militare dei paesi occidentali, forse a causa della chiusura dello scenario bellico in Afghanistan e Iraq.

12 Questo rapporto stretto fra Russia e Cina si può cogliere anche in altri settori. Pechino e Mosca sono diventati partner nel petrolio, tanto che la Russia, a fronte di 270 miliardi di dollari versati alla compagnia petrolifera statale russa Rosneft, si è impegnata a raddoppiare le forniture di petrolio alla Cina. Quest'ultima, secondo importatore di petrolio al mondo dopo gli Stati Uniti e primo consumatore di energia, ha siglato così il più grande accordo petrolifero della storia con la Russia, secondo produttore dopo l’Arabia Saudita. Fatto nuovo e indicativo è poi l’accordo tra Mosca e Pechino per svolgere le transazioni in valuta cinese e non più in dollari.

13 Cfr. il nostro articolo “Imperialismo delle portaerei”, il programma comunista, n. 2/1957.

14 Con molta chiarezza, in funzione della necessità di un riarmo generalizzato in cui la Germania rappresenta di necessità la punta di diamante, il segretario generale dell’Alleanza Atlantica (NATO), Anders Fogh Rasmussen, ammonisce senza mezzi termini: “Lancio l’appello agli alleati europei: non tagliate sempre le vostre spese per la difesa, invertite la tendenza e passo dopo passo investite più denaro nella difesa. Non possiamo più andare avanti come ora” (La Repubblica, 5/5/2014).

15 L’economia statunitense ha registrato un'impennata grazie al fatturato di società come la Boeing, la Lockheed-Martin, la General Dynamics e altre che fanno parte del complesso militare-industriale, strettamente legato a società energetiche, secondo un connubio che gli economisti borghesi, nelle loro geometrie semantiche, definiscono come Weapondollar-Petrodollar Coalition: appunto, la coalizione fra rendita petrolifera e rendita dell’apparato dell’industria bellica.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03-04 - 2014)

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