Mentre la crisi economica mondiale continua a scavare il baratro, gli adoratori della spontaneità continuano a spingere verso di esso la nostra classe. Costoro si trovano ovunque, tanto nella destra socialdemocratica, quanto nella “sinistra radicale”, o cosiddetta “rivoluzionaria”. I raggruppamenti nazionalisti di lungo corso (guevaristi, chavisti, maoisti, resistenziali, i gruppi studenteschi e operaisti, i neo-arditisti, gli antimperialisti di maniera) sono una folla, e non solo in Italia. L’adorazione per la classe “concreta” si accompagna sempre, e non è un caso, all’ostilità verso il partito, soprattutto per ciò che riguarda il suo programma e la sua teoria: in una forma o nell’altra, si proclama la sua inutilità, la sua insufficienza, la sua insignificanza. “La coscienza è nella classe”, si dichiara: quindi, si tratta di “apprendere da essa”, “standole dietro”. Nei gruppi di cosiddetta “sinistra”, poi, si parla tutt'al più del “partito come strumento”, che nascerà a suo tempo, “dopo aver ricevuto le lezioni della classe”: come se due secoli di storia del movimento operaio rivoluzionario non avessero lasciato niente dietro di sé (ma, si sa: c’è sempre la novità dell’ultima ora...)! L’espressione più di moda è che, un giorno, la classe, risorgendo, creerà da sé i suoi rappresentanti politici; anzi, si afferma perentoriamente che questa è la giusta posizione: ogni altra è “astratta” e quindi illegittima. Tutti gli errori che la Sinistra comunista ha smascherato sull'arco di novant'anni, tirando le “lezioni delle controrivoluzioni”, vengono così ripresi dai gruppuscoli antipartito (e antisindacato) per principio.

La sottovalutazione dell’elemento cosciente” (Lenin) è il tratto caratteristico di coloro che temono che il processo rivoluzionario si rivolga contro i loro piccoli e grandi interessi, di classe e di sottoclasse, di ceto e di ordine, di gruppo e di categoria, oltre che personali. La borghesia e i suoi partiti, la polizia, le organizzazioni sindacali di regime, l’aristocrazia operaia e le chiese li ringraziano: per esperienza, sanno che la “classe sfruttata”, nella sua spontaneità, è “orientabile”, che la responsabilità della “trasgressione” delle masse oppresse, dei senza riserve, del proletariato va rintracciata nelle avanguardie di classe (sindacali e politiche) e soprattutto nel partito di classe, il vero responsabile della dinamica rivoluzionaria. Il servizio offerto dagli “adoratori della spontaneità”, più o meno indirettamente e inconsapevolmente, è quello di mantenere la spontaneità nel suo stato di autoconservazione riformista, impedendo al Partito rivoluzionario di intromettersi nella “purezza della spontaneità proletaria”. Il loro è un servizio di “pulizia educatrice”, di “controllo sociologico”, di “cordone sanitario” contro i rivoluzionari: sono guardiani (consapevoli o meno) a tutto profitto della borghesia e dell’aristocrazia operaia, che tuttora, purtroppo, dominano sulla dinamica della classe.

Le organizzazioni sindacali e operaiste d’ogni tipo temono l’intrusione dei comunisti rivoluzionari, temono la loro presenza. “Il partito di classe è inutile”, ripetono, “occorre che la classe almeno lo legittimi prima e gli dia la propria benedizione”; “altrettanto inutile”, dicono altri, “è l’organizzazione di difesa dei lavoratori, che sarebbe “sempre”, “per sua natura” (e a partire da una certa epoca storica), costituita da soggetti che ostacolano la lotta dei veri protagonisti, gli operai. Negano così i metodi e i contenuti di lotta, proprio in quanto, al loro interno, nei momenti alti dello scontro, questi sono espressione diretta delle avanguardie rivoluzionarie comuniste. Se gli operai si chiudono in una lotta di categoria, se conducono una lotta sbagliata, essi dicono, occorre “lasciar fare”: non si deve criticare l’azione di lotta, ma occorre sostenerla comunque, perché poi la classe riprenderà la sua strada. Alla terribile situazione in cui si trovano i proletari, queste dame piene di adorazione per “gli operai e i diseredati” oppongono... l’augurio “Cento di questi giorni!”. Se si critica il metodo d’azione e gli obiettivi sbagliati dei lavoratori, gli adoratori della spontaneità sono pronti a giustificare tutto. “La classe non fa errori: sono le avanguardie sindacali e politiche che, intervenendo, conducono fuori strada la giusta rivendicazione operaia”!

Si cerca la classe nel comportamento individuale e di gruppo, nella “crescita della coscienza”, nelle azioni di categoria fabbrica per fabbrica, incapaci di comprendere che una lotta è dura e radicale, perché a imporlo sono i processi materiali, perché a richiederlo imperiosamente è la realtà. Al contrario, il partito di classe, che riassume in sé e anticipa l'esperienza storica della classe in lotta (anche nei momenti di bassa tensione sociale), non è vincolato all’immediatezza: ha una strategia e una tattica, un piano d’azione, e su di essi basa la propria azione.

Alla fine risulta chiaro che, per necessità, per condizioni storiche obiettive, tali “soggettività operaie”, ossequiose come sono di norma delle autorità, della democrazia, dei diritti, solo in condizioni estreme e al limite della sopportazione diventano capaci di azione, di organizzazione, di consapevolezza rivoluzionaria. E questa stessa consapevolezza, se non è presente il partito di classe a stimolarne la crescita in direzione della finalità rivoluzionaria, rimane inconseguente. “Metodi e forme, obiettivi di lotta”, ripetono fino all’ossessione gli spontaneisti, “non possono venire dall’esterno, ma solo dall’interno della spontaneità”: “per sua natura”, sostiene qualcuno, “l'organizzazione sindacale è il diavolo, bisogna esorcizzarlo”. Come tante falene impazzite, il movimento cosiddetto d’avanguardia soffre di una malattia inguaribile: l’attrazione fatale per lo spontaneismo.


 

Lenin e il “Che fare?”

Alla base di quest'attrazione fatale sta una questione teorica. Scrive Lenin nel Che fare?: “La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia, con le sue sole forze, è in grado di elaborare soltanto una coscienza trade-unionista, cioè la convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai, ecc. La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche, economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi possidenti – gli intellettuali. Per la loro posizione sociale, gli stessi fondatori del socialismo scientifico contemporaneo, Marx ed Engels, erano degli intellettuali borghesi. Anche in Russia la dottrina teorica della socialdemocrazia [leggi: del comunismo, ndr] sorse del tutto indipendentemente dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio; sorse come risultato naturale e inevitabile dello sviluppo del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari” 1.

E, citando il Kautsky ancora rivoluzionario: “socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra e non uno dall’altra; essi sorgono da premesse diverse […] La coscienza socialista è quindi un elemento importato nella lotta di classe del proletariato dall’esterno, e non qualcosa che ne sorge spontaneamente […] il compito della socialdemocrazia [leggi: dei comunisti, ndr] è di introdurre nel proletariato la coscienza della sua situazione e della sua missione. Non occorrerebbe far questo se la coscienza emanasse da sé dalla lotta di classe” (pp.72-73).

Il credo spontaneista nega invece la concezione autenticamente marxista di Lenin e afferma con disinvoltura che le sue affermazioni sono troppo nette, e puramente polemiche contro gli economicisti del suo tempo: la “coscienza di classe” ha la sua matrice storica nella classe lavoratrice, dicono, e dunque è a quella fonte che bisogna abbeverarsi. Ma così facendo il comunismo è ridotto a laburismo, a puro e semplice operaismo: la badante o il servo sciocco del movimento operaio nelle sue dinamiche spontanee e inconsapevoli, all’interno dell’acquario capitalista. C’è da meravigliarsi se si finisce disinvoltamente tra i “negatori del partito e del sindacato di classe” visti ormai come ferrivecchi e al massimo si accetta di appartenere al campo dei “costruttori del partito prossimo futuro” (visto fra l'altro come pura e semplice “sommatoria dei gruppi che fan parte del milieu”), incaricato di accompagnare (?) l’evolvere spontaneo e autonomo di quella “coscienza”? C'è da meravigliarsi se si finisce tra le molte varietà di operaisti in circolazione, che aspettano, per “costruire il partito”, il fischio di partenza dei lavoratori?

Ma, negando l’organizzazione sindacale, ci si libera forse del tradunionismo? Al contrario: lo si maschera e se ne inventa una forma “peggiore”. Le cause dell’attuale assenza e debolezza della risposta proletaria sarebbero infatti imputabili, secondo gli adoratori della spontaneità, alla “forma sindacale” in quanto tale, e non alla spinta micidiale che le organizzazioni di regime impongono alla sua “nazionalizzazione”, al suo imborghesimento, all’abbandono dei metodi e degli obiettivi della lotta di classe. E dunque? “Lasciamo fare alla spontaneità, che così tutto si aggiusta!”, ribattono. Ma dicendo ciò si dimentica che le analisi e le valutazioni di Marx, Engels, Lenin e della Sinistra Comunista sulle organizzazioni tradunioniste, sullo sviluppo crescente di un’aristocrazia operaia (che non si esaurisce nelle burocrazie sindacali e nella forma organizzativa) e sul “partito operaio borghese” (che investe l’intero proletariato delle metropoli colonialiste e imperialiste, come lo descrissero Marx per l’Inghilterra e la Francia e Lenin nell’Imperialismo), sono molto più pesanti della trasformazione subìta dalla forma sindacale in quanto tale. A forza di aspettare che il partito nasca dalle lotte spontanee, si riduce la sua esistenza a una... nullità: a che serve, alla fin fine, un tale partito?

L'insistenza nel criticare la “forma sindacale” (al posto del suo contenuto) è talmente radicata nei ragionamenti che ogni prospettiva, obiettivo, analisi, ne porta l'impronta massiccia. Così, la contraddizione si riconferma quando, all’interno della fabbrica, i cultori della spontaneità, mentre predicano bene contro le organizzazioni sindacali tricolori affossatrici delle lotte, razzolano poi male, facendosi eleggere nelle Rsu (Rappresentanze sindacali unitarie), per ritrovarsi infine, in situazioni contingenti, immersi con i lavoratori in una “palude di regole e vincoli” da cui non si fugge. Perché tutta questa confusione? Capiamo l’antifona: se la “coscienza della classe” si trova nella fabbrica, in quanto lì sono i lavoratori, si può non essere al loro fianco? Certo che no! Ma per fare che cosa? Nulla, perché ci si aspetta che siano gli operai a fornire la “lezione di coscienza”. Che altro si ha da fare in fin dei conti, se non sostenere e rivendicare caparbiamente “più democrazia, più assemblee, meno burocrazia” – cioè una “democrazia operaia vera”, unico obiettivo di questa partecipazione? Si trasforma così il gioco assembleare di fabbrica in un parlamentino operaio; in attesa di eventi imprevisti, ci si mette a impartire lezioni di educazione borghese in fabbrica: e la “democrazia diretta”, la “vera delega operaia”, la discussione tra lavoratori, creano un’impasse decisionale e una confusione senza pari, a cui questi “controllori della qualità democratica” danno il proprio immancabile contributo.

Non chiedetegli di dare indicazioni e fornire obiettivi di lotta: sono gli operai che devono il segnale di partenza! Essendo minoranza, negheranno oltretutto la legalità del voto di maggioranza (cercando le più strampalate scuse) e accuseranno i sindacati di essere “prevaricatori della spontaneità dei lavoratori”. Se invece i lavoratori fossero liberi (?) di decidere, di votare, le cose cambierebbero! L’assenza di rivendicazioni economiche con cui contrapporsi ai sindacati di regime davanti alle fabbriche, la critica di ogni sostituzionismo politico e sindacale all’azione spontanea dei lavoratori, dove può portare se non ad accodarsi, portaborse incoscienti, alle “lotte” (si fa per dire) dettate dai sindacati?

Non comprendendo il processo materiale di sviluppo della lotta, che s’impone a qualunque pre-coscienza, a qualunque auto-consapevolezza operaia, gli adoratori della spontaneità si vietano così di andare a fondo delle contraddizioni storico-sociali: rimangono a un livello superficiale della critica al tradunionismo e all’aristocrazia operaia e, per togliersi dall’imbarazzo, rivendicano la grande funzione positiva dello spontaneismo, che rimetterebbe la coscienza di classe, liberata da vincoli e condizionamenti, in circolazione e al primo posto. Respingendo la necessità dell’organizzazione di difesa economica, dimenticano la storia del movimento operaio e le sue straordinarie e cruente lotte, anche a guida sindacale. Ignorando la determinazione materiale che spinge la classe alla lotta e alla necessità di organizzarsi almeno per difendere le proprie condizioni di esistenza, mischiando tradunionismo, anarcosindacalismo e ordinovismo, finiscono per incastrare il proletariato nelle ideologie operaiste e spontaneiste di matrice piccolo-borghese.


 

L’autorganizzazione spontanea

Tra le forme di autorganizzazione spontanea, quella “operaia” va oggi per la maggiore. In quanto forma “non sindacale”, essa avrebbe infatti in sé caratteri speciali. La rivendicazione dell’“autorganizzazione” sarebbe dunque per alcuni la formula magica classista e l’obiettivo per eccellenza. Al posto del sindacato tradizionale, ci si illude che un’altra forma, sostituendo le vecchie forme organizzative passate al nemico, farebbe suonare le trombe del giudizio rivoluzionario. L’“autorganizzazione autonoma delle lotte” che viene auspicata e promossa (e già questa è una bella contraddizione nei termini: ma lasciamo stare!) non è altro che l’organizzazione operaia che, libera della funzione di contrattare, di rivendicare obiettivi economici di lotta immediati, avrebbe una propria naturale tendenza rivoluzionaria. Invece di riconoscere che l’organizzazione economica del proletariato, anche la più avanzata politicamente, anche la più democratica nel senso maggioritario del termine, non sarà mai rivoluzionaria, si tirano fuori dal cilindro forme ideali che, venendo “dal basso”, assumerebbero di per sé connotati rivoluzionari.

I comunisti rivoluzionari non assumono nemmeno gli stessi “sindacati di classe” o “rossi” del primo quarto del secolo XX secolo “a modelli” per la lotta rivoluzionaria, perché la loro identità e il loro orientamento di classe sono determinati solo e unicamente dalla presenza e guida del partito comunista: i sindacati sono e rimangono soltanto degli strumenti di lotta economica, che solo il partito può trasformare in “cinghie di trasmissione” dell’azione rivoluzionaria. Gli “organismi territoriali di lotta proletaria” che noi propagandiamo nella classe (vedi “Il programma comunista”, n°3/2013), per quanto si dia rilievo al contenuto classista della loro azione – resa esplicita l’importanza fondamentale che deve assumere in essi la presenza del partito, se non di guida, almeno di cartina di tornasole del suo carattere classista – non hanno per noi altra funzione che quella di essere strumenti di lotta economica, di lotta di difesa.

Noi non siamo contro la nascita di (transitori) organismi di lotta, qualunque ne sia la forma. Noi siamo interessati anche a forme che potenzialmente anticipano l’evoluzione materiale della necessità di difesa dei lavoratori. Siamo però contro gli inviti a creare forme che non nascono da un terreno di lotta reale. Il principio di organizzazione è unicamente la centralizzazione e l’unità della classe: tale principio afferma che la spontaneità lasciata a se stessa è di fatto una sconfitta annunciata. Dal divieto assoluto delle organizzazioni sindacali al loro riconoscimento alla fine del XIX secolo, fino alla loro attuale funzione conservatrice e reazionaria, la tempesta borghese antiproletaria di quasi due secoli vi è passata sopra travolgendo la realtà e la finalità della loro stessa esistenza materiale. A questo risultato dell’evoluzione storica non si rimedia inventando forme organizzative antisindacali per principio.

Per noi, “alle tendenze degenerative, o alla degenerazione in atto, degli organismi economici non si rimedia con la creazione di organismi immediati di diversa forma, meno che mai con organismi a carattere locale o aziendale la cui apparizione è bensì un dato necessario dello svolgersi dei conflitti sociali e a volte un sintomo positivo dell’insofferenza delle masse operaie per la prassi opportunista o addirittura controrivoluzionaria delle centrali sindacali” (Partito di classe e questione sindacale, 1994).

La rivoluzione non è questione di forme di organizzazione”, si sostenne nell’Internazionale comunista: ma questa considerazione è già stata messa in soffitta da molto tempo dai cultori della spontaneità. Si immagina così che la lotta spontanea autorganizzata significa lotta che supera la realtà istituzionale e istituzionalizzata, che supera il sindacato, allontanandosi dal riformismo organizzato. Queste valutazioni ideologiche della spontaneità, promossa a veicolo anti-istituzionale e anti-riformista, svelano le contraddizioni e la confusione in cui si muovono i suoi adoratori. Il segno della positività dell’autorganizzazione starebbe nel fatto che essa opera dal basso, superando quindi le forme istituzionali, il sindacalismo confederale e il sindacalismo di base. Qui troviamo il vizio di fondo e la natura contorta del rapporto che s'intende stabilire con la classe – visioni molto comuni nel panorama operaista.


 

La lotta di classe e la crisi

Tutto ciò si riflette poi nella concezione della lotta di classe in relazione alla crisi. A causa della miopia spontaneista, invece di constatare che la crisi spinge la classe dominante a rafforzarsi, si pretende che la crisi apra le porte a una possibile maggiore spinta verso l’uscita dal sistema di oppressione e quindi all’intervento rivoluzionario dei comunisti, indebolendo le organizzazioni sindacali di regime. Ciò è vero solo molto in astratto e con implicazioni che rischiano di essere davvero molto meccaniciste. In realtà, questa posizione non si rende conto che la crisi subita dalla classe spinge la borghesia a sviluppare e ristrutturare la sua capacità di comando e di attacco: il sostegno all’opportunismo sindacale diventerà ancor più grande, perché la borghesia ha bisogno dell’organizzazione sindacale asservita allo Stato. Al sindacalismo sarà consegnata, nel corso della crisi, una maggiore responsabilità di comando sulla classe, anche sui temi importanti del riformismo (per esempio, la “democrazia operaia”). Il fascismo distrusse i pochi sindacati di classe presenti nel primo dopoguerra, ma poi elesse, a un livello più alto, le organizzazioni sindacali, promuovendole a corporazioni dello Stato fascista. Ugualmente, alla fine della Seconda guerra mondiale, il sindacalismo fu gonfiato e strutturato dall’alto, risistemando il terreno già seminato dalle corporazioni esistenti. La corporazione sindacale democratica non differisce in nulla dalla corporazione fascista: ne è al contrario una forma più adeguata, in un certo senso “migliorata”.

Il marxismo invece, che mette al centro il partito, e l’esperienza insegnano che nel corso delle crisi le lotte diventeranno ancor più difficili: la solitudine, la disgregazione, la frammentazione, la precarietà, il bisogno di richiamarsi alle cosiddette “conquiste del passato”, ai “diritti acquisiti”, e la paura di nuovi attacchi alle sue condizioni di esistenza renderanno la classe in sé (la classe per il Capitale) intrinsecamente più debole. La crescita dello spontaneismo, le azioni improvvise ed estemporanee, non miglioreranno la capacità di difesa della classe; la rabbia mista a paura frenerà le lotte; l’aristocrazia operaia (l’imborghesimento di una parte non trascurabile del “ceto operaio” non è un evento estemporaneo), la sola che ha goduto pienamente le famose conquiste, sventolerà le bandiere del diritto, della dignità, della democrazia operaia, dell’anti-burocratismo sindacale e politico, del nazionalismo, e riscoprirà anche l’autorganizzazione operaia nella stessa cornice capitalistica, un pannicello caldo, un palliativo.

Nelle condizioni possibili, nel corso della crisi, di accesa lotta di classe, il proletariato cercherà affannosamente gli strumenti della propria lotta, l’unità dell’organizzazione, la solidarietà di classe. Cercherà una direzione, un grado più alto di stabilità e solidità. Cercherà i propri metodi di lotta classisti, i propri obiettivi e contenuti. Se la lotta lieviterà, spinta dalla necessità estrema, i suoi bisogni immediati cercheranno di trasformarsi in obiettivi immediati di lotta, relativi all’occupazione, al salario, all’orario di lavoro – obiettivi che, tuttavia, non potranno trovare soluzione senza un preventivo scontro all’interno della classe: le stesse parole d’ordine riformiste “contro i padroni e contro il governo”, per la difesa dei “diritti acquisiti”, esprimeranno l’oggettiva tendenza delle organizzazioni sindacali e con esse di parte della classe verso la richiesta di “protezione” da parte dello Stato borghese. La “politicizzazione” della lotta economica e della spontaneità non è altro che la soluzione riformista. Senza il partito, memoria delle lotte, programma e coscienza, la classe in sé non riesce, dice Lenin, a organizzarsi come classe, come forza unitaria in direzione dei suoi obiettivi immediati e storici, la dittatura della sua classe e il comunismo, essendo costituita da migliaia di connessioni e direzioni contrastanti, corporazioni, categorie, qualifiche, professionalità, sesso, età, nazionalità. Per trovare la propria direzione, per difendersi, la classe dovrebbe ripercorrere in breve tempo il lungo processo della sua esistenza storica, le lotte dei vivi e dei morti sotto il dominio del Capitale, in cui pochi sono i periodi veramente rivoluzionari. Essa non uscirà dal cerchio infernale che ne contiene la forza: sarà spinta oggettivamente verso l’opportunismo politico e il sindacalismo traditore, che hanno pronte le soluzioni immediate riformiste e reazionarie, al cui centro rimangono la “tregua sociale” e il micidiale patto capitale-lavoro. Senza il partito rivoluzionario, che sostiene e accompagna la potenziale spinta, l’organizzazione autonoma della “lotta dal basso” non farà emergere dal suo stato embrionale e confuso nessuna rivendicazione di classe.

La coscienza di classe è il punto di convergenza del partito con la classe (“Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario”, Che fare?, p.55). Da sé, il proletariato non può prendere coscienza né di sé, della prigione sociale in cui è rinchiuso, né della necessità della solidarietà e unità di classe, né della sua finalità (in quanto classe per sé). L’autorganizzazione che nascesse spontaneamente dalla lotta non sarebbe la “soluzione”. Perché avvenga una trasformazione radicale dell’attuale condizione proletaria, occorre che una dura e cruenta lotta sorprenda e travolga le stesse pesanti illusioni riformistiche: il che comporterà non l’unione immediata, ma la divisione, la rottura, l’uscita dalla corporazione, dal ceto in cui è rinchiusa e nel quale si vorrebbe riconfermarla, soprattutto nei luoghi di lavoro. Solamente dalla rottura interna, fuori dalle galere produttive, nascerà l’organizzazione, la classe e la coscienza di classe: ma in quella obbligatoria e rapida transizione, il partito di classe deve accompagnarla e guidarla. Come spesso diciamo con Marx: “il proletariato è rivoluzionario o non è nulla”. Tutti gli immediatisti e gli adoratori estasiati della spontaneità non hanno mai compreso le “lezioni delle controrivoluzioni”, non hanno compreso che gli stessi Soviet, organi politici, si prestarono poi, com’è avvenuto in Germania e in Russia, alla direzione socialdemocratica (e poi stalinista), alla direzione riformista radicale, e quindi borghese nel vero senso della parola: il partito di classe dovette necessariamente strapparne il comando per determinarne la direzione rivoluzionaria, e quando non fu possibile farlo, esse agirono come agenzie controrivoluzionarie. La rivoluzione avrà contro, come ebbe ed ha tuttora, non solo il campo avverso della borghesia e delle classi medie, ma anche i riservisti dell’aristocrazia operaia e i sognatori della spontaneità.

Perché si presenti una situazione rivoluzionaria – scriviamo sempre nell'opuscolo Partito di classe e azione sindacale – noi prevediamo l’erompere su vasta scala e in forma non episodica di lotte economiche e l’intensa partecipazione del partito, la presenza di una rete non labile e non episodica di organismi intermedi tra sé e la classe, il proprio intervento in essi al fine di conquistarvi non già necessariamente la maggioranza e con essa la direzione, ma un’influenza tale da poterli utilizzare come cinghia di trasmissione del suo programma tra le masse operaie organizzate e da imbeverne almeno gli strati operai più attivi”. Nessuno degli organismi intermedi si presenterà mai con una patente rivoluzionaria per il solo fatto d'esser nato dall’erompere delle contraddizioni sociali e, per tale ragione, il partito ne deve in qualche modo essere la levatrice. Solo così può saldarsi la contraddizione tra lotta economica di difesa e lotta rivoluzionaria: il resto è pura fantasticheria.

La “sopravvalutazione della spontaneità”, che starebbe alla base della nascita di un’organizzazione rivoluzionaria, si associa sempre alla sottovalutazione dell’elemento cosciente, alla sottovalutazione cioè del partito, verso il quale si manifesta un malcelato fastidio. Come viene sviluppata questa sottovalutazione?

Sfugge a tutti costoro il fatto che la dinamica sociale durante la crisi vedrà l’accentuarsi dei contrasti fra le classi e la diffusa presenza di sottoclassi e che nella classe nasceranno forme politiche ed economiche spurie, come espressioni delle contraddizioni sociali e della conservazione. Solo il partito rivoluzionario può leggere la composizione amorfa della lotta di classe nelle sue forme immediate: capirne la dinamica e favorirne la scomposizione, prima e mentre il conflitto sociale si sviluppa. Nella posizione degli spontaneisti, invece, tutto spingerebbe per miracolo alla formazione dell’“Autorganizzazione operaia spontanea”, che avrebbe nella fabbrica il suo quartier generale (occupazione-assemblea-controllo) e successivamente si estenderebbe alla società. Il processo non dipenderebbe dal partito, che dovrebbe secondo costoro costruirsi post festum, e nemmeno dalle “avanguardie di lotta”. Si immagina un processo meccanico di rinascita della forma in sé nella commistione tra classe e classi medie, tra classi produttive e ceti improduttivi, che agiteranno il grande minestrone sociale.

Riconoscere che la rivoluzione verrà fuori da un “insieme complesso di fattori” è riconoscere l’indeterminatezza dei processi, è affermare la propria sottomissione alla spontaneità, alla casualità degli eventi. E perché questi fattori sfuggirebbero alla comprensione? Ovviamente, si potrebbe rispondere, lapalissianamente, che essendo spontanei e casuali non possono diventare coscienti. Per questo Lenin rovescia la questione: al fondo del rapporto errato fra partito e classe, fra partito e azione di classe, c’è la svalutazione dell’elemento cosciente, la svalutazione del partito, c’è “l’amore degli ideologi per le loro deficienze”, per il primitivismo. Manca la funzione del partito, l’elemento decisivo che orienta la classe, che svela la classe a se stessa sia nelle situazioni favorevoli che in quelle sfavorevoli. I concetti di “tendenza al partito”, di “partito-costruzione”, molto diffusi tra “giovani volenterosi”, nutrono di fantasie “rivoluzionarie” le aspettative spontaneiste e fataliste.

Certo, il partito di classe, come lo intende il marxismo, è pur sempre una minoranza: non fa la rivoluzione, ma la guida. Però, quella minoranza, in quanto strumento e organo della classe, e non semplice frazione della classe, può “in dati momenti storici” accentuare, estendere l’incendio, avendo una strategia, un “piano tattico di azione”, essendo costituito da un’avanguardia teoricamente omogenea e decisa, che antivede i processi storici in atto, istruita dalla memoria della lotta di classe. Senza l’immensa mole di esperienza e di sacrifici espressi dal proletariato, che il partito agita apportando la coscienza (che non è né roba metafisica, né coscienza operaista, né rivendicazionismo generico e azionismo velleitario) dall’esterno del movimento operaio, non esisterà né l’azione di classe autenticamente rivoluzionaria, né l’evento rivoluzionario, né la prospettiva comunista. Bisogna dunque spiegare che il marxismo è una scienza, la più complessa fra le scienze umane, che l’insurrezione è un’arte, che il partito, solamente il partito, è il lievito che trasforma la lotta economica (non in lotta politica: questo il riformismo sa farlo) in lotta rivoluzionaria? Gli eventi rivoluzionari non nascono dal caos primigenio, dal cilindro del prestigiatore, dalla spontaneità, dalla lotta sindacale, dall’autorganizzazione operaia. Essi nascono dal contrasto estremo tra forze produttive e rapporti di produzione, mentre la lotta di classe nasce dallo stesso contrasto in ambito economico e sociale, sorge e si sviluppa dalla difesa estrema delle condizioni di vita generali messe in pericolo: non in un vuoto di indicazioni o di esplosioni spontanee, ma in presenza di avanguardie di classe diffuse. Soprattutto, in presenza del partito di classe.


 

La teoria degli stadi o del timido zig-zag

La creazione di “un’organizzazione di rivoluzionari capace di garantire alla lotta politica l’energia, la fermezza e la continuità” (Che fare?, p.143), quindi del partito, non impensierisce gli immediatisti. Poiché sono alla coda del movimento e lo inseguono, ciò che li preoccupa è in che modo riuscire a essere all’altezza della spontaneità delle masse, tenere il passo, divenire cioè... “avanguardie della spontaneità”: e, quindi, avanguardie del riformismo. La ricetta? E’ facile riassumerla: “il movimento immediato è ciò che stimola la coscienza teorica nel partito – più grande è il movimento di massa, più grande è la sollecitazione teorica, politica e organizzativa”! Il che non vuol dire altro che “la teoria nasce dal movimento”. E’ proprio la tattica-processo (cioè quella tattica che viene elaborata di volta in volta, empiricamente) quella che viene stigmatizzata da Lenin come visione riformista: quella che egli chiama “teoria degli stadi” o “teoria del timido zig-zag” nella lotta politica, nel rapporto con il movimento della classe.

Nel Che fare?, Lenin rintuzza l’economicismo del “Raboceie Dielo” (organo dell'Unione dei socialdemocratici russi all'estero) e il contenuto equivoco del suo programma, là dove si afferma che il movimento di massa in Russia “determinerà i compiti [...] teorici politici e organizzativi” del partito (il corsivo è di Lenin, Che fare?, p.80). Lenin nega questa determinazione che viene dal movimento: “La cosa si può intendere in due modi: o nel senso che si debba sottomettere il movimento alla spontaneità, cioè ridurre la socialdemocrazia a essere semplicemente l’ancella del movimento operaio come tale […]; oppure nel senso che il movimento di massa ci pone nuovi compiti teorici, politici e organizzativi, molto più complessi di quelli di cui potevamo accontentarci prima dell’apparizione del movimento di massa” (p.80). Come va letto, questo brano? Se il movimento ha raggiunto e superato le vecchie posizioni teoriche, politiche, organizzative, ovvero gli obiettivi che dianzi gli si erano posti, è il movimento spontaneo che ha bisogno di nuovi compiti, che gli devono essere portati dall’esterno perché possa avanzare; altrimenti, si avrebbe quella sottomissione alla spontaneità di cui parla Lenin.

Nella sua critica, egli afferma: “Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non consegue affatto che la lotta economica (professionale) sia di sommo interesse, perché gli interessi essenziali, 'decisivi', delle classi possono essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche radicali, e particolarmente, l’interesse economico fondamentale del proletariato può essere soddisfatto solamente con una rivoluzione politica che sostituisca alla dittatura della borghesia la dittatura del proletariato” (Che fare?, p.81, nota). Che cosa intende dire? La questione importante non è la lotta economica in sé, perché gli “interessi decisivi” vanno oltre gli interessi immediati, tradunionisti: gli “interessi essenziali” sono le trasformazioni politiche. In questo modo, egli addita al movimento quello cui esso non può giungere spontaneamente: le finalità di classe. Ciò che è importante è riallineare il movimento spontaneo alla coscienza di classe, alla finalità, al partito, che spinge verso gli obiettivi di classe, e questi scavalcano il livello immediato e spontaneo verso cui il movimento è diretto. E’ questa la coscienza di classe che deve attraversare il corpo della classe, affinché l’interesse proletario possa essere soddisfatto dalla rivoluzione politica e dalla dittatura proletaria.

Nello stesso tempo, non si può negare la forma organizzata sindacale, altrimenti non si comprende la condizione oggettiva di oppressione e di sfruttamento da cui il proletariato tenta di liberarsi, attenuandone con la lotta il rigore (tempi, ritmi, produttività, intensità, orari, salari, sicurezza). Infatti, nel Che fare?: “Quale socialdemocratico ignora che, secondo la dottrina di Marx e di Engels, gli interessi economici delle diverse classi hanno una funzione decisiva nella storia e che, per conseguenza, in particolare la lotta del proletariato per i suoi interessi economici deve avere somma importanza per il suo sviluppo di classe e la sua lotta liberatrice?” (Che fare?, p.81, nota). Questa condizione di esistenza del proletariato non può essere eliminata che dalla rivoluzione proletaria. Al posto delle organizzazioni fisiologiche necessarie alla difesa della classe in sé, gli immediatisti partoriscono dalla propria testa, promuovono e propagandano l’Autorganizzazione spontanea come forma in sé. Comitati, organizzazioni, assemblee, coordinamenti, che nascono dalle lotte immediate e spontanee, invece di essere nutriti dal contenuto di classe (che non hanno e non possono avere dalla lotta spontanea), sono sottoposti a un esame ideologico. Invece di chiedersi quale sia il grado di dipendenza dal partito di classe, si chiede loro quanto sia grande il grado della loro autonomia e della loro indipendenza.

Al contrario, è proprio l'opposto che deve materialisticamente richiedersi: più grande è la dipendenza dal partito, più grande è l'indipendenza dalla borghesia, dal suo Stato e dalle organizzazioni riformiste e opportuniste, sindacali e politiche. Rivendicazioni economiche, contrattazione, organizzazione sono mezzi del sindacato, sono semplici strumenti di difesa: l’“autorganizzazione in sé” è invece solo una fantasticheria. Quali sono gli obiettivi che i comitati, i coordinamenti dei lavoratori, gli organismi devono proporsi? La lotta economica non basta, si dice: occorre lottare contro i padroni e contro il governo e per questo gli operai devono darsi una forma nuova di organizzazione, l’Autorganizzazione. Debbono dunque lottare per la difesa delle condizioni di vita e lavoro dei proletari, devono dunque contrattare con i padroni per mitigare lo stato della loro schiavitù? “No!”, dicono i promotori della cellula ideologica spontanea: “la lotta economica è superata”, dichiarano prosternandosi alla Democrazia Operaia, fonte di giovinezza. La confusione, la disorganizzazione, la paralisi lasciano così la classe a se stessa. Ogni forma minima di organizzazione di combattimento, ogni rivendicazione, viene negata dalla fantasia ideologica. L’Autorganizzazione non è altro che lo spirito aleggiante della Corporazione, che esclude e vuole escludere la presenza del partito di classe.


 

Come avverrà la ripresa di massa per gli spontaneisti

Quali sono le linee generali lungo le quali la ripresa classista si rende possibile? Gli spontaneisti rispondono che bisogna lottare apertamente contro la “forma sindacale”, contro la “logica della delega” e la contrattazione, cioè contro la lotta “istituzionalizzata”, in nome dell’Autorganizzazione. Non è la lotta economica ad oltranza che smonta il contenuto di una forma passata al nemico, non è la lotta che investe il rapporto di delega sindacale-aziendale, non è la lotta che imponendo una contrattazione vincente al livello generale determina un terreno di lotta superiore: è la nuova formula miracolosa dell’Autorganizzazione che passa all’incasso rivoluzionario. L’obiettivo è dunque l’autorganizzazione autonoma sul posto di lavoro prima e sul territorio mediante delegati eletti e revocabili dall’assemblea operaia. Il chiodo fisso è sempre quello della democrazia, contrapposta alla burocrazia. Via dunque la forma vecchia di organizzazione operaia e sviluppo di una nuova forma rivoluzionaria (?!).

Che ciò sia economicismo che si vergogna e si maschera di fantasie rivoluzionarie lo si capisce subito. Di quale finalità è impregnata l’Autorganizzazione? Si tratta del controllo delle fabbriche o della presa del potere? Si combatte per la “vera democrazia” o si va verso lo scontro di classe per la dittatura del proletariato? E qual è il ruolo del partito?

In questa ripresa di massa, non è contemplata la preliminare lotta economica di difesa delle condizioni di vita e di lavoro. Essa è orientata non contro lo sfruttamento ma contro la forma sindacale, contro la delega sindacale e contro la contrattazione. La contrattazione (cioè l’atto, preceduto dalla lotta, con il quale il proletariato rivendica, propugna, o impone condizioni migliori di vita e di lavoro alla controparte) è abolita del tutto. Lo sciopero non ha alcuna funzione, in quanto è svuotato della sua funzione di arma economica. L’organizzazione della lotta contro gli interessi economici e politici della borghesia, che prevede l’unione tra i compagni di lotta e quindi una delega per trattare, per combattere, per attaccare la controparte, non esiste; la solidarietà, la cassa di resistenza per durare nel tempo, la direzione, i metodi di lotta e gli obiettivi, non hanno più il carattere di rivendicazioni. La ripresa di massa ha come finalità la conquista della... democrazia operaia, i suoi istituti (l’Autorganizzazione) e i suoi strumenti formali (Assemblea, Eleggibilità, Revocabilità del mandato): ma non per battersi e vincere sul terreno economico e sociale. Tutto si svolge per garantirsi il Controllo della fabbrica e del posto di lavoro – non per attaccare il nemico, ma per attestarsi su quello che tutti gli immediatisti credono essere il ponte di comando della borghesia: la fabbrica. Lo Stato borghese è la fabbrica: una volta controllata, il potere passa nelle mani della democrazia operaia. Per sbarazzarsi della borghesia si sostituiscono dunque gli operai alla direzione delle fabbriche, al posto dei borghesi? E’ questa la dittatura del proletariato? I luoghi in cui si esercita la schiavitù salariale, in cui vige la disciplina di fabbrica, diventano per miracolo il centro dell’Autorganizzazione proletaria: qui regna la Democrazia diretta. E’ questa la dittatura del proletariato guidata dal Partito, che impone la sua forza centralizzata e dittatoriale su tutte le altre classi? No, ci si ritrova alla forma di Autogoverno operaio (democratico e riformista) nelle fabbriche: ovvero, nel più vecchio e trito Riformismo operaista e conservatore.

Conclusione

La maggior parte degli adoratori dello spontaneismo, quella che si riconosce in un qualche organismo partitico, più o meno di derivazione staliniana, e che in periodo elettorale ha il ruolo di raccatta-voti per sé o per altri, allo scopo di far conoscere la “grandezza della ditta” o, ancor più ridicolo, di agitare il cosiddetto “parlamentarismo rivoluzionario”, accetta quel che viene: lotte di qualsiasi genere, spontanee o non, ed organizzazioni sindacali di regime, di piccola e di grande taglia.

Poi, ci sono quelli che hanno in odio la forma-partito, una sorta di Babau che tormenta i loro sonni (“Partito? Vade retro, Satana!”); e ci sono anche i senza-partito o i “futuristi”, quelli che se ne aspettano la rinascita “in futuro”; o gli intellettuali di varia natura, che in cerca della migliore offerta, passano da una formazione politica all’altra, mascherandosi con “penne rivoluzionarie” e spennando questa o quella cornacchia d’altri tempi.

In un modo o nell’altro, sono tutti adoratori del “sindacato conflittuale” (almeno di quello “di base”): un’adorazione sperticata, che però trapassa in disprezzo se, entro un dato tempo, esso non si trasforma, presto e su comando, in un... “organo rivoluzionario”. I portabandiera sono tanti e continuano a crescere di numero: ecco trovata la formula magica – “no, ai sindacati di regime, sì al sindacato conflittuale!”.

Qualcuno disquisisce filosoficamente e con forza: “è la spontaneità delle lotte che guida il sindacato conflittuale, non il sindacato, che è dello stesso tenore”, “è la classe che guida il partito, non viceversa”. E per completare aggiunge: “la lotta economica è necessaria, non può essere negata [che banalità!], ma il sindacato non serve più... quanto al partito, si può attendere!”. A un tale che, davanti a una fabbrica, sollecitava l’Autorganizzazione, un operaio, che aveva colto l’idea, rispose: “Caro compagno, non appena ci saremo autorganizzati te lo faremo sapere!”.

1Lenin, Che fare?, Editori Riuniti, 1972, p.63. Tutte le citazioni che seguono sono da questa edizione.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2013)

 

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