Se c'è una cosa che manda in brodo di giuggiole gli spontaneisti di ogni foggia e origine è il “mito del controllo operaio”.

E' ovvio che, sotto i colpi della crisi economica e davanti alle minacce di chiusure e licenziamenti, la reazione istintiva dei proletari sia quella di tentare la via dell'occupazione e dell'autogestione. Gli esempi sono molti: per limitarci a quelli più recenti, ricordiamo quello della fabbrica brasiliana d'imballaggi di plastica Flaskô, nel settembre 2012 (occhiello di un lungo articolo del Manifesto del 13/9: “Visita a un'azienda che, di fronte alla delocalizzazione, ha cacciato il 'padrone' e continuato a produrre”); e, in questi giorni di metà febbraio 2013, quello della fabbrica greca di ceramica Vio. Me. (di proprietà della Philkeram-Johnson, azienda leader del settore), occupata dai lavoratori che, organizzati in cooperativa, hanno dato inizio all'autogestione. Ma non dimentichiamo quel che successe durante la crisi economica argentina, all’inizio del 2000: decine e decine di fabbriche, per lo più piccole e medie, occupate e autogestite nelle forme di cooperative o di cogestione con la vecchia proprietà o con lo Stato. O i casi celebri della fabbrica di macchinari Innse di Milano, nel 2009, o della Jabil (ex-Nokia), sempre di Milano, nel 2012. Non c'è dubbio che, più o meno spontanei, più o meno pilotati e controllati dai sindacati, altri episodi seguiranno.

Come ci poniamo noi comunisti di fronte a queste azioni? Le appoggiamo? Possiamo limitarci a dire che, siccome questo è il volere dei lavoratori, allora si tratta di positive espressioni di combattività operaia? Evidentemente no.

Occupare una fabbrica, autogestirla, “rimettere in moto i macchinari”, “tenere in ordine la linea produttiva”, “decidere come, cosa, perché, e per chi produrre e cooperare”, significa restare del tutto entro il recinto dannato dell'economia capitalistica: dell'economia per aziende, per isole produttive, pur sempre dominate dalle leggi del mercato. Che la gestione sia “operaia”, piuttosto che “del padrone” o “dello Stato” (municipalizzata, nazionalizzata) non cambia nulla al suo carattere inevitabilmente capitalista: ci si mette per forza sul mercato, si compra e si vende, si entra in concorrenza, si compila il bilancio annuale… Si diventa “padroncini”, imprenditori di se stessi. E' questa la prospettiva che gli spontaneisti di ogni foggia e origine incoraggiano tra i proletari massacrati dalla crisi. Una rimasticatura dell'anarchismo ottocentesco a base di “libere comuni” che barattano fra di loro i prodotti di un illusorio “lavoro associato”. Un “socialismo dal basso” che germoglia dentro i giardinetti bombardati dell'economia capitalistica.

Non solo qui non si pone minimamente il problema del potere (per carità!): non si riesce nemmeno a comprendere come l'economia socialista non sia una fotocopia di quella borghese, solo con un'altra intestazione. All'economia per aziende tipica del capitalismo, il socialismo opporrà un'economia fondata su un piano economico e politico centralizzato. Solo attraverso un piano economico centralizzato, una direzione centralizzata e unitaria di tutto l’apparato economico, si potrà infatti permettere alle singole unità produttive di uscire fuori dalla necessità di una valorizzazione e accumulazione autonoma del plusvalore prodotto dagli operai, dalla necessità di una accumulazione aziendale capitalistica: in breve, di uscire fuori dal sistema capitalistico stesso e avviare la socializzazione dell’intera economia, che non si fonderà più su alcuna forma di appropriazione privata. Non si tratta cioè di cambiare la gestione aziendale del processo capitalistico affidandola agli operai anziché agli altri soggetti, ma di gestire tutto il prodotto che viene fuori dal generale processo produttivo in modo non più aziendale ma sociale: solo a questa condizione lo stesso processo di produzione potrà perdere il suo carattere capitalistico, volto sempre all’accumulazione aziendale, per assumere quello socialista, per il soddisfacimento dei bisogni sociali umani. Questa possibilità è ormai resa oggi realizzabile più o meno ovunque e soprattutto laddove il capitalismo è più sviluppato e generalizzato, sia nell’industria, come nei servizi e nella produzione agricola capitalistica. Non occorrono né ulteriori sviluppi del capitalismo, né forme di gestione diverse sul piano aziendale, ma solo e semplicemente che tutta la produzione sia gestita unitariamente e socialmente, secondo un piano generale che tenga conto esclusivamente e finalmente dei bisogni sociali generali.

E qui, di nuovo, si pone il problema del potere. Scriveva Lenin nell'aprile 1917: “Il controllo senza il potere è una frase vuota” 1. Solo tenendo ben strette in mano le leve del potere, conquistato attraverso la rivoluzione guidata dal partito comunista, si può procedere alla reale riorganizzazione in senso socialista, e dunque non aziendale, dell'intero impianto produttivo, e in senso più generale, dell'intera società, in tutti i suoi aspetti. Per gli spontaneisti, invece, si può gestire autonomamente la singola fabbrica e poi allargare via via questa autogestione ad altre fabbriche, e così si ha... che cosa? Ma diamine! il “controllo operaio”! E, invariabilmente, fanno riferimento all'esperienza dell'“occupazione delle fabbriche” nel biennio rosso italiano, 1919-1920.

Ora, proprio quell'esperienza mostra che, se non si pone il problema del potere, ogni pur generosa lotta condotta entro il recinto aziendale, magari anche con l'estromissione dei padroni e l'occupazione e la gestione da parte operaia, non risolve nulla – il potere borghese saggiamente attese (tenendo pur sempre pronte le proprie truppe d'assalto) e, in mancanza della guida rivoluzionaria, la lotta si spense dentro le fabbriche. I nostri compagni, che in quegli anni conducevano un'aspra battaglia contro la dirigenza opportunista del PSI e per la costituzione del Partito comunista, fissarono con grande chiarezza i termini del problema, in un articolo apparso su “Il Soviet” del 22/2/1920 e intitolato per l'appunto “ Prendere la fabbrica o prendere il potere?: “Si è detto che, dove esistono i consigli di fabbrica, questi hanno funzionato assumendo la direzione degli opifici e facendo proseguire il lavoro. Noi non vorremmo che dovesse entrare nelle masse operaie la convinzione che sviluppando l’istituzione dei consigli sia possibile senz’altro impadronirsi delle fabbriche ed eliminare i capitalisti. Questa sarebbe la più dannosa delle illusioni. La fabbrica sarà conquistata dalla classe lavoratrice – e non solo dalla rispettiva maestranza, che sarebbe troppo lieve cosa e non comunista – soltanto dopo che la classe lavoratrice tutta si sarà impadronita del potere politico. Senza questa conquista, a dissipare ogni illusione ci penseranno le guardie regie, i carabinieri, ecc., cioè il meccanismo di oppressione e di forza di cui dispone la borghesia, il suo apparecchio politico di potere. Questi vani e continui conati della massa lavoratrice che si vanno quotidianamente esaurendo in piccoli sforzi debbono essere incanalati, fusi, organizzati in un grande, unico, complessivo sforzo che miri direttamente a colpire al cuore la borghesia nemica. Questa funzione può solo e deve esercitare un partito comunista, il quale non ha e non deve avere altro compito, in questa ora, che quello di rivolgere tutte le sue attività a rendere sempre più coscienti le masse lavoratrici della necessità di questa grande azione politica, che è la sola via maestra per la quale assai più direttamente giungeranno al possesso di quella fabbrica, che invano, procedendo diversamente, si sforzeranno di conquistare” 2.

***

Ora, qualcuno dirà: ma che potere e potere! che socialismo e socialismo! qui i proletari hanno il problema di sopravvivere, di mangiare! Vero, e difatti il nostro bersaglio non sono certo i lavoratori che, abbandonati a se stessi o mal consigliati dai “fedeli servitori del capitale” (leggi: sindacati e raggruppamenti politici opportunisti e riformisti), s'illudono di rispondere così, con il “controllo operaio e l'autogestione”, all'attacco portato loro dai padroni, dal capitale, dallo Stato. Il nostro bersaglio sono tutti coloro che, nel passato come nel presente e di certo anche nel futuro, sviano le energie proletarie ingabbiandole in vicoli ciechi e prospettive fallimentari, impedendo loro di esprimersi in un reale antagonismo di classe. Qualunque movimento di lotta e di solidarietà, pur partendo da questo o quel circoscritto luogo di lavoro, deve uscir fuori da esso, deve porsi l'obiettivo non di creare illusorie “isole di produzione alternativa” o “di contropotere” (!!!) (da cui peraltro sono esclusi interi, giganteggianti settori proletari, come i disoccupati o i precari – che un posto di lavoro da occupare e gestire non ce l'hanno!), ma di costituire organismi territoriali di difesa e lotta proletaria, capaci di sostenere nel tempo e di ampliare a settori sempre più estesi le battaglie che inevitabilmente la crisi economica susciterà, in tutte le loro forme e con tutti i loro obiettivi: salario e orario, ritmi e nocività, ma anche pensioni, costo della vita, casa, sopravvivenza quotidiana, difesa dalle squadracce legali e illegali del potere borghese, e via di seguito. Non dentro il carcere della fabbrica (sul cui cancello sta scritto sempre, anche nel regime più democratico, Arbeit Macht Frei: “Il lavoro rende liberi”!), ma fuori, nelle strade e nelle piazze: è lì che si gioca il “controllo operaio”! E lo si gioca nell'unica prospettiva, che lo stesso martellamento sanguinario della crisi capitalistica renderà più evidente e necessario, della preparazione rivoluzionaria orientata alla presa del potere. E dunque del rafforzamento e radicamento del partito rivoluzionario. Altrimenti i “bei sogni” degli spontaneisti di tutte le fogge e origini si trasformeranno nei peggiori incubi: e non certo per loro, ma per i proletari.

 

1Lenin, “Rapporto sul momento attuale. Settima Conferenza Panrussa (d'aprile) del POSD(b)R. 24/4/1917”, in Opere scelte, vol.IV, p.96.

2In Storia della sinistra comunista. 1919-1920, Edizioni Il programma comunista, 1972, p.177.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2013)

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