Nella prima parte di questo lavoro (vedi Il programma comunista, n.6/2012), dopo una breve introduzione sulla lunga lotta tra Capitale e Lavoro in generale e sui momenti alti dello scontro economico e sociale tra borghesia e proletariato, abbiamo fissato la differenza tra “conflittualità” e “lotta di classe”, ovvero tra “lotta di difesa economica” e “lotta politica”: qui trovano posto sia le forme organizzative sindacali che quelle politiche della classe, di cui il partito è organo essenziale. E’ seguito il tema del “contratto di lavoro” come delineato e definito da Marx nel Capitale. Prima di passare alla storia della contrattazione, ci siamo soffermati poi sinteticamente sulle leggi del salario e della miseria crescente per riconoscere gli aspetti contrattuali e sociali del rapporto di lavoro (salario diretto, indiretto, differito, ecc). A questo punto, il lavoro ha esposto il lungo svolto storico, economico e sociale, che partendo dalla manifattura e della cooperazione ci ha portato nel vivo della lotta per la riduzione della giornata lavorativa, dal XVII secolo fino all’inizio del Novecento.


 

La lotta economica in Italia nel periodo rivoluzionario


 

In Italia, gli scioperi del 1905-1906 portarono alla conquista delle 10 ore. Nel primo dopoguerra, tutto il paese fu attraversato da scioperi e agitazioni, e nel gennaio 1919 la Fiom ottenne la giornata lavorativa di 8 ore. In Russia, la limitazione della giornata lavorativa di 8 ore fu imposta dagli operai rivoluzionari nel 1917 in modo abbastanza semplice: allo scoccare delle otto ore, gli operai suonarono la sirena per l’uscita dal lavoro contro l’opposizione del governo provvisorio, del padronato e dei menscevichi, che data la situazione la ritenevano prematura e utopistica – tesi, questa, che gli opportunisti sempre obietteranno al proletariato rivoluzionario orientato all’abbattimento del capitale. I tre momenti più alti della lotta per la limitazione e la riduzione della giornata lavorativa sono rappresentati dalla “Modesta Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge, la quale chiarisce finalmente quando finisce il tempo venduto dall’operaio e quando comincia quello che appartiene all’operaio stesso” 1, dalla lotta per le 8 ore degli operai dello Stato americano dell’Illinois nel 1886, cui i capitalisti risposero con l’eccidio di proletari (da cui nacque la giornata di lotta del 1° maggio) e dalla lotta degli operai rivoluzionari russi che imposero con la forza la giornata lavorativa delle 8 ore. Nel primo dopoguerra, in seguito alle agitazioni rivoluzionarie della classe operaia, agli scioperi per la difesa del salario e delle condizioni di vita e di lavoro che si svolgevano in tutta Europa e alla grande paura del contagio che la rivoluzione d’Ottobre aveva suscitato nelle classi dominanti, gli opportunisti, chiamati al governo per frenare, sviare e sabotare la lotta di classe contro la borghesia, il capitale e il suo Stato, legiferarono la giornata lavorativa di 8 ore. L’intento era quello di disinnescare nelle mani del proletariato un’arma importante e così tentare di incanalare parte del movimento operaio nell’alveo della democrazia e quindi reprimere sanguinosamente il proletariato rivoluzionario, compito svolto in primis dalla sanguinaria socialdemocrazia tedesca e, in Italia, dal fascismo, che fece sua la proposta di legge del socialista riformista Turati.


 

Sconfitto il movimento operaio, distrutte le sue organizzazioni di classe, il capitale ricominciò prima timidamente, poi con forza, durante il secondo conflitto imperialistico, a riprendere in mano tutta l’organizzazione del lavoro e ristabilirne la continuità. Sui metodi e comportamenti della classe dominante borghese, del suo Stato e delle sue forze politiche di destra e di sinistra borghese, nei confronti della classe operaia fin dal suo sorgere come classe contrapposta al capitale, riportiamo a mo’ di esempio ciò che hanno scritto alcuni studiosi della borghesia, certo non sospetti di simpatie comuniste. Scrive per esempio lo storico dell’economia G. Maifreda sul modo di essere degli industriali italiani subito dopo l’unità nazionale: “gli industriali, una volta stipulato il contratto di lavoro, la cui durata era arbitraria e il cui scioglimento era affidato a un semplice licenziamento ad nutum [arbitrariamente, ndr] erano dunque gli unici depositari delle scelte riguardanti il regime di fabbrica” 2. E ancora: “la fragilità delle norme che ressero l’industria italiana fino al pieno Novecento, quando la disciplina di fabbrica nei suoi schemi di base si era ormai consolidata, ebbe origine dall’aperta ostilità verso i privilegi corporativi e ogni forma di corpi intermedi che caratterizzò l’azione legislativa fin dagli anni della rivoluzione francese. La prospettiva giuridica e culturale, adottata dal Codice civile del 1804, fu quella […] di un lavoro ‘liberato’” 3.


 

Si dimostra così che la rivoluzione dell’89 altro non fu che la libertà dell’uomo borghese, dell’uomo egoista, che aveva sì liberato il lavoro dal corporativismo feudale, ma per assoggettare la forza lavoro alla compravendita nel mercato e alla schiavitù del salario; che i sacri principi dei diritti dell’uomo non erano altro che i diritti e le libertà dell’uomo capitalista, avido di plusvalore e famelico estorsore di pluslavoro.


 

Scrive ancora il Maifreda: “le forme di regolazione del lavoro industriale italiano si svilupparono, dalla nascita delle prime fabbriche e per oltre un secolo, in forme abbondantemente indipendenti dall’azione dello Stato […]”. Ma, se lo Stato borghese ignorava il lavoro in fabbrica in modo che i capitalisti avessero mano libera nello sfruttamento della forza lavoro, invece molto si occupava della classe operaia fuori dalla fabbrica, nel vietare le organizzazioni economiche e politiche della classe operaia e nel contrastare e reprimere con tutti i mezzi a disposizione (compreso l’eccidio) le lotte proletarie. Da parte sua, scrive lo studioso Neppi Modona: “la volontà del legislatore di affrontare il problema delle incriminazioni relative agli scioperi, si manifesta appena compiuto il processo di unificazione nazionale”. E ancora: “non stupisce […] la formulazione del codice Zanardelli, […] si rendeva necessario, agli occhi del potere costituito, punire ogni manifestazione di protesta della classe operaia [...].” 4. A sua volta, A. Galante Garrone sui metodi adoperati dallo Stato italiano scrive: “con lo sviluppo dell’industria anche in Italia, e col rafforzarsi del movimento operaio, diventava sempre più arduo contenere l’accentuarsi dei conflitti di lavoro e l’impetuoso dilagare degli scioperi. Ma è innegabile […] che l’indirizzo prevalente e costante della giurisprudenza si attestò su posizioni repressive elaborando gli strumenti atti a colpire gli scioperi, al di là della lettera e dello spirito della Legge. […] La magistratura […] si ostinò in un atteggiamento di diffidenza e di rigore, che rispecchiava […] un esasperato spirito di classe…” 5. E ancora: “spingevano la magistratura su questa strada di evidente rigorismo le sollecitazioni e le pressioni dell’esecutivo, così della destra come, a partire dal 1876, della sinistra” 6.


 

Dunque, repressione legale e repressione violenta, cui, dopo la sconfitta del movimento operaio durante il “biennio rosso” per il tradimento del socialismo riformista, si aggiungeva la repressione extra-legale fascista fiancheggiata dallo Stato borghese, con la distruzione delle organizzazioni economiche e politiche della classe operaia e la costruzione dei sindacati corporativi fascisti, organi dello Stato del capitale, e con la subordinazione totale delle condizioni di vita e di lavoro alle necessità dell’accumulazione capitalista. Con l’avvento del fascismo al potere si chiude una fase storica del dominio della borghesia, la fase liberale, in cui la borghesia aveva tentato in tutti modi, violenti e legali, di impedire le coalizioni tra operai salariati, con il pretesto che queste organizzazioni erano in contrasto con i “diritti dell’uomo”. Con la fase fascista, espressione dello stadio imperialista del capitale, distrutte le organizzazioni classiste, si costruiscono ex novo dei sindacati e li si sottomettono allo Stato borghese, comitato esecutivo del capitale.


Il secondo dopoguerra


Perduta la guerra e messo da parte il fascismo, con il Patto di Roma (1943) “rinacque” la nuova CGIL, “attraverso un compromesso […] fra tre gruppi di gerarchie, di cricche extraproletarie pretendenti alla successione del regime fascista” 7. I nuovi sindacati così definiscono la propria posizione nei confronti della società del capitale: “Di Vittorio […] sottolineava come la differente posizione in cui è venuta a trovarsi la classe operaia, rispetto al complesso della società nazionale, si può schematicamente sintetizzare in due termini contrapposti: da negativa, quale era anche nel periodo prefascista, è divenuta positiva e ricorda che a differenza del vecchio movimento sindacale prefascista […] la CGIL si è affermata sin dal suo sorgere come forza nazionale di primo piano come spina dorsale e pilastro fondamentale della nazione, della nuova Italia repubblicana ed ha costituito una delle principali leve della ricostruzione economica del paese” 8. E ancora: “Il ruolo politico primario che in quegli anni la classe politica chiedeva al sindacato era quello di ingabbiare le spinte egualitarie classiste che provenivano dalla base operaia” 9. A sua volta, il capo dell’opportunismo antirivoluzionario, “il Migliore”, lo stalinista Togliatti, nel suo furore nazionale e nazionalista, alla Costituente dichiarava essere l’Italia “un paese nel quale le organizzazioni operaie hanno firmato una tregua salariale, cioè un patto che è unico nella storia del movimento sindacale, perché è un patto nel quale non si fissa un minimo ma un massimo del salario” 10.


Nel ventennio che va dal ’26 al ’45, la condizione del proletariato fu devastata per l’azione congiunta dello stalinismo e del fascismo. Si era passati senza soluzioni di continuità dal vecchio corporativismo fascista al nuovo corporativismo democratico, cucito sul “modello Mussolini”, come forma delle organizzazioni economiche della classe operaia, e dal socialismo dai colori nazionali (il fascismo) si era passati al nazionalcomunismo staliniano come forma politica e con lo stesso obiettivo di piegare ancora una volta il proletariato alla ricostruzione del capitalismo nazionale e all’accumulazione del capitale. Su queste premesse e su questi presupposti si basa la contrattazione salariale dal secondo dopoguerra fino a oggi.


Il 6 dicembre 1945 con l’accordo tra industriali e CGIL vengono istituite le “gabbie salariali”, un sistema di calcolo dei salari che serve a predeterminare e differenziare i livelli salariali su base geografica. All’inizio, sono previste solo nell’Italia settentrionale, ma nel 1954 l’intero territorio nazionale viene suddiviso in quattordici “gabbie salariali”, nelle quali si applicano salari diversi. Nel 1961, il numero di zone, di “gabbie”, viene dimezzato: da quattordici a sette. A ciascuna di queste zone salariali toccava una percentuale in meno rispetto al 100% di Torino, Milano, Genova, e questo si rifletteva sul salario creando una notevole disparità: il salario medio nel ’67 era di 617 mila lire, ma a Milano raggiungeva un milione e ad Agrigento era di 300 mila. Così, per lo stesso lavoro, si avevano enormi differenze salariali.

Nell’aprile 1950, fu firmato tra le organizzazioni sindacali e la Confindustria l’accordo sui licenziamenti per riduzione del personale (tenuto nascosto fino a dicembre); il 18 ottobre 1950 fu firmato l’accordo sui licenziamenti individuali. Tutti e due gli accordi tra “sindacati nazionali” e Confindustria con intermediazione del governo indebolivano la tutela dei lavoratori licenziati rispetto all’accordo dell’agosto 1947, che a sua volta aveva lasciato intatta la struttura contrattuale territoriale e centralizzata ereditata dall’ordinamento fascista e ingabbiante l’iniziativa operaia. Si ebbero così la fase di ricostruzione industriale e dell’economia nazionale e la ripresa dell’accumulazione del capitale, grazie allo sfruttamento feroce della classe operaia, fatto di bassi salari, lunghi orari di lavoro, lavoro irregolare 11, lavoro nero, immigrazione interna ed emigrazione all’estero di dimensioni bibliche 12: milioni di braccianti agricoli, di mezzadri, di piccoli contadini, di proletari disoccupati e sottooccupati che dal sud Italia e dal Veneto si spostavano verso le città industriali del settentrione d’Italia.

Verso la fine degli anni sessanta, nel biennio 1968-69, di cui parleremo più avanti, ci sarà una fase di risveglio della classe operaia sul piano delle lotte in difesa delle condizioni di vita e di lavoro: tuttavia, non c’è paragone con la fase di transizione 1943-48, quando ancora erano vive le posizioni politiche di classe, né con il successivo triennio 1949-52, durante il quale la classe operaia fu costretta a piegarsi sotto i colpi di una repressione di grande ampiezza, con l’intervento rapido, in ogni parte del territorio nazionale, della famosa Celere, e con il parallelo intervento antiproletario della sinistra borghese. Seguiamo ora brevemente due aspetti delle dinamiche sociali che caratterizzarono questi anni: la questione della “concertazione” e quella della “scala mobile” – la prima molto più legata ai rapporti fra le classi legati alla contingenza, e l’altra, che ebbe vita molto più lunga, in quanto resistette fino al nuovo ciclo di lotte degli anni sessanta-settanta.

a) La concertazione: 1945-48

Le prime concertazioni del dopoguerra hanno riguardato la “tregua salariale” e il “blocco dei licenziamenti”, ma, mentre la “tregua salariale” non è stata messa in discussione, il “blocco dei licenziamenti” ha subìto velocemente delle modifiche, fino a essere abolito. La vicenda del “blocco” dell’agosto 1945 deve essere d’insegnamento per le nuove generazioni di proletari, perché mostra in luce meridiana la natura e la funzione dei “sindacati tricolore”: bloccati i licenziamenti in cambio della “tregua salariale”, nel momento stesso in cui la riconversione dell’economia di guerra necessitava della ristrutturazione industriale ecco che si hanno gli accordi che li consentono. Nell’ordine, prima si è avuto il passaggio dal blocco assoluto del Decreto Legge Luogotenenziale del 21 agosto 1945, n. 253, ad un regime di blocco “relativo”; poi, con l’accordo del gennaio 1946 tra CGIL e Confindustria, si contingentano mese per mese secondo le necessità delle aziende del nord Italia; con l’accordo di aprile-maggio 1947, la CGIL e la Confindustria rinnovavano l’accordo sulla tregua salariale, e fissano quello che sarebbe diventato l’art. 3 dell’accordo del 7 agosto 1947 sulle “commissioni interne”, che regola ancora le nuove procedure dei licenziamenti, cioè il loro sblocco generalizzato. Questo accordo sull’art. 3 modificava sostanzialmente l’accordo del 19 gennaio 1946 sul contingentamento dei licenziamenti, introducendo sia i licenziamenti per riduzione di personale, sia quelli individuali. In merito agli accordi di questo periodo 1945-1947, sempre Craveri scrive: “I grandi accordi interconfederali del biennio 1945-47 lasciavano intatta la struttura contrattuale e centralizzata ereditata dall’ordinamento fascista e ingabbiavano l’iniziativa operaia[…]” 13. E ancora: “La spinta conflittuale della base operaia che nei primi anni della ricostruzione, pur in assenza di una strategia sindacale, aveva costituito un elemento di pressione sul governo, si trovava ora senza alcun possibile sbocco, e le veniva meno la stessa organizzazione sindacale” 14. E’ questa la funzione storica dei sindacati nazionali tricolori: quella di abbandonare la classe operaia dopo averla portata alla sconfitta, sola e senza organizzazione economica di classe di fronte al padronato e allo Stato del capitale. Ed è qui l’urgenza della classe operaia di dotarsi di organizzazioni economiche di classe che si oppongano al padronato e al suo Stato con rivendicazioni economiche che facciano il suo esclusivo interesse, che adottino i metodi della lotta di classe, che prendano l’iniziativa della lotta con l’azione diretta di classe, togliendola così alla classe dominante borghese e al suo Stato.

b) La scala mobile

L’indennità di contingenza o “scala mobile” fu introdotta subito dopo la fine della seconda guerra imperialista mondiale (23 giugno 1944) per la sola provincia di Milano: indennità chiesta dal sindacato e accolta dalla Confindustria, per evitare che di fronte al forte aumento dei prezzi e alla perdita d’acquisto dei salari si potesse accendere la lotta per la difesa del salario. Essa viene estesa a tutta l’Italia Settentrionale con l’accordo interconfederale del 6 dicembre 1945 e a tutta l’Italia con il “concordato” del 23 maggio 1946. Di questa introduzione della “scala mobile”, Craveri scrive: “Fu proprio l’introduzione dell’istituto della ‘scala mobile’ a sancire il principio della subordinazione della politica rivendicativa del sindacato al processo di restaurazione capitalistica” 15. E così continua: “Angelo Costa, di recente, ha ricordato, come l’introduzione di quell’istituto fu un punto qualificante della politica Confindustriale” 16.

All’inizio, il meccanismo della “scala mobile” era a carattere provinciale e il metodo di applicazione variava da provincia a provincia. Davanti alle prime difficoltà nell’accumulazione del capitale, già con l’accordo interconfederale del 5 settembre del ’49 si ebbe il primo blocco della “scala mobile”. Con l’accordo del 21 marzo 1951, dopo quasi due anni di blocco dell’indennità di contingenza, la “scala mobile” veniva riattivata e l’indice del costo della vita diventava unico per tutta l’Italia: gli scatti che maturavano erano uguali per tutti, ma il valore del punto di contingenza si differenziava per qualifica, età e sesso. Inoltre, il paese veniva diviso in due gruppi territoriali, (Gruppo A e Gruppo B): nel Gruppo B (centro-sud), il valore del punto era inferiore del 20%. La “scala mobile” variava poi con la variazione dell’indice del costo della vita, che doveva difendere i salari dalla variazione di aumento dei prezzi delle merci (“beni di consumo”, nel linguaggio borghese) necessari alla “famiglia operaia tipo”, composta da due genitori e due figli a carico. L’insieme dei “consumi tipici” di questa famiglia tipo costituiva il cosiddetto “paniere di spesa”. A partire del maggio 1957, si calcolava quale somma fosse divenuta necessaria ai nuovi prezzi, per comprare sempre le stesse quantità di merci, corrispondenti al bilancio convenzionale della famiglia operaia tipo (paniere). Il rapporto tra la nuova somma e la vecchia indicava la percentuale di aumento del costo della vita, e su quella percentuale si applicava la “scala mobile” sulla contingenza 17. Quest’indennità di contingenza aveva, come abbiamo scritto sopra, valori diversi, per qualifica, sesso, età, luogo di lavoro, dimensione della fabbrica (inferiore per le aziende fino a 50 addetti).


La ripresa delle lotte di difesa negli anni ’60-’70 del ‘900

 

E’ necessario fare adesso un excursus storico sulla contrattazione salariale e normativa dal secondo dopoguerra fino ai giorni nostri, per mostrare la stretta continuità dell’azione sindacale nel sottomettere le condizioni di lavoro e di vita della classe proletaria alle necessità delle aziende, dell’economia nazionale, e all’accumulazione del capitale in generale. Avendo sempre presente che la contrattazione salariale e i modelli contrattuali sono funzionali alle esigenze del capitale (disporre di una forza lavoro duttile, flessibile e disciplinata, da consumare con profitto e in modo stabile), il modo migliore per ottenere questo fine è stato la “concertazione” o “consultazione” sindacale.

Nell’immediato secondo dopoguerra, come abbiamo già scritto, il modello contrattuale era quello ereditato dal fascismo, in cui l’unico livello contrattuale per la determinazione delle tabelle salariali era quello confederale. L’accordo includeva il divieto di accordi aziendali per variare le tabelle salariali ed era legato alla “tregua salariale” per favorire la ricostruzione post bellica. Nel 1948, si consuma la scissione nella Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) con l’uscita della CISL, dei democristiani, dei repubblicani e dei socialisti di destra. Ma, come scrisse il nostro partito, “queste scissioni non interromperanno il procedere sociale dell’asservimento del sindacato allo Stato borghese, e non sono che una fase della lotta capitalista per togliere ai movimenti rivoluzionari di classe futuri la solida base di un inquadramento sindacale operaio veramente autonomo […] la confederazione che rimane con i socialcomunisti […] non si basa su un autonomia di classe. Non è un’organizzazione rossa, è anche essa una organizzazione tricolore cucita sul modello Mussolini” 18.

Il contratto nazionale del 1954 continua a mantenere le tabelle salariali differenti per area geografica, per età dei lavoratori e per sesso. Inoltre, si stabiliva che la contrattazione nazionale di categoria si svolgesse ogni tre anni. Soltanto con il contratto nazionale del 1958 si ottiene un miglioramento, con la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 44 ore. Inoltre, per legare di più i lavoratori all’azienda, si fanno le prime prove di contrattazione aziendale con i premi di produzione. I contratti nazionali del 1964 e del 1967 passeranno alla storia come “contratti bidone”, perché, benché i sindacati tricolori si fossero presentati uniti e si fosse ottenuto col contratto nazionale (1964) l’abolizione delle differenze salariali per sesso e per età (ma rimanevano quelle per area geografica), i risultati ottenuti non erano riusciti né a migliorare né a generalizzare quelli ottenuti con la contrattazione aziendale.

Il biennio 1968-1969 fu particolarmente vivace: furono tante le lotte che lasciarono il segno. In ogni parte d’Italia, è un susseguirsi di agitazioni contro i ritmi di lavoro, contro gli straordinari, contro i cottimi, in difesa del salario, contro i licenziamenti, contro il ventaglio delle qualifiche. In ciascuna di esse, “nuovi” metodi di lotta, “nuove” forme di organizzazione (riscoperti dopo il lungo periodo fascista e l’altrettanto lungo periodo del suo gemello democratico) furono al centro degli scontri: blocchi della produzione e delle catene di montaggio, picchetti, scioperi improvvisi, riduzione dei ritmi di lavoro, assemblee dentro e fuori la fabbrica. Molto spesso gli operai scavalcavano le organizzazioni sindacali e uscivano dalle fitte maglie imposte loro dalle Commissioni interne, che entravano in funzione solo e unicamente nei momenti di rinnovo contrattuale e di fatto svolgevano le funzioni di controllori della classe operaia, in modo da non lasciarla sfuggire dalla rete del “sindacato tricolore”, secondo quel “Patto di lavoro”19 siglato per favorire la ricostruzione postbellica. Nel corso delle assemblee spontanee imposte con la forza dagli operai, nascono i “delegati di reparto e di linea” e quindi anche i Comitati unitari di base (CUB), costituiti da delegati operai non necessariamente iscritti al sindacato, ma per lo più usciti dalla CGIL e politicizzati. Da questi, nascono i Consigli di fabbrica, alla fine regolamentati dalle Confederazioni “tricolori” (con le RSA, Rappresentanze sindacali aziendali). Le lotte per la difesa delle condizioni di vita e di lavoro si saldavano a quelle contro le “deleghe aziendali”, contro le direzioni sindacali che rallentavano, boicottavano e avversavano le lotte, contro gli spezzettamenti per regioni, provincie, categorie. Limite insuperabile di queste lotte stava nel fatto che si tentava di scalzare le gerarchie del “sindacato tricolore” con la rivendicazione della “democrazia sindacale” – quella “vera”, quella “operaia”.

Il biennio rappresentò, in realtà, il concludersi dell’accumulazione postbellica, e annunciava una crisi economica profonda: quella di metà degli anni ’70 (da noi prevista fin dagli anni ‘50). Furono gli anni della riforma delle pensioni, della fine delle “gabbie salariali” e della nascita dell’antiproletario Statuto dei lavoratori 20: una nuova catena di illusioni che legava mani e piedi ai lavoratori, trasformandoli da proletari che non hanno nulla da perdere in cittadini rispettosi della legge e consegnandoli così a una forma di passività regolamentata e blindata dal “diritto” del Capitale.

A partire dalla reale situazione di sfruttamento e immiserimento cui era assoggettata la classe operaia e dalla truffa dei “contratti bidone” degli anni precedenti, si rompe dunque il clima di pace sociale che i sindacati tricolori si erano imposti di mantenere per non turbare l’andamento dell’economia nazionale. Con le lotte, si hanno aumenti salariali uguali per tutti, si ha la riforma delle pensioni (che provoca la rivolta della base operaia contro l’accordo CGIL-CISL-UIL, Governo e Confindustria), si ottiene per gli anni successivi la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore, si ha l’abolizione delle gabbie salariali, si cancellano le differenze geografiche del punto di contingenza… In tutto questo periodo di lotte, proseguiva senza soste lo scontro tra la massa operaia, che si batteva per difendere il salario, imporre ritmi di lavoro sopportabili, ottenere un orario di lavoro che le permettesse di avere del tempo da vivere umanamente e una pensione che le consentisse di vivere una vecchiaia meno insicura, e il sindacalismo tricolore, sempre impegnato a diluire le rivendicazioni operaie per rendere i lavoratori compatibili con le esigenze delle aziende e dell’economia nazionale.

Il contratto nazionale del 1972 si muove ancora lungo la linea del contratto nazionale del 1969: le rivendicazioni sono sempre improntante all’egualitarismo salariale, si ottiene l’inquadramento unico che slega il valore della prestazione dal sistema delle mansioni; mentre il contratto nazionale del 1975 è il punto di arrivo delle lotte che presero avvio nel 1968 e il punto d’inizio dell’offensiva padronale. La musica cambia sotto la pressione della crisi economica: Confindustria, Governo e “sindacati tricolori” si accordano per la diminuzione dei costi salariali per le imprese, mettono fine all’“egualitarismo” salariale e aprono alla proposta della Confindustria di un “accordo quadro” per regolare la dinamica salariale e rendere più profittevole il consumo della forza lavoro, attraverso la regolamentazione della contrattazione confederale nazionale ogni due anni e di quella aziendale ogni anno. Il contatto nazionale del 1979 accentua ancor più il controllo della dinamica salariale: le differenze salariali tra le varie qualifiche si allargano tanto che la contrattazione aziendale esplode, entrando in contraddizione con la linea sindacale nazionale, e, anche se non viene sconfessata apertamente dai sindacati confederali, questi si defilano lasciando la classe operaia in balia delle aziende.

Con il presentarsi della crisi a metà degli anni ’70, s’acuisce dunque l’offensiva antioperaia del Capitale con la collaborazione dei “sindacati tricolore”, dei governi di centrosinistra e centrodestra o di destra e di “sinistra” 21: un’offensiva lenta e avvolgente che, in modo inesorabile, non risparmia alcun aspetto del rapporto capitale-lavoro salariato. Pezzo per pezzo, si smantellano tutte le “conquiste” strappate con la lotta (contratto nazionale, di categoria, pensioni, riduzione dell’orario di lavoro, limitazione dello straordinario, aumenti di salario, riduzioni del ventaglio delle qualifiche e delle differenziazioni salariali) – conquiste che il cretinismo piccoloborghese e l’aristocrazia operaia consideravano acquisite una volta per tutte. L’offensiva della classe dominante vuole lasciare la classe operaia nuda e senza riserve di fronte a un capitale libero di consumare la forza lavoro per estorcerne il massimo di pluslavoro/plusvalore/profitto. Infatti, dopo che l’ha acquistata, al capitalista appartiene in toto il suo “uso”: i tanto decantati “diritti dei lavoratori” altro non sono che una variabile dipendente del capitale e, quando è necessario, devono essere messi da parte per permettere al capitale di riprendere il ciclo d’accumulazione e all’economia nazionale di ricominciare a crescere. E a far accettare alla classe operaia questa necessità del capitale collaborano tutte le forze politiche nazionali e i “sindacati tricolore”.

Il ciclo delle “riforme” strappate attraverso le lotte si conclude, nel biennio 1975-1977, con l’istituzione del punto unico di contingenza e l’abolizione delle differenze del punto stesso per qualifica e per grandezza delle aziende: le differenze su base geografica erano state abolite nel 1969 insieme alle “gabbie salariali”, quelle per sesso nel 1970, quelle per età nel 1971, mentre quelle per qualifica e quelle per le dimensioni delle aziende vengono abolite nel 1977. L’introduzione della “scala mobile”, unitamente alle “gabbie salariali”, aveva avuto l’effetto di allargare le differenze salariali sia tra operai che tra operai e impiegati 22. Dopo dure lotte, la classe operaia era dunque riuscita a ottenere, oltre all’abolizione delle “gabbie salariali”, che il valore del punto di contingenza tutelasse dall’inflazione i salari di tutta la classe operaia.


L’offensiva borghese negli anni ottanta e novanta

La reazione del capitale non si fa attendere. Con la collaborazione dei “sindacati tricolore” e con i governi via via succedutisi, ha inizio la “controriforma”. L’“accordo Scotti” del 22-23 gennaio 1983 attacca la “scala mobile”: con esso, ha inizio anche in modo ufficiale il metodo della “concertazione” governo-sindacati-imprenditori, con l’obiettivo di subordinare in modo rigido i salari all’accumulazione del capitale. La controriforma della “scala mobile” modifica il valore del punto di contingenza e rallenta la capacità di copertura rispetto all’aumento del costo della vita; essa procede poi con il decreto legge del 14 febbraio 1984 (governo del socialista Craxi) 23, che taglia quattro punti percentuali della “scala mobile”. Il contratto nazionale del 1983 è regolato dall’accordo Scotti sul costo del lavoro, con l’introduzione di vincoli alla lotta all’inflazione che si attribuisce alla dinamica salariale, e dunque con un ulteriore ridimensionamento dei salari; attraverso la liberalizzazione dell’uso dello straordinario, la flessibilità degli orari e della prestazione lavorativa, l’aumento della produttività del lavoro diventa da questo contratto in avanti l’elemento qualificante di tutte le contrattazioni sindacali: l’aumento dell’estorsione del pluslavoro è la nuova stella polare dei sindacati tricolori. Il contratto nazionale del 1986 si muove entro i vincoli stabiliti dall’accordo interconfederale: si rafforza la disponibilità dei sindacati ad aumentare la flessibilità e la produttività della forza lavoro, s’introduce la possibilità per le aziende di utilizzare in modo più esteso forme di lavoro precario (lavoro a tempo determinato, contratti di formazione lavoro), si allargano i criteri per l’utilizzo del part time. Il contratto nazionale del 1990-1991 si muove sullo stesso tracciato di quello del 1986; inoltre, nel luglio 1992, con l’accordo Governo- "sindacati tricolore", si abolisce definitivamente la “scala mobile” 24, che era stata disdetta già nel 1990 dalla Confindustria e prorogata per decreto dal governo fino al 31-12-1991. Per di più, si bloccava anche la contrattazione aziendale, cosicché tutta la struttura della contrattazione messa in piedi dal corporativismo Governo-Confindustria-Sindacati che si reggeva su contrattazione nazionale (salario base-“scala mobile”-scatti di anzianità) e contrattazione aziendale (salario di produttività) veniva messa da parte per passare a un'altra forma di contrattazione che assoggettasse ancora di più la forza lavoro e il salario alle esigenze dell’accumulazione del capitale.

Il 23 luglio 1993, la corporazione nazionale del capitale, formata da Governo, Confindustria e Sindacati, si accorda sulla “nuova politica dei redditi”: con essa, si determinavano la durata del contratto (due anni per la parte economica, quattro per quella normativa) e la dinamica del salario monetario a livello nazionale (che viene limitato e vincolato dalla predeterminazione dell’inflazione programmata fissata dal governo: dunque, non più in base a quella effettiva certificata dal paniere Istat). Si assiste quindi alla rincorsa impotente del salario rispetto all’inflazione reale 25, una rincorsa che somiglia molto a quella di Achille e della tartaruga nel famoso paradosso di Zenone! Il recupero della differenza tra inflazione programmata e inflazione effettiva può essere contrattato solo in seguito al rinnovo biennale a livello aziendale, sottomettendo così ancora di più la forza lavoro al raggiungimento degli obiettivi aziendali: aumento della produttività del lavoro, riduzione dei costi aziendali, profittabilità dell’impresa, flessibilità del lavoro. Di fatto, l’accordo del ’93 aboliva sia la contrattazione nazionale (poiché gli adeguamenti salariali derivavano direttamente dal tasso di inflazione programmata dal governo) sia, per una parte molto numerosa della classe operaia, la contrattazione aziendale (data la struttura produttiva del capitale italiano composta da una infinità di imprese con meno di quindici dipendenti).

Per avere un quadro efficace di quello che è avvenuto in seguito a questo accordo, riportiamo quanto scrive un protagonista del sindacalismo tricolore: “Gli effetti di questi accordi sono immediatamente chiari. Il primo è che con la soppressione della scala mobile finisce certamente ogni possibile rincorsa tra prezzi e salari. Il secondo è sulla distribuzione del reddito tra salari e profitti. A partire dal 1992, diminuisce sia la quota di reddito del lavoro dipendente che il livello reale delle retribuzioni. In effetti, la quota di reddito del lavoro dipendente, che nel 1985 era pari al 50%, dieci anni dopo è scesa al 40% e le retribuzioni reali unitarie, dal 1992 al 1996, scendono di quattro punti. Il che significa che i salari si riducono mediamente del 1% all’anno” 26.

A partire dal 1984 tutta una serie di leggi sul lavoro hanno reso sempre più flessibile l’assunzione del lavoratore e il loro uso. La legge 56 del 1984 ha dato la possibilità di estendere i contratti a termine; la legge 236 del 1994 ha aggiunto la possibilità di assumere i lavoratori con contratti di formazione-lavoro; la legge 196 del 24 giugno 1997 (il “pacchetto Treu”) introduce il “lavoro interinale”27: si allunga la durata dei contratti di formazione-lavoro, si estende l’uso dei contratti a termine e dei contratti a tempo parziale. Nel giro di pochi anni, anche con la privatizzazione del collocamento e la chiamata individuale, la compravendita della forza lavoro viene flessibilizzata e precarizzata secondo la necessità e la richiesta del capitale, grazie principalmente alle forze politiche della sinistra borghese. Alla fine degli anni ’90, gli accordi del ’93 (la concertazione tra governo-sindacati-confindustria) entrano in crisi davanti alle nuove difficoltà del capitalismo italiano e alle sue esigenze di eliminare quei pochi vincoli del “pacchetto Treu” che limitavano la totale flessibilità nell’acquisto e utilizzo della forza lavoro.


 

(2. Continua)

1 1 K. Marx, Il Capitale, Libro primo, UTET, 1975, p. 419

2 G. Maifreda, La disciplina del lavoro, Bruno Mondadori, 2007, p. 34

3 Ibidem p. 33

4 G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura, Editori Laterza, 1973, p. 5

5 A. Galante Garrone, “Prefazione” a G. Neppi Modona, Sciopero, potere politico e magistratura, Editori Laterza, 1973, p. XI-XII

6 Ibidem p. X

7 “Il Partito di fronte alla ‘questione sindacale’”, Il programma comunista, n. 3/1972

8 P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, il Mulino, 1977, p. 65

9 Ibidem p. 40

10 Ibidem p. 59

11 Lavoro nero e lavoro irregolare erano favoriti e legittimati dalle leggi sulle migrazioni interne: vedi la Legge n. 264 del 29/4/1949, che rinviava alla disciplina sulle migrazioni interne della Legge del 6 luglio 1939 n. 102, emanata dal fascismo per tentare di frenare l’afflusso di proletari disoccupati nelle città, perché potevano innescare tensioni sociali, e modificata infine soltanto con la Legge n. 5 del 19 gennaio 1961. Essa stabiliva che il lavoratore dipendente doveva essere iscritto nelle liste di collocamento del comune di residenza. Sulla base di questa legge, il trasferimento di residenza era subordinato alla prova di essersi procurata un’occupazione nel comune d’immigrazione. La prova era l’autorizzazione dell’ufficio di collocamento, ma questa non poteva essere concessa perché vincolata all’iscrizione nelle liste di collocamento, concessa ai soli residenti.

12 La classe dominante italiana a guerra appena conclusa continuava come sempre con la sua ignominia. Lo Stato italiano firmava il 23 giugno 1946 con il Belgio un accordo con cui s’impegnava a favorire l’emigrazione di lavoratori italiani in cambio di forniture di carbone (il Belgio s’impegnava a vendere all’Italia 2500 tonnellate di carbone ogni 1000 operai inviati). In tal modo, oltre al carbone, il capitalismo-vampiro si assicurava anche la valuta straniera pregiata delle rimesse degli emigranti. Centinaia di migliaia di proletari italiani lavoravano nelle miniere di carbone in condizioni disumane, a lungo censurate dai mezzi d’informazione (o meglio di disinformazione) della borghesia, ma tragicamente rivelate dalla tragedia di Marcinelle (8 agosto 1956). Quando gli operai-minatori seppero il contenuto e le condizioni del “Accordo”, esclamarono inorriditi: “ci hanno venduto per un sacco di carbone”.

13 P. Craveri, Sindacato e istituzioni nel dopoguerra, il Mulino, 1977, p. 210

14 Ibidem p.223

15 Ibidem, p. 210

16 Ricordiamo che Angelo Costa fu il primo presidente del sindacato degli industriali, nel secondo dopoguerra.

17 La spesa necessaria nel 1956 per il paniere è stata assunta come base 100 di partenza, e a ogni 1% di aumento dell’indice del “costo della vita” si faceva corrispondere una somma di contingenza pari all’1% delle retribuzioni correnti.

18 “Le scissioni sindacali in Italia”, Battaglia Comunista, n. 21/1949

19 “Patto di lavoro” lanciato nel 1949 da quello stesso Di Vittorio – segretario generale della CGIL – di cui il giornaletto del padronato italiano fa costantemente l’apologia, a dimostrazione, se ancora ce ne fosse bisogno, di come i sindacati ricostruiti nel secondo dopoguerra siano eredi dei sindacati fascisti: nazionali, “tricolore” e anticlassisti. Scrive per esempio R. Napoletano, sul supplemento “Domenica” de Il Sole 24 Ore del 25-3-2012: “ La lezione di Di Vittorio [….]. Non è da tutti chiedere ai suoi lavoratori di accollarsi un sacrificio supplementare […] che pose le basi del miracolo economico italiano”. E invita la classe dirigente italiana, di cui fanno parte anche le organizzazioni sindacali “tricolore”, a… far propria la lezione di Di Vittorio! A ulteriore dimostrazione della continuità nella natura del sindacato tra fase fascista e fase democratica, della natura di sindacato anticlassista e “tricolore” cucito sul “modello Mussolini” dei sindacati formatisi col “patto di Roma”, citiamo ancora l’apologia che fa E. Scalfari (Repubblica, 29-1-2012) di un altro segretario generale della CGIL, Luciano Lama, che in un’intervista sosteneva “il principio dei licenziamenti degli esuberi” e la chiamata della “classe operaia a un programma di sacrifici”.

20 “Statuto dei lavoratori”, il cui fine era distogliere i lavoratori dalla lotta, ripristinare la disciplina in fabbrica e indirizzare i lavoratori salariati a rivolgersi ai “Tribunali” del capitale per risolvere i contrasti che sorgono tra capitale e lavoro. E’ servito poi anche a far proliferare una miriade di azzeccagarbugli e legulei del lavoro, annidati nelle Università e pagati a peso d’oro, per studiare e consigliare la classe dominante come fregare la classe operaia.

21 Ricordiamo, a chi avesse scarsa memoria, che il primo a sostenere la necessità di una “politica di austerity” per la classe operaia fu il segretario dei nazionalcomunisti (PCI) Berlinguer, tuttora icona della borghesia di sinistra e della “sinistra” in genere.

22 Funzionamento della “scala mobile”: nel 1956, per un manovale, il punto di contingenza era di lire 396 (l’1% del suo salario, allora di lire 39.600); per un impiegato, il punto valeva invece lire 948 (l’1% dello stipendio di lire 94.800). Tali valori sono rimasti in vigore fino all’accordo del ’75 sul punto unico di contingenza: per lo stesso manovale comune e per lo stesso impiegato (se lavoravano nel Gruppo B: area centro-sud), a fronte della stessa variazione dei prezzi, il punto di contingenza aveva un valore del 20% inferiore. Inoltre, dopo più di vent’anni d’indennità di contingenza, nel 1974, il punto scattava per valori in aumento reale inferiori all’1%, mentre all’inizio (1957) un punto di contingenza scattava di fronte ad un aumento reale dell’1% dell’indice del costo della vita. Alla fine del 1974, un manovale comune, per difendere dall’inflazione il proprio salario (lire 160.000), avrebbe dovuto avere l’1% di aumento del costo della vita (lire 1600 al mese): invece, percepiva 2,52 punti di contingenza a lire 396 mensili, cioè lire 998. Di conseguenza si determinava una perdita del potere d’acquisto, cioè del salario reale.

23 Il governo Craxi emanò un decreto legge, che faceva proprio l’accordo raggiunto tra l’associazione padronale e le organizzazioni sindacali CISL e UIL, smaniose di essere sempre le prime della classe al servizio del capitale, e senza la firma della CGIL. Quest’ultima, invece di chiamare alla lotta la classe operaia per difendere uno strumento che serviva a difendere relativamente i salari dall’inflazione, si accodava al referendum abrogativo promosso dal PCI, che chiamava a decidere, su uno strumento che interessava solo la classe operaia, tutte le altre classi sociali, di solito avverse alla classe operaia. Il referendum si concluse con l’abrogazione.

24 Nel 1986, era stato raggiunto l’accordo interconfederale per modificare l’accordo del 1975 sulla “scala mobile”. Il nuovo accordo prevedeva scatti semestrali al posto di quelli trimestrali e l’eliminazione del punto unico sostituito da valori differenziati.

25 L’inflazione reale è l’inflazione certificata dall’Istat, con in più quella derivata dai prodotti petroliferi che erano stati tolti dal paniere Istat.

26 P. Carniti, Passato prossimo, E-book Fondazione "Vera Nocentini", Torino 2004 p.149

27 La prima agenzia interinale nasce nel 1996: si chiamava “Obiettivo lavoro” e suo presidente era Pino Cova, membro della presidenza delle cooperative della Lombardia. In attesa della legalizzazione, i suoi sportelli erano presenti all’interno della Camera del Lavoro della CGIL.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2013)

 

 

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