La storia del movimento operaio è piena di “cavalieri del buon senso”, di “educazionisti” e “praticoni”, insomma di quelli che… “i proletari non capirebbero: dobbiamo solo aiutarli a prendere quel che hanno a portata di mano”.

Si tratta di una razza infelice. Siccome fa fatica a capire la società del Capitale e le sue contraddizioni, “pensa” che vada risparmiata ai lavoratori la fatica di capirla, cioè di fare il necessario passo in più per almeno difendersene meglio: ci vogliono “frasi scorrevoli”, un “linguaggio semplice” che dica pane al pane e vino al vino, una “letteratura proprio adatta agli operai”, volantini di quattro righe scritte grosse.

In pratica, pigliano i lavoratori per deficienti.

Quando all’interno di un organismo, nato di per sé per una iniziale difesa spontanea delle condizioni di vita e di lavoro, si cerca di sostenere che, dalla conoscenza critica (storica, quindi) delle lotte passate può derivare una maggior forza per le lotte presenti e per quelle future, che gli insegnamenti tratti dalle sconfitte (tante! troppe!) e dalle vittorie, i metodi di lotta delle generazioni proletarie, il ricordo delle frustrazioni e dei tradimenti, potrebbero almeno rivitalizzare corpi e menti, stremati giorno dopo giorno dall’oppressione non solo fisica del lavoro salariato e dal bombardamento intossicante di teorie, convinzioni, ideologie borghesi e piccolo borghesi (queste sì vere droghe pesanti: diritto, giustizia, carte costituzionali, merito e democrazia…), ecco che le sedicenti avanguardie di lotta si rivoltano allarmate: “ma questo si chiama sostituzionismo!”.

E segue una caterva di luoghi comuni: “devono essere gli operai ad autorganizzarsi, devono essere gli operai a proporre gli obiettivi della loro lotta, devono essere gli operai a scegliere cosa fare con metodi democratici, non si può interferire coi loro bisogni, con le loro decisioni e rivendicazioni”. Insomma, bisogna autolimitarsi, dire e non dire! Non solo: con la stessa protervia con cui sindacati nazionali e corporativi, partiti della borghesia di sinistra e padroni spiegano agli operai che coloro che si avvicinano dall’esterno alle aziende sono degli intrusi di cui diffidare, questi “cavalieri del buon senso” sostengono che “gli operai non sono pronti” (e quando mai lo saranno per costoro?) e quindi non bisogna andar oltre l’ossequiosa solidarietà e una megafonata. Guai se chi partecipa alla vita di questo organismo di lotta lo presenta come un organismo che deve avere un carattere permanente e quindi allargare ed estendere la lotta al di là del recinto aziendale! No: bisogna entrare in fabbrica, per imparare proprio da quegli operai-tipo quello che, come fratelli della medesima classe, già sappiamo, fare sfoggio dei titoli e delle ferite riportate e limitarsi a fare un corso da responsabile sindacale, solo un po’ più ringhioso ma sempre fedele al lavoro e all’azienda…

E’ una razza infelice quella che adora gli operai e la condizione operaia. Avendo leggiucchiato da qualche parte che gli operai di fabbrica (e, al di sopra di tutti, i metalmeccanici del terzo livello!) producono la ricchezza sociale, ecco che l’ossequio all’immensa statura dell’operaio (maschio, adulto, settentrionalizzato?) diventa un obbligo morale.

E qui i “cavalieri” si dividono in due “ordini”. Quello dei masochisti che, pur essendo salariati, non lavorano in fabbrica e vivono con invidia e senso di colpa l’esclusione dalla fabbrica, bramano al titolo di “operaio”, vero rappresentante della classe, e considerano gli altri lavoratori (impiegati, pensionati, fuori produzione, statali, salariati del commercio e via di seguito) una sottocategoria di qualità operaia inferiore, buona tutt’al più come ausiliaria massa di manovra.

E quello di coloro per i quali tutto questo ossequioso timore che “gli operai non capiscano” è dettato proprio dal timore che capiscano e che finalmente, cominciando a coagulare le esperienze difensive, ad allargarle dalle aziende al territorio, a renderle permanenti proprio intorno a quelle difficili e premature parole d’ordine, possano riconoscere ciò che la condizione di fabbrica tiene nascosto. Insomma, quelli che hanno proprio paura di quel che “i proletari non capirebbero”: perché, quando gli operai capiscono, mettono in pratica; e allora addio alla ripartizione che nella società borghese si fa della ricchezza sociale, addio reddito garantito a tutti i “cavalieri della piccola borghesia e dell’aristocrazia operaia” che adorano la condizione operaia purché non si azzardi a diventare condizione del proletariato come classe per sé, come soggetto politico rivoluzionario!

Già che ci siamo, eliminiamo un possibile equivoco: le parole d’ordine di cui qui parliamo, i metodi di lotta, il movimento e le strutture permanenti di difesa economica, non portano automaticamente la nostra classe a una consapevolezza politica rivoluzionaria. Sono un allenamento alla lotta politica rivoluzionaria, per la quale altre crisi della società borghese devono ancora maturare, oltre a quella economica: le crisi sociali, politiche, militari. Ben altro è l’organismo che la classe si deve dare! E’ il Partito Comunista che a quel punto, riassumendo tutto il suo precedente lavoro di organo che prepara la classe, dirige la rivoluzione. Ma, dunque, questo è un altro problema… Eppure, è proprio la paura che i proletari riconoscano fin da questo momento, così lontano dalla crisi rivoluzionaria, la necessità del Partito Comunista che i “cavalieri del buon senso” mascherano con quella tiritera del “non capirebbero”.

D’altronde, così è: solo grazie all’azione dei comunisti all’interno degli organismi di lotta economica, alla loro insistenza su parole d’ordine radicali e metodi di lotta altrettanto radicali, alla loro continua battaglia affinché dalla sostanza delle rivendicazioni si dia forma al sindacato di classe, la nostra classe si potrà difendere senza rimanere costretta nella condizione socioeconomica di salariati aziendali, di operai di fabbrica!

E allora, con gli adorati operai i “cavalieri del buon senso” ci van leggeri. “Lotta di classe” e “violenza proletaria” vanno escluse a priori; meglio “rivendicazione operaia”, “manifestazione di massa”. Non si parli in nessun modo di “partito di classe”, perché si tratta del diavolo che predica e annuncia il… dominio dittatoriale del proletariato. Le parole “socialismo” e “comunismo” davanti alle fabbriche devono essere vietate per principio. E’ consentito parlare di “sfruttamento”, ma con moderazione, di “licenziamenti” quando siano appurati da fatti concreti: si parli invece di “diritti”, di “giustizia retributiva”, di “democrazia partecipativa”, di “reddito di cittadinanza”. Nessuno osi, aldilà del cancello della fabbrica, fare discorsi incomprensibili su scioperi ad oltranza… si è fatta tanta fatica a mettere in testa ai lavoratori che lo sciopero come forma di lotta va messo in soffitta e che, se proprio bisogna nominarlo, proprio quando non se ne può fare a meno, va “concertato”, spezzettato per regione, comparto, azienda, categoria.

Non solo: tutta una serie di rivendicazioni sull’orario, sul salario, sui licenziamenti, non può essere proposta “dall’esterno”, perché sarebbe una perniciosa trascuratezza delle “istanze locali, particolari, aziendali”. E, per carità!, non diciamo più nulla sul blocco della produzione e delle merci, sugli antidemocratici picchetti o sulle spazzolate dei crumiri!

Un grande passo in avanti, non c’è che dire, in attesa che il movimento e l’autocoscienza risolvano tutti i problemi della classe operaia.


 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2011)

 

 

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