DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nell’articolo pubblicato nel numero 3/2007 di questo giornale (“Quella del TFR è un’autentica rapina a mano armata”), abbiamo chiarito quale è la condizione attuale dello scontro di classe in riferimento alla ben nota questione del TFR. In questo secondo articolo, vedremo di evidenziare quali sono i processi economici reali alla base del suddetto scontro – processi che coinvolgono necessariamente l’istituto del TFR.

Ma prima di tutto ripercorriamo in breve la sua storia. Esso viene introdotto nel 1919, a un anno dalla fine della Prima guerra mondiale e in una fase di lotta di classe montante: la borghesia concede a una parte di lavoratori, quelli del pubblico impiego, un premio in denaro, per dividere il fronte proletario. L’istituto viene generalizzato dopo il secondo conflitto mondiale: il TFR (che allora non si chiamava così) viene vincolato alla lealtà al posto da parte del lavoratore – la borghesia concede cioè salario in cambio di pace sociale (necessaria per la ricostruzione) e fedeltà all’azienda (il mercato del lavoro è asfittico). Il TFR è concesso quindi solo a coloro che permangono in azienda fino al momento della pensione; successivamente, verrà liberato da ogni vincolo, sarà generalizzato e diventerà una parte del salario il cui pagamento viene “differito” nel tempo, come la pensione. Il massimo della remunerazione del TFR si raggiunge negli anni ‘70 e dura fino ai primi anni ’80, anni in cui è massima la presenza nelle piazze della classe lavoratrice a difesa delle proprie condizioni di vita. Il TFR viene agganciato ai punti di contingenza e si rivaluta grazie al meccanismo della scala mobile. Ben presto, però, le illusorie posizioni riformiste calate addosso alla classe lavoratrice porteranno immancabilmente al riflusso e allo spegnersi delle lotte. Il primo colpo vincente la borghesia lo segna con la vittoria al referendum dell’84 per l’abrogazione della scala mobile. Da allora, un continuo mercanteggiare e indietreggiare da parte dei sindacati ha intaccato fortemente le condizioni di vita di milioni di lavoratori, a partire dalla riduzione del salario complessivo.

Nell’articolo del n. 3/2007, abbiamo evidenziato quali siano le direttrici di questo smantellamento, operato dalla Triplice sindacale nel corso degli ultimi quindici-venti anni. I lavoratori riflettano sulla storia dell’istituto, perché essa dimostra che, con la salvaguardia delle “compatibilità aziendali e nazionali”, non si va da nessuna parte, se non in un vicolo cieco; e come, in mancanza della lotta, oltre a non ottenere un miglioramento delle condizioni di vita in generale, si assista al contrario allo scippo di ogni conquista precedentemente ottenuta. Riflettano, e scelgano finalmente di badare alle “proprie compatibilità” (quelle davanti alle quali si trovano ogni giorno, al mercato o quando devono pagare l’affitto o le bollette), e non a quelle del capitale.

Detto ciò in estrema sintesi, proviamo a vedere perché la “questione del TFR” sia oggi così importante per la borghesia e per i suoi manutengoli, e perché le posizioni messe in campo sia dai sindacati ufficiali sia dai vari organismi di base siano, non solo insufficienti a difendere le condizioni di vita e di lavoro dei proletari, ma vadano anzi in direzione del tutto opposta, nonostante il gran parlare che si fa (anche e soprattutto quando lo si fa con quella voce grossa che è tipica di chi ti sta fregando nemmeno in maniera troppo sotterranea).

Secondo una rappresentazione della realtà che non sta in piedi per ingenuità (nel caso migliore), “i potenti vogliono impadronirsi dei nostri soldi” e lo scippo del TFR sarebbe attuato per “giocare in borsa i nostri risparmi”: meglio dunque (l’abbiamo sentito proclamare da molte parti) che “il TFR rimanga in azienda, dove è sempre stato”. In realtà, questa rappresentazione della realtà è quella stessa della borghesia, la quale pensa di proseguire il proprio dominio sociale attraverso un ulteriore prelievo di plusvalore, estorcendolo ai lavoratori. Entrambe queste visioni sono parziali: non tanto nell’analisi del processo nei suoi effetti immediati (il furto del TFR è reale e concreto), quanto nell’individuazione delle cause e delle conseguenze dell’attuale andamento del sistema capitalistico, che predeterminano l’agire della classe borghese.

Approfondiamo dunque la questione. Prima dell’attuale riforma, il TFR giaceva nelle casse delle singole aziende: tant’è vero che la voce “TFR” faceva bella mostra di sé nello stato patrimoniale delle società. Legalmente, esso, in qualità di “salario differito”, era “proprietà” dei lavoratori, ma la gestione e i possibili utilizzi a breve e medio termine (investimenti finanziari speculativi, ad esempio), con conseguenti eventuali guadagni, erano a uso e consumo delle imprese e dei loro amministratori. Ora non sarà più così, e l’ammontare totale del TFR verrà, prima o poi, centralizzato nei fondi pensioni o comunque nelle mani dei diversi istituti finanziari– una fetta di torta che vale 21 miliardi di euro l’anno (=due punti di PIL annuo italiano!). E’ evidente che la tesi della “borghesia arraffona” è quantomeno semplicistica: vedremo che c’è molto di più. Come mai infatti la borghesia, che già disponeva dell’ammontare del TFR in modo “individuale”, decide di “autoespropriarsi” dall’uso di questa risorsa finanziaria importante per i propri affari privati e accetta di centralizzare i flussi di risparmio al di fuori del proprio diretto uso e controllo, abdicando alle proprie prerogative a favore di istituti finanziari terzi?

Da una parte, la manovra è più che evidente. Alla base, come in ogni fenomeno speculativo, c’è la speranza di poter trovare vie più rapide per stimolare e sostenere il processo di autovalorizzazione del capitale, che in questa fase risulta sempre più lento e asfittico come conseguenza della crisi economica mondiale apertasi a metà anni ’70 del ‘900. In questo senso, la “questione del TFR” occupa il suo bravo posto a fianco di tutte le manovre condotte negli ultimi decenni, per mettere a disposizione del capitale finanziario denaro fresco, che invece, a livello di produzione, scarseggia, investendolo in questo o quel settore speculativo (fra parentesi, dopo i profondi scossoni prodotti dalla “crisi dei mutui sub-prime”, del TFR pudicamente non si parla più: forse, risulta troppo imbarazzante l’episodio dei pompieri americani che, quando è esplosa la crisi dei mutui subprime, hanno fatto causa proprio per lo scippo delle proprie pensioni in uno dei tanti fondi pensioni!).

D’altra parte, però, al di là della contingenza, il fenomeno rientra in una tendenza più generale del capitale, e per chiarirla dobbiamo tornare a Marx, citando in particolare due passi Libro Terzo del Capitale.

Il primo passo dice:

Il capitale, che si fonda per se stesso su un modo di produzione sociale e presuppone una concentrazione sociale dei mezzi di produzione e delle forze-lavoro, acquista qui direttamente la forma di capitale sociale (capitale di individui direttamente associati) contrapposto al capitale privato, e le sue imprese si presentano come imprese sociali contrapposte alle imprese private. È la soppressione del capitale come proprietà privata nell’ambito del modo di produzione capitalistico stesso... [Il] capitalista realmente operante [si trasforma] in semplice dirigente, amministratore di capitale altrui, e i proprietari di capitale in puri e semplici proprietari, puri e semplici capitalisti monetari... Questo risultato del massimo sviluppo della produzione capitalistica è un momento necessario di transizione per la ritrasformazione del capitale in proprietà dei produttori, non più però come proprietà privata di singoli produttori, ma come proprietà di essi in quanto associati, come proprietà sociale immediata. E inoltre è momento di transizione per la trasformazione di tutte le funzioni che nel processo di riproduzione sono ancora connesse con la proprietà del capitale, in semplici funzioni dei produttori associati, in funzioni sociali.

“[…]  Ecco i due caratteri immanenti del credito: Da un lato esso sviluppa la molla della produzione capitalistica, cioè l’arricchimento mediante lo sfruttamento del lavoro altrui, fino a farla diventare il più colossale sistema di giuoco e d’imbroglio, limitando sempre più il numero di quei pochi che sfruttano la ricchezza sociale; dall’altro lato esso costituisce la forma di transizione verso un nuovo sistema di produzione” (1).

Il secondo passo dice:

"Il profitto medio del capitalista singolo, o di ogni capitale individuale, non è determinato dal pluslavoro che questo capitale si appropria di prima mano, ma dalla quantità di pluslavoro complessivo che il capitale complessivo si appropria e da cui ogni capitale individuale, unicamente come parte proporzionale del capitale complessivo, trae i suoi dividendi. Questo carattere sociale del capitale è reso possibile e attuato integralmente dal pieno sviluppo del sistema creditizio e bancario. D’altro lato questo sistema va oltre e mette a disposizione dei capitalisti commerciali e industriali tutto il capitale disponibile e anche potenziale della società, nella misura in cui esso non è stato già attivamente investito, così che né chi dà in prestito, né chi impiega questo capitale ne è proprietario o produttore. Esso elimina con ciò il carattere privato del capitale e contiene in sé, ma solamente in sé, la soppressione del capitale stesso... Non v’è dubbio che il sistema creditizio servirà da leva potente, durante il periodo di transizione dal modo di produzione capitalistico al modo di produzione del lavoro associato; ma solo come un elemento in connessione con altre grandi trasformazioni organiche dello stesso modo di produzione” (2).

Quali considerazioni trarre dai due passi di Marx?

1) Il processo in generale va verso la “socializzazione dei capitali”. Sempre meno il capitale privato, per quanto enorme, può paragonarsi al capitale sociale totale che è suddiviso in porzioni sempre più piccole e generalizzate.

2) Il processo è ineluttabile e contraddittorio, perché nulla può fermare il processo di centralizzazione finanziaria dettato dalle necessità di valorizzare sempre più enormi capitali-denaro. E questo movimento, ovvero la sempre più spinta centralizzazione dei capitali, non fa che accelerare il processo di socializzazione dei capitali.

3) Parallelamente al processo di socializzazione dei capitali, vi è un processo di involuzione, di declino della classe borghese, che diventa solo l’amministratrice e non più la proprietaria dei capitali che gestisce. Il suo ruolo “sociale” non è più né quello rivoluzionario degli albori né quello progressista della maturità, ma quello tipico dei rentiers della vecchiaia, cioè dell’imperialismo.

4) Sia la socializzazione dei capitali sia il conseguente enorme espandersi degli istituti finanziari e creditizi avranno, dice Marx, un ruolo non indifferente nella caduta del sistema capitalista complessivo. Questo avverrà perché sempre più grande sarà la contraddizione fra l’uso (e non la proprietà) privato, elitario, dell’immensa ricchezza mondiale prodotta e la “proprietà sempre più parcellizzata” di questa ricchezza, che sempre più si identificherà con il carattere già socializzato della produzione della ricchezza medesima: la generalizzazione (socializzazione) della proprietà privata sarà dunque la necessaria base economica per il salto dialettico rivoluzionario verso il superamento della proprietà privata borghese in genere.

Diamo ora qualche dato numerico a suffragio di ciò che affermiamo. L’economista Giuseppe Turani ci viene in aiuto in uno dei tanti articoli apparsi sul Supplemento economico del lunedì della Repubblica, in cui ci illustra l’ammontare e i movimenti dei flussi finanziari globali. Secondo le stime, la moneta liquida (i capitali monetari) che corre fra le Borse mondiali nel tentativo di valorizzarsi è una cifra di circa 53mila miliardi di dollari. Questo enorme capitale monetario è superiore di circa 5mila miliardi al PIL complessivo mondiale di un anno. Chi detiene questa enorme ricchezza? La risposta è fondamentale. Questa ricchezza è equamente divisa fra tre forme istituzionali di gestione del risparmio: i Fondi pensione, i Fondi comuni di investimento e le Assicurazioni – circa 18 mila miliardi a testa. Turani afferma infine che, se volessero, queste tre entità potrebbero acquistare praticamente tutte le aziende quotate nelle Borse mondiali. Invece noi rimarchiamo che, in pratica, l’enorme liquidità presente sul mercato è la somma di una miriade di piccole quote individuali disseminate per i cinque continenti; infatti, tutti e tre gli istituti, per la loro specificità, non sono altro che contenitori e gestori di microcredito (solo le Assicurazioni, che sono anche altro, si scostano parzialmente da questa realtà). Questo è tanto vero che i risparmi dei “grandi borghesi” (la loro liquidità non immobilizzata nelle imprese), rappresentati in Borsa per lo più dalle privaty equities, ammontano “soltanto” a circa 500 miliardi di dollari, cioè un centesimo del totale.

Questo il processo, preso nei suoi aspetti più generali. In Italia, in particolare, agiscono altre due componenti specifiche che determinano la necessità di agire, e di agire in fretta. Da un lato, l’economia nazionale italiana è indietro di parecchi anni nei confronti dei paesi più sviluppati: bisogna quindi adeguarsi velocemente al processo generale. Dall’altro, questa necessità assume un’urgenza maggiore se consideriamo il tessuto industriale italiano, costituito com’è da una miriade di piccole e medie imprese, mentre le realtà di dimensione globale sono poche. È necessario quindi attuare, a livello finanziario, quello che non è stato attuato a livello produttivo: la centralizzazione dei flussi del risparmio va quindi perseguita e attuata con ogni mezzo.

Come abbiamo visto, il processo è ineluttabile. Di più, il processo è anche “rivoluzionario”, nel senso che può accelerare le contraddizioni oggettive che innescheranno la rivoluzione, politica e sociale. Appaiono dunque retrive, sciocche e perdenti, tutte quelle posizioni che si appellano a una situazione giuridica preesistente, che non solo non potrà più esserci, ma che, di fatto, dal ’93 non c’è già più. Gratta gratta, tutte le posizioni “alternative” che si sono espresse in questi mesi hanno finito per dare la semplice indicazione di restituire il modulo del TFR con la disposizione di “lasciare il TFR in fabbrica”. Anche le organizzazioni apparentemente più combattive, che hanno indetto pomposi “scioperi generali”, recavano alla fine la suddetta indicazione, e niente più. In verità, vi sono state poche ma significative lotte scaturite dalla base operaia: lo sciopero dei metalmeccanici bolognesi, lo sciopero alla Fiat di Melfi... In entrambe le manifestazioni, i lavoratori hanno, giustamente, contestato la riforma delle pensioni in generale, e non solo la questione del TFR.

Il quadro può sembrare deprimente, ma è naturale che sia così. Per anni, i sindacati di base sono vissuti nell’ambiguità rappresentata da una fraseologia rumorosa e demagogica, contrapposta alla pratica democratico-legalitaria e compromissoria della Triade sindacale. Spesso hanno schiacciato l’occhio a partiti apertamente borghesi come Rifondazione & Co., specie nei momenti delle abbuffate elettorali. Hanno accettato e perseguito la logica ricattatoria rappresentata dal meccanismo infame delle RSU. Hanno accettato e perseguito la via dei contratti nazionali, e se ancora non li firmano è solo per una questione di numeri che mancano.

Come abbiamo visto, la riforma delle pensioni è “epocale”, e di fronte a questa svolta la pratica pelosa dei sindacati di base sbatte contro un muro invalicabile, a parole. Il loro ragionamento è errato fin da principio. Il loro stupore e la loro incredulità, espressi nell’atteggiamento del “ci vogliono togliere la pensione”, sono rappresentativi della loro appartenenza al campo riformista e opportunista . Per i comunisti, non vi è nulla di cui meravigliarsi. Essi sanno che la democrazia è solo un velo che nasconde la vera natura oppressiva dello stato, e che ogni conquista economica è solo temporanea, se non è sostenuta dalla lotta aperta e continua dei lavoratori. Ma il ragionamento dei sindacati di base è errato anche nella sostanza. È infatti sciocco credere che, in un sistema mondiale in cui i Fondi pensione detengono un terzo della liquidità globale, questi possano fallire, nel senso che ”non ci pagano più le pensioni”: ovvero, che non siano in grado di rivalutare sul lungo periodo i capitali accantonati almeno del 2% annuo circa, come ha sempre fatto e continuerà a fare il “sistema statale”. Questo ragionamento non ha nessuna base economica, è solo un’espressione emotiva infantile.

In primo luogo, se osserviamo la questione dal lato del fallimento è più facile che fallisca un’azienda x che non un sistema che detiene un terzo delle liquidità mondiale. In secondo luogo, anche se questo fallimento dovesse avvenire, ciò significherebbe che siamo ormai nell’anticamera o di un processo rivoluzionario o dello scatenamento di una nuova guerra mondiale: a quel punto, la preoccupazione non sarebbe certo “quale è la percentuale dell‘ultimo stipendio che sarà la componente pubblica della mia pensione?”! Per terminare, anche le loro conclusioni sono deleterie. Facciamo innanzitutto notare come “lasciare i soldi in fabbrica” sia un falso: infatti, tutte le aziende con più di 50 lavoratori verseranno il TFR maturando a un fondo per le infrastrutture statali creato presso l’INPS, in cui lo Stato potrà pescare a piene mani ogni volta che lo riterrà necessario. Secondariamente, pensare di opporsi a ciò ha due nefaste conseguenze: non si ottiene nulla sul piano pratico e si contribuisce pesantemente a radicare il senso di impotenza che già pervade attualmente le file del proletariato.

Ma criticare una lotta che si sviluppa su posizioni retrive e illusorie non significa negare il significato e la necessità della lotta in generale, e della lotta di difesa economica in particolare. Da sempre, il nostro partito indica la via che i lavoratori devono percorrere nella difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro. Queste parole d’ordine sono:


- sul piano dei metodi di lotta: tornare a impugnare l'arma dello sciopero, esteso e senza preavviso e limiti di tempo; respingere la sua regolamentazione e autodisciplina; rifiutare ogni divisione dei proletari per collocazione nel processo produttivo (occupati e disoccupati), località, sesso, categoria, professione, età e provenienza; respingere ogni “patto sociale”, concertazione e subordinazione della difesa effettiva dei propri interessi reali di vita e di lavoro agli interessi aziendali e nazionali, alla difesa della democrazia e ad altre falsità borghesi;

- sul piano degli obiettivi: forti aumenti salariali per tutti, maggiori per le categorie peggio pagate; forte riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario; salario pieno ai licenziati, disoccupati, immigrati; pensione pari all'ultimo salario.

 

A queste rivendicazioni (di metodi e di obiettivi), possiamo bene aggiungere: “versamento della quota TFR direttamente nelle buste-paga dei lavoratori”. La “questione del TFR” rientra infatti nella più ampia lotta per il salario, non è separabile da essa. Ora, è evidente che “lottare per il salario” significa “difendersi a livello immediato dagli effetti dello sfruttamento capitalistico”: come tutte le altre rivendicazioni immediate, cioè, non mette in discussione le basi su cui si fonda il modo di produzione capitalistico. Ma è innanzitutto fondamentale, perché (come la lotta per la riduzione dell’orario di lavoro) risponde a un’esigenza drammatica di sopravvivenza dei proletari. E poi, come tutte le rivendicazioni immediate se inserite in un giusto modo di condurre le lotte, da un lato colpisce direttamente il capitale là dove... la tasca duole, dall’altro abilita i proletari alla lotta e all’organizzazione. E’ dunque una rivendicazione che si situa in una direzione antagonista agli interessi del capitale stesso.

Il problema infatti non è, come vorrebbero invece i riformisti e i massimalisti di ogni risma (sia della specie ultra-parlamentare sia di quella movimentista ma non meno parlamentare), quello della “ridistribuzione degli utili”, idiozia che nulla ha a che vedere con la prospettiva comunista. Storicamente, non si tratta infatti di rivendicare una “fetta più grossa di torta”, ma semmai di abilitarsi, nella lotta politica rivoluzionaria, a conquistare il potere che permetta – per restare dentro la metafora – di “gestire centralmente i forni che preparano le torte e allora sì procedere alla loro distribuzione”. Sul piano contingente, la lotta per il salario è centrale a (e inseparabile da) tutte quelle lotte che necessariamente devono tornare a divampare perché si ricostituisca un fronte di lotta reale, antagonista, privo di illusioni riformiste e gradualiste e refrattario a lusinghe democratiche e parlamentari – un fronte di lotta, organizzato, stabile, in cui l’influenza del partito di classe sia reale e profonda e da cui sia possibile partire per fasi più acute e dirette di scontro aperto con il capitale come modo di produzione e con lo Stato che ne rappresenta e difende, armato fino ai denti, gli interessi.

 

Note

(1) K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sez. V, Cap. 27, Ed. Riuniti, pp.518-519.

(2) K. Marx, Il Capitale, Libro III, Sez. V, Cap. 36, Ed. Riuniti, pp.705-706.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2007)

 

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