DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

E la condanna arrivò! Così come presunta fin dall'inizio!

Cinque fra compagne e compagni (tra cui una simpatizzante e un compagno di partito) che hanno partecipato al ciclo di lotte messe in campo dai lavoratori della logistica di Coop 3.0 (allora Coop Adriatica) sono stati condannati, in primo grado, per “violenza privata”.

La faccenda di quel giorno è singolare fin dall'inizio e per capire la questione torniamo ai fatti.

Nel Novembre 2012 la Coop decide di attaccare frontalmente i “suoi” lavoratori dei magazzini di Anzola dell’Emilia (città metropolitana di Bologna). Alla base di tutto vi è la necessità di ridurre il salario, ma anche i diritti maturati dei facchini che lavorano per essa. La lotta, con alterne vicende, si protrae fino ai fatti del 2 maggio dell'anno successivo.

In questa occasione i facchini della Coop di Anzola partecipano, fin dalla mattina, allo sciopero indetto dai S.I. Cobas a sostegno delle trattative sul  contratto nazionale di settore. A muovere i lavoratori di Anzola non vi sono però solo le motivazioni “nazionali”, ma anche quelle specifiche della loro situazione. Infatti, a seguito dei fatti di Novembre, che si concludono con una sconfitta per i lavoratori, dopo i giorni tumultuosi dell'occupazione, tre lavoratori fra i più combattivi e rappresentativi tra i loro colleghi vengono licenziati. Per questo motivo si decise che ad Anzola lo sciopero dovesse continuare anche dopo la fine di quello nazionale, fissata per il mezzogiorno. E così sarà.

Per tutta la mattina e per parte del pomeriggio, fino ai fatti contestati, i lavoratori presidiano il piazzale antistante i cancelli della Coop. In questo ampio lasso di tempo, non si vede lo straccio di un camion, né in entrata né in uscita (e va sottolineato che, durante la lotta di Novembre, i facchini hanno ricevuto la piena e cosciente solidarietà dei camionisti che mai hanno tentato o attuato tentativi di forzare i blocchi).  Sia quel che sia, fino al pomeriggio nessun blocco fu messo in atto, in quanto non fu necessario bloccare nessun camion.

Intorno alle 15-15.30, proveniente dall'interno della palazzina amministrativa della Coop, compare un manipolo di persone. Fra queste: il direttore dello stabilimento, alcuni esponenti della Digos bolognese, un cineoperatore e perfino quello che anni dopo scopriremo essere l'avvocato della Coop, che in seguito presenzierà al processo. Parlottano fra loro, non necessariamente tutti insieme, e si avvicinano a passi lenti alle inferriate adiacenti all'entrata dei camion ai magazzini, all’esterno della quale da tutto il giorno sostano, sparpagliati, i lavoratori. Ohibò, incredibile a credersi, proprio in quel momento, in fondo al lungo corridoio di asfalto che costeggia i capannoni della logistica, ecco apparire un camion – un tre assi, se non ricordiamo male. Questa è proprio una “fortunata casualità” per i rappresentanti di Coop e dell'Ordine: il fato gli offre l'occasione di filmare, in diretta, l'“intento criminale” dei facinorosi! e magari di utilizzare questo prezioso materiale probatorio per intentare loro una causa e finirla una volta per tutte con questa faccenda! E così avverrà.

Dopo diversi mesi, infatti, una settantina di persone riceve un Avviso di garanzia dalla Procura di Bologna, che annuncia che sono sottoposti a indagine per il reato 610 del Codice Penale: ovvero, “violenza privata”.

Lungi da noi intrattenere i lettori con una disamina giuridica in punta di legge, così come rifuggiamo dall'illusione che la “giustizia” sia interpretabile o sia nella realtà dei fatti una “giustizia tout court”: in altre parole, qualcosa di diverso dalla giustizia di classe e, nello specifico, dalla giustizia della classe borghese. Ciò che ci spinge a commentare la sentenza, e a ripercorrere i fatti, nasce dalla necessità di dimostrare (perché purtroppo, dopo 200 anni di potere borghese, occorre ancora tale dimostrazione) quanto abbiamo appena affermato: non si tratta, in questi fatti come in tanti altri, di “giustizia” (ammesso che questa possa sussistere in sé, senza essere comunque aggettivata). Si tratta di giustizia borghese. Puntualizzato questo, possiamo procedere.

Nel 2018, di tutti i partecipanti (non che riceventi Avviso di garanzia) ai fatti di cinque anni prima, solo in cinque vengono rimandati a giudizio per i capi d'accusa. Se non fosse per la soddisfazione di aver visto più di 60 persone non ricevere il decreto a procedere, risparmiandosi così un passaggio per le aule di tribunale, qui si nasconde una prima magagna... Ma vedremo che non è l'unica.

Infatti, se “violenza privata” c'è stata (e la sentenza dice che c'è stata), allora tutti i presenti sarebbero, in base alla giustizia borghese e fondandosi sui suoi principi giuridici, da perseguire a ugual titolo e, vista la sentenza, da condannare. Ma così non è stato (buon per loro!) e nessuna valida ragione è stata avanzata per giustificare questa macroscopica contraddizione. Invero (si sa il diavolo si nasconde nei particolari), un passaggio rivelatore è presente nelle motivazioni della sentenza: si trova all'inizio, dove può stare senza dare troppo nell'occhio. Nella motivazione che ha spinto il PM a procedere contro gli imputati si legge: “perché agendo in concorso tra loro e con altre persone non identificate [...]”, e qui per ora ci fermiamo. Ci domandiamo (e ci scusino i “sapienti di diritto” se diciamo castronerie): se abbiamo ricevuto un avviso in 70 (dunque citate e quindi precedentemente identificate), come si può sostenere che i nostri “criminali” agissero “in concorso con altri”? questi altri “non identificati”?

Se non bastasse, nel riportare la testimonianza del dirigente della Digos presente ai fatti, la sentenza recita: “dopo una mezz'ora circa, durante la quale il camion era bloccato, è giunto sul posto personale della Polizia del reparto mobile e i manifestanti, alla vista degli agenti in divisa, hanno iniziato ad allontanarsi a gruppetti, scappando [noi non siamo scappati!] lungo la via Emilia; con difficoltà ne sono stati raggiunti solo alcuni e quindi nell'occasione identificati”... Cinque o alcuni... forse quasi 70, quelli dell'avviso di garanzia?

Rimanendo ancora per un’ultima volta sulle motivazioni del PM, continuiamo a leggere la frase precedentemente troncata: “con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, poste in essere dai facchini dell'Aster Coop, adoperando la violenza di attuare il blocco ai cancelli degli automezzi pesanti in uscita e in entrata dallo stabilimento”.

Anche qui le contraddizioni sono enormi. “con più azioni”. Ma quali “più azioni”?! A meno che non si voglia sostenere che sostare su suolo pubblico per un'intera giornata sia un delitto, allora, nei fatti se non nelle intenzioni, vi è stato un solo atto che può essere citato a giustificazione delle ragioni del PM. Nessun camion “in entrata” si è presentato alla sbarra del magazzino per tutta la giornata né era presente nell'ampio parcheggio pubblico che si apre lì accanto. Un solo camion, a favor di cinepresa e di taccuino d'appunti dell'avvocato della Coop, si è presentato alla sbarra per uscire.

Ma se poi vogliamo andare più a fondo della questione, dobbiamo affermare che anche la presunta violenza non è tale. Infatti, la lotta è stata a pieno titolo una lotta sindacale; in quanto tale, la fattispecie che inquadra la reale dinamica dei fatti non è quella di “violenza privata”, ma semmai di “blocco stradale”. I lavoratori erano fermi su suolo pubblico e quando hanno attuato il blocco del camion, e ciò si configura con la fattispecie dell'articolo I bis del decreto del 1948, bloccavano con il loro corpo il transito dei mezzi... E che di lotta sindacale si trattava ce lo dichiara la sentenza stessa, quando come recita a mo’ di preambolo: “Va preliminarmente dato atto che, per quanto emerso nel corso del dibattimento, i fatti oggetto del presente procedimento vanno collocati nell'ambito di una protesta sindacale durata diversi mesi [...]”. E allora, se di protesta sindacale si parla e se di blocco di camion si parla, quello che per la loro giustizia si prospetta non è “violenza privata” ma “blocco stradale”. Noi non abbiamo messo in atto alcuna violenza: abbiamo frapposto il nostro corpo al passaggio di un mezzo. E lo abbiamo fatto come legittima azione di protesta contro il padrone (tanto per essere chiari).

Ma qui si parla di Coop Adriatica, sita fra le provincie di Modena e di Bologna, direttamente nella bocca del leone: insomma, si tratta di lesa maestà! Se ci si dovesse accontentare di “blocco stradale” e di una multa, ciò non basterebbe a lavare l'affronto di avere sfidato frontalmente una fra le più potenti centrali del blocco di potere economico, politico, sociale, messo in piedi fin dal 1945 dal PCI e dai suoi satelliti, e ora gestito dai suoi eredi. Infatti, dal 1999 questa fattispecie di reato è stata depenalizzata a multa amministrativa: certo, anche quella può far male, ma evidentemente non a sufficienza! Dunque, si proceda su un’altra strada, poco importa se legittimamente: e allora sia “violenza privata”, che può arrivare a sei anni di galera…

Tralasciando le varie espressioni adottate per creare un pathos di colpevolezza (“gran parte erano stranieri e alcuni italiani... [i puntini di sospensione sono nell’originale e servono a creano pathos!] già noti al personale operante”, “ve n’era uno [...] munito di megafono”… che, si sa, è arma temibilissima), veniamo alla testimonianza molto significativa, ma incomprensibilmente utilizzata per l'esatto contrario di quello che dimostra, del comandante della Mobile, anch'egli presente ai fatti: “poiché era necessario procedere alla identificazione dei presenti ma questi stavano opponendo una sorta di resistenza passiva [blocco stradale con i propri corpi?], una volta avvicinatosi unitamente ad altri colleghi, i manifestanti si allontanavano per le vie limitrofe; il teste precisa però che alla sua presenza non ha notato alcuna violenza da parte di chicchessia”. Ogni commento è superfluo!

Un ultimo appunto riguarda le ragioni della difesa. Sebbene sia stata depositata almeno una memoria difensiva ampia e articolata, nella sentenza finale non ve n’è alcuna straccia. Perché? Ma perché (è nostra opinione) la traccia era già stata… tracciata!

Torniamo allora alla vera questione. È stata “violenza privata” o “blocco stradale”? Solo superficialmente la questione è di lana caprina: in realtà qui è il vero punto. La fattispecie di “violenza privata” è talmente ampia che può comprendere ogni atto umano, soprattutto nell’interpretazione che ne da (e l’utilizza) il giudice monocratico di Bologna. Stando a quest'interpretazione, anche una pernacchia può essere giudicabile come “atto violento che lede, se pur solo potenzialmente, la psiche” del pernacchiato. Ma “violenza privata” è appunto “privata”, non tanto nell'accezione di un singolo che si confronta con un singolo, quanto nelle motivazioni che portano al fatto, ovvero del famigerato movente: io colpisco uno o più, da solo o in compagnia, per miei motivi privati, ovvero che riguardano la mia sfera privata di vita. Ma qui non si tratta di ciò. Qui si tratta di un atto sociale, anzi del vero e solo atto sociale degno di essere compiuto nel numero maggiore di volte possibile: scioperare contro il padrone, o i padroni, ogni qualvolta questi con la loro legalità... violenta... attaccano le condizioni di lavoro e di vita dei lavoratori e della classe intera. In gioco, in questo secolare teatro, vi sono da una parte gli interessi del capitale, la sua fame di profitti, e dall'altra la necessità per i lavoratori di difendere (visto che non sembra il tempo di attaccare) con le unghie e con i denti ogni euro che cercano di sottrargli. Ed essendo un atto sociale e di classe, una violenza sindacale, se non vogliamo chiamarla politica, essa è quanto di più lontano dalla violenza privata. Questo giustifica e riguarda anche i cinque “italiani... già noti al personale operante” che hanno lottato e portato solidarietà reale e politica ai lavoratori nei mesi della loro vertenza, i quali non erano lì ad attuare l'atto criminoso di “violenza privata”: erano lì a lottare e a bloccare le merci, consci, loro come tutti i lavoratori, che tale blocco fosse l'unico mezzo per imporre al padrone le ragioni della protesta. Dunque, blocco stradale, come viene ben documentato “dai loro video” (talmente bene che nella sentenza quei video spariscono!): noi abbiamo solo frapposto il nostro corpo alla mobilità del camion.

Tutto questo disquisire sarebbe stucchevole se non precisassimo che di tutte queste questioni giuridiche a noi non frega un bel niente. Noi sappiamo che la giustizia è giustizia di classe e come tale serve alla classe dominante per regolare, finché la classe avversa glielo permette, lo scontro fisiologico fra gli interessi contrapposti delle classi. Come dire: “Se non è zuppa e pan bagnato”. Se il “blocco stradale” è depenalizzato, diamogli la “violenza privata”! La sentenza che ci colpisce è dunque squisitamente politica. Noi sappiamo che quello che ci è capitato (e ci va bene visto le centinaia e migliaia di compagne e compagni trucidati nel mondo) è un piccolo episodio, fra le migliaia che ne capitano nel mondo – un episodio di quelli che non faranno né testo né capolino nella storia. Ciò malgrado siamo convinti che una breve riflessione andasse comunque fatta.

Vogliamo quindi terminare il nostro ragionamento sottolineando che la nostra visione viene confermata dagli eventi politici susseguitisi dopo questi e tantissimi altri fatti di quegli anni, che segnano un passo in avanti della borghesia italiana verso una legislazione più restrittiva e repressiva, atta ad arginare anche i più piccoli movimenti di lotta, ben consapevole che, nella situazione di crisi attuale, un cerino potrebbe diventare velocemente un incendio incontenibile. Parliamo dei Decreti Sicurezza di salviniana memoria. Pur se parzialmente modificati, soprattutto nel campo della “questione immigrazione”, sono rimasti uguali, immodificati, nella scelta di riesumare, aggravandolo, il famigerato (e depenalizzato) decreto del 1948 dove, guarda caso, si rimette in pista la fattispecie di “blocco stradale”. Come abbiamo già avuto modo di scrivere su queste pagine, tale riesumazione si accompagna alla equiparazione, alla pena massima,  fra blocco stradale con oggetti e quant'altro, o solo con i propri corpi, in modo che sia chiaro a tutti che la nostra borghesia nazionale non è più disposta a continuare con l'escamotage dell'uso improprio della fattispecie “violenza privata”, ma sfida apertamente il proletariato sancendo, con democratica legge, che l'atto conflittuale di bloccare merci e servizi va punito con il carcere. Di questa chiarezza (per la quale – è brutto a dirsi! – siamo costretti a ringraziare il prode Salvini) dobbiamo fare tesoro. Non tanto e non solo per far crescere il nostro grado di conflittualità, ma in quanto possibilità di un avanzamento della consapevolezza e dunque un allontanamento progressivo della classe proletaria dalle sirene e dai richiami della propria decadente borghesia nazionale!

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