DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Ripubblicando i due testi che seguono non intendiamo fare opera archivistica, ma riproporre le immutabili posizioni dei comunisti nei confronti di moti di aperta insofferenza e rivolta contro l’oppressione capitalistica.

 

Gloria ai proletari negri in rivolta

Qualunque sviluppo sia destinata ad avere l’eroica rivolta dei proletari negri in America […], essa segna una svolta nella storia degli sfruttati “di colore” che, mentre riempie di entusiasmo i rivoluzionari, deve essere di vigoroso incitamento, di salutare frustata, a tutti gli schiavi del capitale, in primo luogo a quelli in pelle bianca, in tutti i paesi del mondo.

Tra le urla di sdegno dei benpensanti – non ultimi quei “progressisti” borghesi ai quali non pareva vero di plaudire alle innocue e pacifiche “marce” per la pace o per i “diritti civili” e che ora strillano all’“illegalità” e agli “orrori” di una rivolta aperta tendente a scavalcare ogni confine – , essa parla con un linguaggio che, con sgomento, gli stessi organi della classe sfruttatrice sono costretti a registrare e, loro malgrado, a trasmettere.

Non è più la silenziosa e quasi implorante richiesta di “diritti” formali, di “eguaglianza” giuridica: è l’esplosione di collera di chi ha capito per lunga esperienza che legge e diritto sono strumenti della classe che domina e sfrutta, non armi della classe sfruttata; che l’“eguaglianza” è una beffa di fronte alla realtà della diseguaglianza economica e sociale, della disoccupazione, dei bassi salari, dei ritmi di lavoro frenetico a cui sono costretti tutti gli operai, ma in primo luogo i negri; che, di fronte a ciò, preci e petizioni non contano nulla, come non contavano nulla di fronte ai colpi di frusta dei negrieri al tempo in cui gli uomini di colore non erano “liberi” di vendere la propria forza-lavoro a qualunque padrone.

Non è più l’occasionale sfuriata di studenti in una cittadina universitaria del Sud americano, “patriarcale” e “arretrata”: è la fiammata d’ira di proletari stipati nella più grande e moderna città industriale del Nord [Detroit – NdR], l’orgoglio dell’industria automobilistica americana.

Non è più un episodio isolato: è un incendio che si propaga non solo da una città all’altra, ma, cosa ben più importante, da proletari negri a proletari bianchi solidarizzanti con essi. È una pagina di guerra di classe, orgoglio quanto violenta, spavalda quanto implacabile. È il segno premonitore di quello che avverrà il giorno in cui i proletari, indipendentemente dal colore della loro pelle, insorgeranno a spezzare, non con la preghiera ma con la forza, le proprie catene nelle cittadelle dorate del “progresso capitalista”.

I borghesi hanno subito gridato allo scandalo, agli orrori del saccheggio, degli incendi, delle sparatorie. Ma è questo, lo scandalo, o non è invece il martirio al quale i salariati negri rifugiatisi nel civilissimo Nord sono sottoposti da un secolo, e che li condanna a salari inferiori della metà a quelli dei lavoratori bianchi, e li espone inermi a una disoccupazione ricorrente? È questo l’orrore, o è il ghetto nel quale la cristianissima società borghese rinchiude i suoi schiavi “liberati” nelle grandi metropoli industriali? Ed è violenza “irresponsabile” quella dei proletari negri che si ribellano, mentre sarebbe violenza “legittima” quella dei padroni bianchi che li taglieggiano? Per noi quella violenza anonima è santa come fu quella degli schiavi romani, come fu quella dei sanculotti francesi, come fu quella degli operai e mugik russi.

Urlino pure i “progressisti” alla Luther King o Bob Kennedy che così si distruggono i frutti di un lavoro paziente di riforma. I proletari negri NON POSSONO PIU’, se anche lo volessero, avere pazienza: cent’anni di riforma non hanno arrecato loro nemmeno la millesima parte di ciò – ed era poco – che, proprio un secolo fa, un’autentica guerra guerreggiata, la guerra civile fra Nord e Sud, riuscì a strappare non con discorsi o petizioni ma con il linguaggio delle armi. Quelle conquiste, allora importanti, hanno mostrato in un lungo calvario, la propria insufficienza, provando nello stesso tempo come la democrazia rappresenti per gli sfruttati soltanto una [chimera]: non si può superarle – annullandole in superiori conquiste – se non con un nuovo turno, diverso, perché di classe (e di classe proletaria), di guerra civile.

È il linguaggio, questo, che parlano i proletari negri ai loro dominanti. Ma lo parlano anche ai loro fratelli proletari “non-di-colore”, perché ricordino che uno è il nemico, e che da esso ci si libera solo spezzando il giogo che pesa sul collo di tutti gli sfruttati; perché si ridestino alla coscienza che i proletari negri si libereranno veramente nella sola misura in cui, uniti ad essi, si libereranno i proletari di ogni altra razza, strappando dalle torvi mani di un padrone, che è lo stesso per tutti, gli strumenti del suo dittatoriale potere, oggi protetto dai paracadutisti sguinzagliati ad arrestare, ferire, uccidere, in nome della proprietà e del Capitale, chi ha l’orribile colpa di non voler morire di fame!

Contro i proletari negri in rivolta si scagliano oggi tutti i difensori, laici ed ecclesiastici, dell’ordine. È naturale: questi ultimi hanno qualcosa, e molto, da perdere; i primi non hanno da perdere che le loro catene. Vada quindi ad essi la solidarietà dei rivoluzionari comunisti di ogni paese, fieri di battersi contro il nemico comune di tutti gli sfruttati al grido che non ha tramonto: Proletari di tutto il mondo (quindi di tutti i paesi e di tutte le razze), unitevi!.

                                                                                                              il programma comunista, n.14, agosto 1967

 

Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito di classe in America

(estratto)

Carattere sociale della “rivolta negra”

[…]

L’alto significato teorico delle gloriose giornate di Newark e Detroit risiede prima di tutto nel fatto che esse costituiscono una luminosa conferma delle previsioni marxiste sull’inevitabilità della catastrofe dalla quale gli ideologi borghesi e tutta la gamma degli opportunisti pretendono che il capitalismo sia oggi in grado, in virtù di “speciali” risorse, di premunirsi. D’un colpo solo, la “rivolta negra” (usiamo per un momento questo termine) ha spazzato via – in un bagliore di ferro e di fuoco – le panzane accreditate dalla intellettualità piccolo-borghese circa l’inarrestabile marcia verso il benessere e sulla pacifica eliminazione dei contrasti politici e sociali, mentre ha rimesso in poderosa luce la tesi marxista che la strombazzata prosperità capitalistica si regge su piedi di argilla, dandone ulteriore conferma – cosa ancor più importante – appunto là, vecchio assioma marxista, dove la “prosperità” è maggiore, le suggestioni della propaganda riformista e pacifista sono più diffuse, e le possibilità di corruzione materiale e morale più alte. È appunto là che dei proletari hanno ricordato ai loro fratelli di tutto il mondo di “non aver nulla da perdere eccetto le loro catene”.

Giacchè, questo è l’altro grande aspetto dei “fatti” di Newark e di Detroit (non i soli, come si è visto e si vede tuttora, ma per adesso i più imponenti), di proletari si tratta, di salariati in rivolta nello scenario di alcune fra le più grandi concentrazioni industriali non solo degli Stati Uniti ma del mondo, e sia la spinta che la direzione del loro moto sono le stesse delle vampate di collera dei giornalieri messicani nelle fertili valli della California in anni recenti (e, in forma periodica, ogni anno) o dei manovali di varia provenienza – e di pelle bianca – nelle galere aziendali dell’Est, da cui è punteggiata la storia sanguinosa del capitalismo americano in tempi lontani e vicini. Altrove parliamo delle testimonianze, scarne ma inconfondibili, della solidarietà testimoniata dai lavoratori bianchi ai loro fratelli in pelle nera: esse basterebbero a dimostrare la radice di classe, e solo per etichetta di razza, del grande terremoto abbattutosi sulle cittadelle dorate di S. M. il Capitale yankee. La manodopera negra è senza dubbio la peggio pagata, ma ciò vale in misura analoga per i manovali portoricani assorbiti più o meno stabilmente dall’industria dell’Est, per i salariati agricoli messicani stagionalmente arruolati per le aziende agricole nell’Ovest, o per gli americani di vecchia data che campano faticosamente, ad esempio, nelle aree “depresse” degli Appalachi. I proletari negri, essendo in prevalenza non qualificati, sono i più esposti alla disoccupazione (ad Harlem, il 9% dei negri sono disoccupati contro il meno del 4% della media nazionale; fra i giovani al di sotto dei venti anni, la percentuale ascende al 25% circa – [Dati del 1967- NdR]), ma lo sono pure gli stessi portoricani e, in una certa misura, tutti i giovani “bianchi” che il processo di meccanizzazione esclude da molte possibilità d’impiego nell’industria. I negri vivono in quartieri orrendi, certo, ma negli stessi rioni si ammassano gli immigrati di varia origine e di tutt’altra “razza” costretti a vendere la propria forza lavoro all’insaziabile mostro capitalista.

Il capitalismo prende in origine l’avvio da una base territoriale più o meno omogenea di lingua e di costumi – il mercato “nazionale” della forza-lavoro – ma, nella sua prepotente espansione, non può non andare ad attingere manodopera a basso prezzo, se non bastano le “sacche” di depressione interna, fuori dai confini del paese: dovunque, in quell’esercito internazionale di riserva che ad esso, potenza mondiale, offre disperato le braccia. Eccoli i super-sfruttati, che soffrono come tali indipendentemente dalla loro “nazionalità” o dalla loro pelle (anche se la loro qualifica di “stranieri” o di “gente di colore” serve di comodo pretesto per martoriarli e spremerli ancora di più) e che, appunto per ciò, sono destinati, per un apparente paradosso, a divenire l’avanguardia delle lotte di classe nel paese “adottivo”. Engels vedeva negli irlandesi – stipati in quelli che l’ipocrisia di oggi chiamerebbe “ghetti razziali” e che erano semplicemente dei mostruosi quartieri operai – le punte avanzate, l’elemento di massima irrequietudine, nel moto istintivo di rivolta proletaria in Inghilterra: i più fulgidi episodi di insurrezione violenta negli Stati Uniti hanno nomi e cognomi di “stranieri”; nell’uno e nell’altro caso, gli attori del dramma sociale erano l’incarnazione del proletario puro, del senza-riserva che appunto “non ha nulla da perdere eccetto le sue catene”, del salariato autentico che tocca con mano l’abisso di menzogna delle “nuove frontiere”, le frontiere che il capitalismo valica per attingere manodopera dove costa di meno. Tanto varrebbe parlare di “conflitto razziale” per… i martiri di Chicago del lontano e pur tanto vicino 1886, o per i formidabili wobblies (I.W.W.) di anni più recenti, in gran parte immigrati tedeschi, irlandesi, italiani, spagnoli!

Infine, quand’anche si volessero considerare solo i negri – come “cittadini” e non come “proletari” – e chiudere in una bottiglia il loro moto di rivolta applicandovi il tappo con scritto “questione razziale”, che cosa dimostra quel moto (terzo punto) se non che perfino sul terreno generico dei famosi “diritti” e della celebre “integrazione”, la dinamica delle forze sociali ha posto fisicamente le vittima delle peggiori “ingiustizie” di fronte a problemi che investono i rapporti generali, non locali né particolari, fra società – tutta la società – e stato – l’intero edificio di oppressione e di difesa della classe dominante – mostrando loro che la questione è politica e di forza e non ammette se non l’alternativa fra violenza subita e violenza esercitata? Significa questo che i “negri” di Detroit ne abbiano avuto esplicita coscienza? No: ma e con questo? La coscienza segue, non precede, l’azione e questa è il portato di un cozzo reale e materiale di forze, di una lacerazione in atto del tessuto, apparentemente solido, di una società intrinsecamente precaria. Nomini pure il governo delle “commissioni d’inchiesta”: la storia ha posto la questione su ben altro terreno.

I limiti storici del moto

Il nostro entusiasmo da un lato, la nostra solidarietà dall’altro, resterebbero tuttavia al di sotto del nostro compito di partito, se chiudessimo gli occhi sui limiti storici – oltre che sulle deficienze, sugli errori, sui rischi di involuzione sotto il duplice assalto della repressione statale borghese e del veleno opportunistico – di un moto prepotentemente scaturito dalle viscere del meccanismo di produzione borghese.

Non si tratta di un problema “accademico”, ma di quella stessa esigenza di battaglia che ha spinto i nostri grandi Maestri a trarre dai più fulgidi episodi di lotta proletaria gli insegnamenti che essi davano alle generazioni successive, non solo con le loro luci, ma anche e soprattutto con le loro ombre. Deficienze ed errori sono inevitabili in una lotta uno dei cui dati fondamentali è il suo carattere spontaneo; e può misconoscere la spontaneità del moto americano solo chi dia credito alle menzogne della Central Intelligence Agency sull’azione determinante svolta in esso dai soliti “sobillatori” o, peggio, da delinquenti comuni, saccheggiatori e… piromani; solo dunque chi abbia scelto il ruolo di lacchè del regime costituito. Quanto ai limiti storici, bisogna per capirli vederli sullo sfondo di tutto il movimento operaio, americano e mondiale.

Non si possono valutare nelle loro luci e nelle loro ombre i fatti di Newark e di Detroit se li si considera come un episodio qualunque in un paese qualunque. Al contrario, bisogna vederli nella portata mondiale che essi hanno in quanto avvenuti nel cuore stesso del pilastro mondiale dell’imperialismo, gli USA, al centro del suo sistema sanguigno, l’industria automobilistica, e nell’immenso valore che potrebbero, anzi avrebbero già potuto assumere, proprio per questa ragione, ai fini della riscossa mondiale del proletariato. È qui che balzano in luce i loro limiti attuali.

Abbiamo già accennato alle testimonianze di solidarietà non soltanto morale fornita ai proletari “di colore” da proletari “senza colore”. Esse sono inconfutabili, tanto più che vengono da parte borghese. Mancano invece notizie sul come, dove, quando, tale solidarietà si è manifestata: ignoriamo se, per esempio, essa si sia espressa solo nel gesto dei “cecchini” che imbracciano il fucile e sparano dai tetti, o in altre e più estese forme di aiuto, specie quando le forze armate locali ricevevano l’imponente rinforzo dei paracadutisti mobilitati d’urgenza dalla Casa Bianca e quando fior di carri armati spazzavano a raffiche di mitraglia le strade; se la paralisi “parziale” della General Motors, della Ford, della Chrysler, sia stata dovuta all’assenza “forzata” o all’astensione volontaria delle maestranze al completo; se azioni unitarie di sciopero e comitati unitari di agitazione siano sorti e, in caso affermativo, quanto tempo siano rimasti in vita e quali parole d’ordine abbiano dato.

Questo silenzio (giacché proprio di silenzio, non di mancanza di informazioni nostre, si tratta) non è casuale: tutto l’opportunismo, in qualunque paese, ha provveduto a chiudere la rivolta americana nell’ambito di situazioni e problemi “particolari”, a confinarla in un ghetto politico di isolamento dal mondo esterno, prima di tutto dal mondo “esterno” degli altri paesi e del proletariato di altro “colore”. Questo silenzio (tanto più significativo in quanto le stesse fonti borghesi attribuiscono all’arresto della produzione tre quarti dei danni monetari causati dalla lotta, e parlano di un miliardo di dollari andati in fumo in pochi giorni, tanti quanti il governo italiano ricevette in prestito dagli USA in conto “ricostruzione nazionale”), è l’altra faccia del silenzio che potremmo dire “attivo” delle organizzazioni “operaie” bianche negli Stati Uniti e fuori: il silenzio di una forza politica organizzata che ponesse su scala generale, come punto cardine di principio, la questione di una battaglia unica, non divisa da linee di colore, e valorizzante su un piano più alto l’istintiva solidarietà dei proletari comuni. Non una voce si è levata dal campo dei “non colorati” (e poteva essere solo la voce di un partito di classe) a gridare: Questa lotta è di tutti noi, il nostro nemico è lo stesso, unica è la volontà di attaccarlo con la violenza che voi, fratelli in pelle nera, avete esercitato a viso aperto, come, tante volte in un secolo di storia, i nostri padri hanno fatto! Se quindi c’è stata la solidarietà istintiva dei proletari bianchi, qualunque forma essa abbia assunta, è mancata quella di una corrispondente forza politica. Non poteva esserci, là dove manca – e non da oggi – il partito di classe, della dottrina e del programma marxisti, e loro veicolo attivo nel cuore dell’imperialismo mondiale, là dove essi sono destinati a fungere da perno della strategia mondiale comunista. Qui il tragico nodo. Perciò abbiamo intitolato il nostro articolo: “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito di classe in America’. Il che è quanto dire nel mondo”.

[...]

                                                                       il programma comunista, nn.15 e 16, settembre 1967

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