DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La pubblicazione dell’ormai famoso dossier McNamara ha suscitato un’ondata di stupore, di sdegno, di proteste nell’”opinione pubblica”.

La stampa “democratica” lo ha accolto con soddisfazione come prova decisiva dei crimini per i quali il governo americano è stato da tempo messo sotto accusa dal “movimento per la pace” e dal “tribunale dei diritti dell’uomo”.

Ecco un sommario elenco dei “crimini” americani secondo l’ Opposizione democratica; 1) I “primi a cominciare”, cioè gli “aggressori” furono gli USA; 2) Da parte della RDV, non ci fu nessuna invasione e nemmeno invito all’insurrezione; 3) Furono gli Usa a violare gli accordi di Ginevra del 1954; 4) Con la loro bestiale condotta di guerra gli USA hanno mille volte superato i nazisti per ferocia e larghezza dei mezzi impiegati nel terrorismo e nello sterminio organizzato delle popolazioni; 5) Il rispetto che gli USA hanno dei trattati fa onore ai nazisti; gli USA hanno violato tutti i trattati internazionali, i “diritti dell’uomo”, il diritto alla autodecisione dei popoli, ecc.; 6) Col loro intervento militare, infine, gli USA avrebbero agito contro la volontà del popolo americano, contro la volontà del parlamento americano; hanno quindi calpestato le loro stesse leggi, hanno negato i loto principi di democrazia, libertà, ecc.

Ma come ha potuto,il governo USA andare contro tutto e contro tutti: il suo popolo, i suoi principi, i suoi organi legislativi? La sua azione ha violato mille “diritti”, ma ha rispettato in pieno quel che conta, il diritto del più forte.

Di fronte a una tale dimostrazione di brutalità e di cinismo, come appaiono insulsi e sterili lo stupore e i piagnistei dei candidi pacifisti piccolo-borghesi, che contro la forza impugnano un “diritto” e vorrebbero opporre alle armi dei pezzi di carta! Lo Stato USA, come tutti gli Stati borghesi, non difende né una ideologia né una carta costituzionale, ma una rete di interessi; può quindi, all’occorrenza, calpestare le sue stesse leggi.

Da una parte, una squallida corrente di opinione, che si definisce genericamente “pacifista” e sostiene di lottare a fianco dei vietnamiti indicando nella guerra e nella violenza la causa di tutti i mali e nella pace la soluzione di tutto: dall’altra, lotta vera con bombardamenti e massacri.

Ma gli eroici combattenti vietnamiti, che lottano quasi ininterrottamente da più di 25 anni, sono soli: soli contro l’imperialismo americano; soli contro il “movimento pacifista”, che contribuisce a confondere le idee del proletariato occidentale e ad avallare la tesi che i vietnamiti “ce la possono fare da soli” e che la solidarietà con la loro lotta deve avvenire in forme democratiche e non violente; soli contro i loro stessi capi legati a doppio filo alla politica di Mosca e Pechino, che hanno sempre cercato di contenere il movimento entro limiti borghesi-nazionali e (come dimostreremo) non solo di non urtare gli interessi della classe dei proprietari terrieri, ma di accordarsi con essa, fottendo sistematicamente proletari e contadini poveri.

È un fatto che dà la misura del baratro in cui il proletariato occidentale è sprofondato da oltre 50 anni senza muovere un dito davanti allo sterminio organizzato di migliaia e migliaia di vietnamiti. Questo è il punto, e mentre tutti esaltano ipocritamente la lotta e le vittorie militari dei vietcong, non possiamo nascondere che i proletari e i contadini poveri vietnamiti sono e resteranno senza speranza, finché il proletariato occidentale non si sarà liberato della cappa di piombo dell’opportunismo che ne frantuma e ne divide le lotte mantenendole su un terreno legalitario e pacifico.

Aiuta forse i combattenti vietnamiti chi si limita ad esaltarne le battaglie, senza trarre dagli avvenimenti trascorsi le necessarie lezioni, per quanto dolorose siano? Stanno forse dalla parte degli eroici combattenti vietnamiti coloro secondo i quali gli avvenimenti del Vietnam proverebbero che «un popolo piccolo e debole è in grado da solo di sconfiggere l’imperialismo»?

Che cosa dimostrano 25 anni di guerra, prima contro i giapponesi, poi contro i francesi, oggi (da ben undici anni) contro gli americani?

Nel 1946, dopo la cacciata dei giapponesi, un accordo con la Francia apre la strada all’ingresso delle truppe francesi nel Nord e prelude a una nuova guerra. Nel 1954, dopo la grande vittoria di Diem Bien Phu, si arriva agli accordi di Ginevra, in base ai quali i francesi evitano la completa distruzione del loro corpo di spedizione, i vietnamiti devono ritirare le loro forze sopra il 17° parallelo, e il paese viene diviso in due gettando le premesse per una nuova guerra. Oggi, dopo altri brillanti successi militari come l’offensiva del Tét nel 1968 e le recenti vittorie in Cambogia e ne Laos, ci avviciniamo forse a un nuovo accordo, o meglio, una nuova fregatura.

I vietnamiti hanno dimostrato un grande valore sul campo di battaglia; ma, mentre tutti intonano inni alla pace, ci si prepara nuovamente a batterli al tavolo delle trattative. La tesi suddetta è quindi smentita clamorosamente.

Un’altra tesi che generalmente tutti avallano e che contribuisce a confondere le idee del proletariato occidentale pretende che nel Vietnam vi sia un “popolo” oppresso che combatte unito contro l’aggressore straniero. Secondo questa concezione, che gli attuali dirigenti vietnamiti hanno sempre sostenuto, la lotta di classe avrebbe subìto una battuta d’arresto e, di fronte all’obiettivo “prioritario” della lotta contro l’aggressore, tutta la nazione si sarebbe unita come un uomo solo. Un breve esame dei fatti che si sono succeduti dal 1930 ad oggi servirà a dimostrare la falsità anche di questa tesi e a smascherare l’attitudine dei dirigenti vietnamiti che hanno sempre sacrificato gli interessi vitali del proletariato e dei contadini poveri sull’altare della “pace” e della “unità nazionale”.


1930-1940: LE INSURREZIONI

Il Partito Comunista Indocinese si formò nel 1930, quando già in Europa la rivoluzione era stata sconfitta e la Terza Internazionale e lo Stato Sovietico erano degenerati sotto i colpi della controrivoluzione staliniana. Tuttavia esisteva nel suo interno un’ala sinistra su posizioni tendenzialmente classiste (conosciuta sotto il nome generico di “trotskista”) che fu alla testa delle rivolte operaie e contadine e che si oppose sempre al compromesso con la borghesia nazionale.

Lo testimonia il fatto che solo nel 1941 (dopo che i migliori compagni erano stati eliminati nelle rivolte e nelle repressioni) la politica del blocco nazionale con la classe dei proprietari fondiari (il che significa automaticamente rinuncia alla riforma agraria) si impose definitivamente. Secondo quanto afferma lo stalinista Jean Chesneaux, autore di una Storia del Vietnam di cui ci serviamo, «la parola nei testi comunisti dal 1930 al 1940 “patria” (...) in pratica non appare mai». L’autore, che è una vera carogna, lamenta il fatto che «i movimenti popolari a direzione comunista, dal Nghe An alle insurrezioni del 1940, si erano accontentati (!) fino ad allora di issare la bandiera rossa con la falce e martello del comunismo internazionale». Anche il generale Giap, nel suo scritto Guerra del popolo, esercito del Popolo, ricorda che «fu necessario attendere il periodo 1939-41 perché la lotta contro l’imperialismo per la liberazione nazionale fosse concepita come fondamentale».

All’atto della sua costituzione, il programma del partito comprendeva infatti: Rovesciamento dell’imperialismo francese, del feudalesimo e della borghesia reazionaria – Formazione di un governo di operai, contadini e soldati – Confisca delle banche e delle altre imprese imperialistiche – Confisca di tutte le proprietà degli imperialisti e dei borghesi reazionari vietnamiti e loro distribuzione ai contadini poveri – Introduzione della giornata lavorativa di otto ore.

Nel 1930 (sotto il dominio francese) il Vietnam è sì un paese prevalentemente agricolo, ma comprende anche un proletariato abbastanza numeroso e concentrato (le miniere e le piantagioni di gomma occupavano da sole circa 230.000 operai). Gli operai entrano in scena con rivendicazioni proprie con una ondata di scioperi nel 1928-29. Nel 1930, in seguito ai crolli dei prezzi del riso e ai cattivi raccolti, si svolgono grandi agitazioni contadine, alla testa delle quali stanno i militanti del partito comunista, Il movimento esplode in forme violente; in molte zone si assaltano locali pubblici, si bruciano registri e archivi, si cacciano i proprietari e si lancia la parola d’ordine della distribuzione delle terre. Nel 1931, nella regione di Nghe si forma il potere sovietico. I soviet confiscano la terra dei latifondisti e la distribuiscono ai contadini poveri, vengono istituiti tribunali popolari, nei villaggi il potere viene affidato a comitati di contadini poveri. Ma questo magnifico esempio di lotta rivoluzionaria viene affogato nel sangue alcuni mesi dopo. Anche nella regione dello zucchero si verifica una insurrezione subito repressa.

Altri centri di insurrezione sono le grandi risaie del Sud, che impiegano un gran numero di salariati, e le grandi piantagioni dell’Annam e della Cocincina, dove tra il 1930 e il 1932 si svolgono dappertutto rivolte sanguinose degli operai contro le riduzioni di salario e i licenziamenti. Contemporaneamente nelle città riprendono le agitazioni operaie per l’aumento del salario e contro la disoccupazione.

Per avere un’idea della violenza delle lotte e dell’alto grado di combattività rivoluzionaria raggiunto dagli operai e dai contadini, basti pensare che solo nel 1930 le autorità filo-francesi eseguono 30 esecuzioni sommarie durante le manifestazioni del 1° maggio, 40 per l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, 115 per l’anniversario della Comune di Canton. Inutile dire che in queste repressioni sono eliminati i migliori compagni. Comincia allora a prendere il sopravvento la frazione stalinista del partito, fautrice di una alleanza con la borghesia nazionale, di cui il tanto osannato Ho Chi Minh è uno dei maggiori esponenti. Tuttavia, l’opposizione “trotskista” è ancora forte, soprattutto nella Cocincina dove si raccoglie attorno al giornale La Lutte.

La definitiva rottura tra l’opposizione “trotskista” e l’ala staliniana avviene solo nel 1937-38, quando quest’ultima proclama la priorità della lotta contro i “fascisti giapponesi” rispetto alla lotta contro la classe dei proprietari fondiari, e l’unità non solo con questi ultimi, ma anche con i colonialisti francesi.

Nel 1939, Ho Chi Minh, in un rapporto all’Internazionale Comunista scrive: «1) In questo momento il Partito (...) deve evitare di mirare troppo in alto con le sue rivendicazioni (...) per non cader nelle trappole dei fascisti giapponesi. Deve limitarsi a rivendicare i diritti democratici: libertà di stampa, ecc. 2) In vista di questi obiettivi il Partito deve sforzarsi di creare un vasto fronte nazionale democratico, che comprenda non solo indocinesi, ma anche i progressisti francesi, non solo le classi lavoratrici, ma anche la borghesia nazionale. 3) Nei confronti della borghesia nazionale, il Partito deve mostrarsi abile ed elastico. Deve fare del suo meglio per convertirla alla causa del fronte. 4) Nei confronti dei trotskisti nessuna alleanza e nessuna concessione. Bisogna con tutti i mezzi smascherare questi agenti del fascismo, bisogna annientarli sul piano politico».

Si noti il livore con cui questo rettile si scaglia contro compagni da sempre alla testa delle lotte e decimati dalle repressioni; e, all’opposto, il tono remissivo nei confronti della borghesia nazionale. Giunge fino a sostenere al punto 6 del rapporto: «Il Partito non deve imporre la sua direzione al fronte», o, in altre parole, deve lasciare la direzione del fronte alla borghesia (da Scritti, lettere, discorsi del presidente Ho Chi Minh, ed. Feltrinelli).




1940-1946: IL FRONTE POPOLARE

Nel 1940, dopo la sconfitta francese in Europa, inizia nel Vietnam la penetrazione giapponese. In giugno i giapponesi ottengono dalle autorità coloniali francesi varie concessioni (ad es., il diritto di servirsi di tre aeroporti e di mantenervi un contingente di truppe, il controllo di una ferrovia, ecc.).

Nello stesso anno scoppia una serie di sommosse armate dirette contro sia i giapponesi sia i francesi. La rivolta assume proporzioni molto vaste, tanto che giapponesi e francesi uniti nelle repressioni compiono vere operazioni militari con impiego anche dell’aviazione. La repressione è durissima, e decima i quadri più combattivi e radicali del Partito. Infine l’amministrazione francese, messa a mal partito, apre ancor più le porte alla penetrazione dei giapponesi, che restano nel Vietnam sino alla fine della guerra.

È il fallimento di questa insurrezione che apre la strada al definitivo slittamento del Partito Comunista Indocinese su posizioni borghesi nazionali, e alla vittoria della corrente capeggiata da Ho Chi Minh. Questa linea è infatti sancita solo nel maggio 1941 nella VIII sessione del Comitato Centrale: nella stessa occasione viene fondato il Vietminh (fronte dell’indipendenza del Vietnam).

Ci sono voluti 10 anni, per far ingoiare ai proletari e ai contadini vietnamiti la linea del fronte popolare!

Nel programma del Vietminh è proclamata la lotta per la “rivoluzione nazionale e democratica”, “la lotta contro il governo francese di Vichy e contro il Giappone”, “l’alleanza del popolo vietnamita con le democrazie che combatterono il fascismo: Cina, Stati Uniti, Unione Sovietica”, il suffragio universale, le libertà democratiche, la giornata di otto ore.

Poco tempo dopo la fondazione del Vietminh, il bravo Ho, in una lettera dall’estero, fa appello alla resistenza nazionale: «Notabili, ricchi, soldati, operai, contadini, intellettuali, funzionari, commercianti, giovani donne, voi tutti che siete pieni di patriottismo! In questo momento, la liberazione nazionale e la cosa più importante. Uniamoci!».

Cosa significa unione con i notabili, i ricchi, i funzionari se non rinuncia alla riforma agraria? Infatti il programma agrario del Vietminh prevede la spartizione solo delle terre dei colonialisti e dei proprietari “traditori” (della patria). Lo stesso Ho Chi Minh, più tardi, rievocando gli avvenimenti di questo periodo, dirà: «Si evitava di lanciare la parola d’ordine “confisca e distribuzione delle terre dei proprietari fondiari ai contadini”, per ottenere l’appoggio dei proprietari terrieri al fronte nazionale» (op. cit, da un rapporto tenuto nel 1951).

A sua volta, il generale Giap così definisce la nuova politica agraria: «Sospendere provvisoriamente la parola d’ordine della riforma agraria, sostituendola con quella della diminuzione dei tassi d’affitto e di interesse e della confisca delle terre appartenenti agli imperialisti e ai traditori, da distribuirsi ai contadini» (op. cit.). Ma i contadini poveri, schiacciati dalle tasse e dall’usura, non insorgono certo per conquistare la libertà di stampa o il suffragio universale, bensì per cacciare i latifondisti dalle loro terre, o quanto meno per ottenere un miglioramento delle condizioni di vita. È quindi chiaro che i contadini poveri e la borghesia nazionale, essenzialmente terriera, non potrebbero mai marciare assieme per obiettivi comuni, e che la parola d’ordine della “unione nazionale” copre solo il completo asservimento agli interessi borghesi.

D’altra parte, forse che la borghesia terriera locale si regge su una forza propria? No! Si appoggia di volta in volta ai giapponesi, ai francesi, ai cinesi del Kuomintang, agli americani, a seconda delle circostanze. È chiaro quindi che la “liberazione nazionale” non potrebbe avvenire se non contro la borghesia indigena, legata mani e piedi all’imperialismo.

Tra il 1941 e il 1945 il Vietminh partecipa alla lotta antigiapponese a fianco degli alleati, e in questo periodo, secondo quanto rivela il rapporto Mc Namara, gli USA inviano presso il Vietminh una missione militare. Per caratterizzare meglio la figura del tanto osannato Ho Chi Minh sarà utile ricordare che nel 1942 collabora ed è finanziato dal Kuomintang cinese, il quale, appoggiandosi a una parte della borghesia, cerca di penetrare nel Vietnam. Solo alla fine della guerra, il 13 agosto 1945, poco dopo Hiroshima, il Vietminh lancia un appello all’insurrezione generale: i giapponesi sono ormai dovunque in ritirata e il 2 settembre è proclamata la indipendenza della Repubblica Democratica del Vietnam.

Il governo allora formato è veramente un governo di “unità nazionale”, così come piace ad Ho; la borghesia terriera, che fino ad allora si era appoggiata ai giapponesi, aderisce in pieno alla RDV – basti ricordare che del governo fanno parte, tra gli altri, Hung Huy, membro della famiglia imperiale nel Tonchino e il mandarino Phan Ke Toai, ex delegato imperiale nel Tonchino, mentre lo stesso Bao Dai, già capo del governo filo-giapponese, è nominato “consigliere supremo” del governo di Ho Chi Minh. Nel citato rapporto del 1951, Ho Chi Minh, rievocando questi avvenimenti, esalterà il fatto che alcuni membri del Comitato Centrale, sebbene avrebbero dovuto far parte del governo provvisorio, «se ne ritirarono di spontanea volontà a favore di patrioti che non erano membri del Vietminh» (cioè a favore di borghesi ex collaboratori dei giapponesi). A completare l’unità nazionale viene l’adesione della chiesa; nel novembre 1945 i quattro vescovi cattolici del Vietnam, in una comune lettera pastorale, invitano i fedeli a sostenere il nuovo regime; uno sarà poi eletto all’assemblea nazionale.

Ma perché la borghesia terriera si appoggia così fiduciosamente alla RDV? Qual’è il prezzo dell’”unità nazionale”?

L’insurrezione antigiapponese ha messo in moto i contadini, che in quell’anno sono pure affamati a causa di una nuova carestia. Qualsiasi movimento contadino fa tremare i latifondisti. Essi sanno che le loro terre sono in pericolo, mentre non ci sono più né francesi né giapponesi a difenderle. Che cosa possono fare se non aderire al governo della RDV che, in nome della patria, tutela i loro interessi?

In varie province, come nel Quang Ngai e nel Nord Annam, i contadini, sullo slancio della vittoria antigiapponese, hanno cominciato a spartirsi le terre dei latifondisti. Il governo della RDV si preoccupa subito di impedire l’estendersi del movimento; una circolare del 21 novembre dichiara: «Le risaie e i terreni di coltivazione non verranno spartiti come false voci hanno annunziato» (Jean Chesneaux, op.cit.). Inoltre, l’11 novembre 1945, il Partito Comunista Indocinese si scioglie. Ecco cos’è costata l’unità con la borghesia nazionale: rinuncia alla riforma agraria e scioglimento del partito!

Nel 1945, l’80% della popolazione è costituita da contadini; di questi, il 61,5%, non ha terre in proprio. La ripartizione della terra nel Nord Vietnam nel 1945 è la seguente:

superficie
(ha)
% della
superf.
totale
Coloni (giapponesi o francesi) 15.952,05 1.0
Chiesa (missioni) 23.928,07 1.5
Terre comunali o semicomunali 389.801,25 25.0
Proprietari terrieri 390.825,22 24.5
Contadini ricchi 113.259,55 7.1
Contadini medi 462.609,45 29.0
Contadini poveri 169.520,50 10.0
Salariati agricoli 17.547,25 1.1
Altri lavoratori 12.761,64 0.8

 

Le terre comunali che, come si vede molto estese, sono spesso usurpate dai latifondisti e i contadini ne rivendicano la spartizione. Questi, che costituiscono la gran parte della popolazione, il governo della RDV deve in qualche modo rabbonirli. Si prendono perciò alcuni provvedimenti per migliorarne le condizioni di vita: riduzione delle rendite del 25% (a vantaggio della massa dei piccoli affittuari), riduzione del tasso del credito, confisca e divisione delle terre comunali e dei coloni francesi e giapponesi.

Questi provvedimenti però rimangono sulla carta: la loro esecuzione è affidata agli apparati amministrativi locali, dove predomina l’influenza dei proprietari fondiari. Nel dicembre 1953, Phan Van Dong denuncerà il fatto che solo il 5% delle terre appartenenti ai proprietari fondiari e coloni è stato colpito dalla riduzione della rendita; solo poco più della metà delle terre comunali è stata spartita, e circa il 10% delle terre appartiene a coloni e a missioni.

Ma la carestia incombe ancora e si teme una sollevazione dei contadini; la RDV deve assolutamente aumentare la produzione agricola, ma la presenza di grandi latifondi e lo strapotere della grande proprietà terriera (che vuol dire alti canoni d’affitto, usura, scarso sfruttamento di vaste superfici, ecc.) lo vieta. D’altra parte, una ripartizione della terra comporterebbe una guerra aperta contro la borghesia terriera, cosa che Ho e compagni si guardano ben dal volere. Il 15 novembre viene costituito il “Comitato Centrale della produzione agricola intensiva e rapida”; si lancia una specie di “battaglia del grano” o, meglio, del riso. Nelle città è dissodata anche la più piccola porzione di terreno (giardini, campi da gioco, ecc.)

Intanto anche il proletariato, dopo 5 anni di stasi, si rimette i moto. Il governo della RDV è costretto a proclamare le libertà sindacali e la giornata di 8 ore e a riconoscere ufficialmente la festa del lavoro. Il 1° maggio 1946 si svolgono imponenti manifestazioni con migliaia e migliaia di partecipanti. Durante l’estate scoppiano scioperi in tutto il paese. Basti un esempio a riprova della magnifica combattività dei proletari vietnamiti: in giugno, 5.000 minatori delle miniere di Hon Gay scioperano contro un licenziamento e in luglio ottengono la riassunzione del compagno.

1946-1954: LA GUERRA CONTRO I FRANCESI – DIEM BIEN PHU – GINEVRA

Nei piani di spartizione del mondo tra le grandi potenze non è tuttavia previsto uno Stato vietnamita indipendente. Nell’inverno 1944-45 la Repubblica Francese (“uscita dalla resistenza”), in vista del suo ritorno nel Vietnam aveva già costituito il Corpo di Spedizione Francese per l’Estremo Oriente. Negli accordi di Potsdam si decide di inviare truppe cinesi a nord del 16° parallelo e truppe inglesi e francesi a sud. Questa decisione viene spiegata ufficialmente come “misura tecnica”» per disarmare le truppe giapponesi ancora presenti nella zona.

Dopo una serie di sanguinosi incidenti tra le truppe di occupazione e la popolazione, nel marzo del 1946 si giunge alla stipulazione di un accordo tra la RDV e la Francia. In base ad esso la Francia riconosce formalmente la RDV come Stato indipendente, ma le truppe francesi possono stabilirsi nel Nord in sostituzione delle truppe del Kuomintang. Di ritorno dai negoziati, Ho Chi Minh, in un proclama al popolo, presenta questi accordi come una vittoria e invita ad essere «cortesi con i militari francesi, concilianti nei confronti dei cittadini francesi», ad assumere nell’azione «forme politiche democratiche» e ad «unirsi strettamente senza distinzione di partito, di classe, di religione» (Ho Chi Minh, op.cit.). Ma la sostanza degli accordi è ben spiegata dal generale Giap: «Il problema del corpo di spedizione francese era allora se avrebbe potuto tornare con facilità nel Nord Vietnam. La cosa non si presentava possibile poiché al Nord le nostre forze erano più forti che al Sud». E come riescono i francesi a introdurre le loro truppe nel nord? Appunto, grazie ai negoziati.

Una volta sistematisi, i francesi riprendono con crescente brutalità le repressioni, i massacri, i saccheggi: il bombardamento del porto di Haiphong provoca circa 6.000 morti (si ricordi che, in questo periodo, il PCF fa parte del governo francese “uscito dalla resistenza”). Il governo della RDV, di fronte a questi ordinati massacri, si limita a lanciare appelli al governo francese chiedendo un mutamento di politica per evitare la guerra. È solo il 20 dicembre, quando ormai la resistenza si è spontaneamente estesa a tutto il paese, che il governo chiama alla insurrezione generale, continuando però ad invitare il governo di Parigi a riprendere i negoziati!

In questo momento, secondo quanto afferma il generale Giap, «le nostre truppe, dopo aver sostenuto per un certo periodo combattimenti di logoramento e temporeggiamento, effettuarono un ripiegamento strategico dalle città alle campagne». È adottata la strategia della cosiddetta “resistenza di lunga durata” che non è che la strategia della guerra di contadini. A questa strategia si manifestano opposizioni: Giap ricorda la «tendenza soggettivista dei fautori di una decisione rapida che si manifestò, agli inizi della guerra di resistenza, nel rifiuto opposto in diverse regioni ad evacuare le truppe per preservarne il potenziale, e che si sarebbe manifestata ancora nel progetto di controffensiva generale formulato nel 1950» (op.cit.). L’esercito vietnamita, quasi intatto, si riorganizza in piccole formazioni. Secondo Jean Chesneaux, vengono perfino sciolte alcune grosse unità per riorganizzarle in piccole bande guerrigliere. Lo stesso autore afferma che, a causa della grande difficoltà di comunicazioni, è «impossibile mantenere una vera e propria centralizzazione; diviene necessario attenersi a direttive di massima, e lasciare largo margine di iniziativa alle autorità regionali e locali. A tal fine si divide il paese in quattordici zone militari dotate di ampia autonomia».

È una condotta di guerra che appare perlomeno rinunciataria, e tutti questi fatti sembrerebbero indicare che si sia deliberatamente voluto lasciare il proletariato cittadino alla mercé dei francesi. È certo comunque che solo gli operai rimangono a difendere le città. Ad Hanoi un reggimento di proletari resiste per ben due mesi prima di cedere. Le truppe francesi schiacciano così il movimento proletario riaccesosi nell’estate del 1946.

Il governo della RDV si è ritirato nelle campagne. A questo punto, di fronte alle necessità della guerra, il problema della riforma agraria assume un’importanza decisiva. Si può forse sostenere la guerra senza l’appoggio dei contadini? Si può combattere senza soldati? Il generale Giap, capo dell’esercito, ha già dovuto scontrarsi con questa realtà: «Mobilitare e organizzare tutto il popolo significava mobilitare e organizzare le masse contadine, e il problema della terra assumeva un’importanza decisiva. Quindi, alla luce di una analisi esauriente, la guerra di liberazione del popolo vietnamita si presenta nella sua essenza come una rivoluzione nazionale democratica popolare armata, i cui due obbiettivi fondamentali ed essenziali consistono nel rovesciamento dell’imperialismo e della classe dei proprietari fondiari feudali (...) L’accrescimento delle forze di resistenza era quindi intimamente connesso con la risoluzione del problema agrario» (op.cit.). Ora che si ha bisogno di carne da cannone, si sostiene la necessità della riforma agraria, mentre prima, in nome dell’unità nazionale, si era sempre difesa la proprietà terriera.

Ma lo stesso Giap, passata la guerra, rinnegherà queste posizioni: «La società allora esistente nel Vietnam – 1946 – era caratterizzata da due contraddizioni fondamentali, l’una tra l’imperialismo e l’intera nazione, l’altra fra la classe dei proprietari fondiari e il popolo, essenzialmente i contadini. Di queste due contraddizioni, la prima doveva essere considerata come essenziale. La rivoluzione vietnamita era una rivoluzione nazionale democratica popolare con due obiettivi fondamentali: l’uno antimperialista, l’altro antifeudale. Il primo (...) si presentava come essenziale» (op.cit.).

Per raggiungere questi scopi, nel 1950 sono ridotti i tassi d’interesse; sono distribuite gratuitamente le terre incolte e se ne garantisce la proprietà entro due anni a condizione che vengano coltivate; viene inoltre disciplinato il contratto d’affitto vietando il subaffitto della terra e statuendo che il contratto debba durare almeno tre anni; si cerca di incrementare la cooperazione invitando i contadini a formare “brigate di scambio del lavoro” ecc. Il nuovo codice civile stabilisce che «la proprietà viene rispettata, ma (...) è vietato ai proprietari lasciare le terre incolte».

Nello steso anno i vietnamiti passano all’offensiva e infliggono una serie di sconfitte ai francesi. Sempre nel 1950 il governo RDV, che prima, come rivela il rapporto Mc Namara, aveva ripetutamente ma invano chiesto l’aiuto degli USA contro i francesi, si orienta verso il blocco sovietico: la URSS e la Repubblica Popolare Cinese riconoscono ufficialmente la RDV. Nel 1951, è fondato il “Partito dei lavoratori del Vietnam”, chiaramente filo-sovietico, che, secondo l’espressione di Ho Chi Minh, «adotta il marxismo-leninismo», il che sta a significare non certo un ritorno alla lotta per il comunismo, ma l’ingresso della RDV nel blocco sovietico.

Dall’altra parte, gli USA sostengono attivamente i francesi. Secondo le cifre riportate da Giap, l’aiuto americano, che nel 50-51 copriva il 15% delle spese di guerra, passa al 35% nel 52, al 45% nel 53, per raggiungere l’80% nel 54. In definitiva i francesi combattono per conto dell’imperialismo yankee. Come afferma giustamente Giap, si trattava di una guerra «sostenuta dal dollaro americano e dal sangue francese».

La situazione interna nelle campagne sotto il controllo della RDV è però ancora critica: i provvedimenti surricordati, volti a ottenere un incremento della produzione e l’appoggio della massa dei contadini, sono rimasti senza effetto, tanto che nel 1951 il governo lamenta gli scarsi risultati conseguiti nei villaggi.

Secondo le cifre riportate da Phan Van Dong, nel 1952, su 3.000.000 ettari appartenenti ai proprietari fondiari e ai coloni, solo 156.000 (il 5%) sono stati soggetti alla riduzione delle rendite e solo 2850.000 (l’8%) sono stati distribuiti.

Sempre secondo Phan Van Dong, nel dicembre 1953, la ripartizione della terra è la seguente:
- Terre appartenenti ai proprietari fondiari: 50%
- Terre comunali (di fatto accaparrate dai proprietari fondiari): 10%
- Terre occupate dai rimanenti 9/10: della popolazione contadina (di cui più della metà totalmente priva di terra): 30%
- Terre appartenenti ai coloni e alla chiesa: 10%

Di fronte alla necessità di aumentare la produzione e concludere la guerra, il governo deve affrontare seriamente il problema. Dopo aver pubblicamente denunciato lo stato di miseria delle masse contadine e il fatto che le forze feudali continuano, «dietro una cortina di bambù», ad esercitare il loro potere; dopo aver attaccato i «proprietari fondiari reazionari» che in molti casi collaborano col nemico, nell’aprile del ‘53 viene emanato il decreto agrario. Per il tipo di provvedimenti adottati non differisce molto da quelli del ’45 e ‘49 (riduzione delle rendite, dell’interesse, spartizione delle terre dei coloni, ecc.). Tuttavia, questa volta la sua esecuzione non è più affidata, come allora, all’apparato amministrativo locale, dove predomina l’influenza dei proprietari fondiari, ma alle unioni contadine e ai comitati agricoli, cioè agli stessi contadini organizzati.

Nel 1953, Ho Chi Minh spiega che cosa si propone il governo con la sua riforma: «Promuovendo la riforma agraria, influiremo sui contadini nostri compatrioti che vivono oltre le linee nemiche, li incoraggeremo a lottare con più vigore per la loro libertà e a sostenere con più ardore il governo democratico della resistenza. Nello stesso tempo provocheremo la disgregazione delle formazioni aggiunte del esercito fantoccio, la cui maggioranza è composta dai contadini che vivono nella zona occupata».

Nel varare la riforma, tuttavia, si proclama che deve realizzarsi “a tappe”, e per la sua esecuzione sono indicati criteri applicativi diversi a seconda delle zone: «La politica agraria – continua Ho Chi Minh – sarà applicata alle zone di guerriglia e alle zone provvisoriamente occupate, quando queste saranno liberate. Nei luoghi dove la mobilitazione delle masse per una rigorosa riduzione dei tassi d’affitto non è ancora stata organizzata, bisognerà assolutamente passare per questa prima tappa, prima di impegnarsi nella riforma agraria. Dove la mobilitazione delle masse non è ancora stata decisa dal governo, è assolutamente vietato alle autorità locali promuoverla di loro iniziativa».

Inoltre si dà la direttiva di applicare misure differenziate a seconda della posizione politica dei latifondisti: «Dobbiamo, realizzando la riforma agraria, fare una distinzione tra i proprietari fondiari a seconda della loro posizione politica. In altri termini bisogna applicare tutto un ventaglio di misure: confisca, requisizione senza indennizzo, acquisto d’autorità, invece di generalizzare la confisca o la requisizione» (op. cit).

Il governo, con la solita doppiezza, mentre da una parte cerca di illudere i contadini per indurli a combattere, dall’altra non ha nessuna intenzione di rompere con la borghesia terriera. Phan Van Dong afferma: «Non verranno pregiudicati gli interessi dei proprietari fondiari, di coloro che non si sono compromessi con il nemico, e soprattutto delle personalità democratiche e dei proprietari resistenti» (da J. Chesneaux, op.cit). Secondo J. Chesneaux, «ai coloni francesi le terre sono puramente e semplicemente confiscate e così gli altri beni. Invece, le terre e i beni dei “proprietari fondiari traditori, reazionari e dei notabili che si sono macchiati di crudeltà” vengono confiscati soltanto ”in proporzione alle colpe commesse”. Quanto alle “personalità democratiche”, queste vengono indennizzate delle loro terre, dei loro capitali e strumenti agricoli, mentre invece gli altri beni sono lasciati. I provvedimenti adottati nei riguardi dei proprietari fondiari “attendisti” residenti in zona occupata dipenderanno dal loro atteggiamento politico nei riguardi della resistenza».

Come si vede, il governo di Ho Chi Minh non ha certo l’intenzione di spingere fino in fondo la riforma agraria; lo scopo primo di questi provvedimenti è di utilizzare lo slancio dei contadini nella guerra antifrancese; ma per far questo li si deve illudere almeno fino alla conclusione delle operazioni militari. Lo scopo è pienamente raggiunto, come spiega il generale Giap: «La riforma agraria non fu certamente esente da errori, che tuttavia, verificatisi essenzialmente dopo il ristabilimento della pace, non ebbero alcuna influenza sulla guerra di resistenza» (op. cit.).

Dopo la riforma, lo stesso comando francese ammette di non trovarsi più di fronte agli stessi avversari. La grande vittoria di Diem Bien Phu, del 1954, con l’annientamento del corpo di spedizione francese, è in buona parte il frutto di questa riforma agraria eseguita a metà: infatti, come è noto, la vittoria ottenuta dai vietnamiti sul campo di battaglia si trasformerà in sconfitta al tavolo delle trattative.

Gli accordi di Ginevra del luglio 1954 stabiliscono una divisione “provvisoria” del paese lungo il 17° parallelo. Le forze rispettive debbono essere ritirate a nord e a sud di questa linea di demarcazione, e le parti si impegnano a indire elezioni generali entro il 1956. All’indomani della vittoria di Diem Bien Phu le forze francesi sono praticamente annientate; eppure il governo della RDV non vuole approfittare della situazione.

Secondo quanto dichiara Chaliand Gérard (op, cit.), «nell’ora del maggior trionfo del Vietnam, la vittoria di Diem Bien Phu (conseguita proprio il giorno prima dell’apertura a Ginevra delle trattative di pace), Phan Van Dong, ministro degli esteri della RDV, assunse un atteggiamento modesto quanto magnanimo nei confronti dei francesi, sottolineando il desiderio del suo governo di intrattenere, nonostante tutto quello che era successo, relazioni amichevoli con la Francia». Ingenuità? Amore per la pace? No! Impotenza e completo asservimento alle decisioni dei grandi colossi imperialisti. Al tavolo dei negoziati, non pesa la bravura militare; pesano i dollari.

Gli accordi di Ginevra, alla cui violazione tutti fanno risalire la causa della successiva guerra, ne contengono già le premesse. Con essi non solo si interrompe il conflitto in una fase di schiacciante superiorità vietnamita, ma si stabilisce che le truppe francesi si concentrino al Nord per poi ritirarsi oltre il 17° parallelo, e che le truppe vietnamite facciano altrettanto a Sud. Così i francesi possono recuperare le loro divisioni accerchiate nel delta del Fiume Rosso e assicurarsi il ritiro dal Sud di 100.000 uomini dell’esercito vietnamita, lasciando i contadini del Sud, che hanno appena iniziato a spartirsi le terre, praticamente indifesi e in balia di feroci repressioni.

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