DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Nel numero scorso del giornale, come in quello da poco uscito del “Programme Communiste”, abbiamo espresso l’entusiasmo dei rivoluzionari comunisti per la eroica, magnifica lotta dei proletari negri d’America, accennando alle ragioni di classe che stanno alla base di questa formidabile esplosione di odio verso la classe dominante, e mettendo in rilievo le finalità sociali che, sia pure in modo tendenziale e in forma non dichiarata né cosciente, le hanno conferito, con terrore e sdegno della borghesia del mondo intero, un carattere rivoluzionario.


Carattere sociale della rivolta negra

L’alto significato teorico delle gloriose giornate di Newark e Detroit risiede prima di tutto nel fatto che esse costituiscono una luminosa conferma delle previsioni marxiste sull’inevitabilità della catastrofe dalla quale gli ideologi borghesi e tutta la gamma degli opportunisti pretendono che il capitalismo sia oggi in grado, in virtù di “speciali” risorse, di premunirsi. D’un colpo solo, la “rivolta negra” (usiamo per un momento questo termine) ha spazzato via – in un bagliore di ferro e di fuoco – le panzane accreditate dalla intellettualità piccolo-borghese circa l’inarrestabile marcia verso il benessere e sulla pacifica eliminazione dei contrasti politici e sociali, mentre ha rimesso in poderosa luce la tesi marxista che la strombazzata prosperità capitalistica si regge su piedi di argilla, dandone ulteriore conferma – cosa ancor più importante – appunto là, vecchio assioma marxista, dove la “prosperità” è maggiore, le suggestioni della propaganda riformista e pacifista sono più diffuse, e le possibilità di corruzione materiale e morale più alte. È appunto là che dei proletari hanno ricordato ai loro fratelli di tutto il mondo di “non aver nulla da perdere eccetto le loro catene”.

Giacché, questo è l’altro grande aspetto dei fatti di Newark e di Detroit (non i soli, come si è visto e si vede tuttora, ma per adesso i più imponenti): di proletari si tratta, di salariati in rivolta nello scenario di alcune fra le più grandi concentrazioni industriali non solo degli Stati Uniti ma del mondo. Sia la motivazione sia la direzione del loro moto sono le stesse delle vampate di collera dei giornalieri messicani nelle fertili valli della California in anni recenti e, in forma periodica, ogni anno, o dei manovali di varia provenienza – e di pelle bianca – nelle galere aziendali dell’Est, da cui è punteggiata la storia sanguinosa del capitalismo americano in tempi lontani e vicini.

Altrove parliamo delle testimonianze, scarne ma inconfondibili, della solidarietà testimoniata dai lavoratori bianchi ai loro fratelli in pelle nera: esse basterebbero a dimostrare la radice di classe, e solo per etichetta di razza, del grande terremoto abbattutosi sulle cittadelle dorate di S.M. il Capitale yankee.

La manodopera negra è senza dubbio la peggio pagata, ma ciò vale in misura analoga per i manovali portoricani assorbiti più o meno stabilmente dall’industria dell’Est, per i salariati agricoli messicani stagionalmente arruolati per le aziende agricole nell’Ovest, o per gli americani di vecchia data che campano faticosamente, ad esempio, nelle aree depresse degli Appalachi. I proletari negri, essendo in prevalenza non qualificati, sono i più esposti alla disoccupazione (ad Harlem, il 9% dei negri sono disoccupati contro il meno del 4% della media nazionale; fra i giovani al disotto dei 20 anni, la percentuale ascende al 25% circa), ma lo sono pure gli stessi portoricani e, in una certa misura, tutti i giovani bianchi che il processo di meccanizzazione esclude da molte possibilità di impiego nell’industria. I negri vivono in quartieri orrendi, certo ma negli stessi rioni si ammassano gli immigranti di varia origine e di tutt’altra razza costretti a vendere la propria forza-lavoro all’insaziabile mostro capitalista.

Il capitalismo prende in origine l’avvio da una base territoriale più o meno omogenea di lingua e di costumi – il mercato nazionale della forza-lavoro – ma, nella sua prepotente espansione, non può non andare ad attingere manodopera a basso prezzo, se non bastano le sacche di depressione interna, fuori dai confini del paese: dovunque, quell’esercito internazionale di riserva che ad esso, potenza mondiale, offre disperato le braccia.

Eccoli i supersfruttati, che soffrono come tali indipendentemente dalla loro pelle (anche se la loro qualifica di “stranieri” o di “gente di colore” serve di comodo pretesto per martoriarli e spremerli ancora di più) e che, appunto perciò, sono destinati, per un apparente paradosso, a divenire l’avanguardia delle lotte di classe nel paese adottivo. Engels vedeva negli irlandesi – stipati in quelli che l’ipocrisia di oggi chiamerebbe “ghetti razziali” e che erano semplicemente dei mostruosi quartieri operai – le punte avanzate, l’elemento di massima irrequietudine, nel moto istintivo di rivolta proletaria in Inghilterra. I più fulgidi episodi di insurrezione violenta negli Stati Uniti hanno nomi e cognomi di “stranieri”. Nell’uno e nell’altro caso gli attori del dramma sociale erano l’incarnazione del proletario puro, del senza-riserve che appunto “non ha nulla da perdere eccetto le sue catene”, del salariato autentico che tocca con mano l’abisso di menzogna delle “nuove frontiere”, le frontiere che il capitalismo valica per attingere manodopera dove costa di meno. Tanto varrebbe parlare di conflitto razziale per i martiri di Chicago del lontano e pur tanto vicino 1886, o per i formidabili “wobbies”, gli I.W.W., di anni più recenti, in gran parte immigrati tedeschi, irlandesi, italiani, spagnoli!

Infine, quand’anche si volessero considerare solo i negri – come cittadini e non come proletari – e chiudere in una bottiglia il loro moto di rivolta applicandovi il tappo con scritto “questione razziale”, che cosa dimostra quel moto se non che perfino sul terreno generico dei famosi “diritti” e della celebre integrazione, la dinamica delle forze sociale ha posto fisicamente le vittime delle peggiori “ingiustizie” di fronte ai problemi che investono i rapporti generali, non locali né particolari, fra società – tutta la società – e Stato – l’intero edificio di oppressione e di difesa della classe dominante – mostrando loro che la questione è politica e di forza e non ammette se non l’alternativa fra violenza subita e violenza esercitata?

Significa questo che i negri di Detroit ne abbiano avuto esplicita coscienza? No: ma con questo? La coscienza segue, non precede, l’azione, e questa è il portato di un cozzo reale e materiale di forze, di una lacerazione in atto nel tessuto, apparentemente solido, di una società intrinsecamente precaria. Nomini pure il governo delle commissioni di inchiesta: la storia ha posto la questione su ben altro terreno!


I limiti storici del moto

Il nostro entusiasmo da un lato, la nostra solidarietà dall’altro, resterebbero tuttavia al di sotto del nostro compito di partito, se chiudessimo gli occhi sui limiti storici – oltre che sulle deficienze, sugli errori, sui rischi di involuzione sotto il duplice assalto della repressione statale borghese e del veleno opportunistico – di un moto prepotentemente scaturito dalle viscere del meccanismo di produzione borghese.

Non si tratta di un problema accademico ma di quella stessa esigenza di battaglia che ha spinto i nostri grandi Maestri a trarre dai più fulgidi episodi di lotta proletaria gli insegnamenti che essi davano alle generazioni successive non solo con le loro luci, ma anche e soprattutto con le loro ombre. Deficienze ed errori sono inevitabili in una lotta uno dei cui dati fondamentali è il carattere spontaneo; e può misconoscere la spontaneità del moto americano solo chi dia credito alle menzogne della Central Intelligence Agency sull’azione determinante svolta in esso dai soliti sobillatori o, peggio, da delinquenti comuni, saccheggiatori e piromani; solo dunque chi abbia scelto il ruolo di lacchè del regime costituito.

I limiti storici bisogna per capirli vederli sullo sfondo di tutto il movimento operaio, americano e mondiale. Non si possono valutare nelle loro luci e nelle loro ombre i fatti di Newark e di Detroit se li si considera come un episodio qualunque in un paese qualunque. Al contrario, bisogna vederli nella portata mondiale che essi hanno in quanto avvenuti nel cuore stesso del pilastro mondiale dell’imperialismo, gli USA, al centro del suo sistema nevralgico, l’industria automobilistica, e nell’immenso valore che potrebbero, anzi avrebbero già potuto assumere, proprio per questa ragione, ai fini della riscossa mondiale del proletariato. È qui che balzano in luce i loro limiti attuali.

Abbiamo già accennato alle testimonianze di solidarietà non soltanto morale fornita dai proletari non colorati. Esse sono inconfutabili, tanto più che vengono da parte borghese. Mancano invece notizie sul come, dove, quando, tale solidarietà si è manifestata. Ignoriamo se, per esempio, essa si sia espressa solo nel gesto dei cecchini che imbracciano il fucile e sparano dai tetti, o in altre e più estese forme di aiuto, specie quando le forze armate locali ricevevano l’imponente rinforzo dei paracadutisti mobilitati d’urgenza dalla Casa Bianca e quanto fior di carri armati spazzavano a raffiche di mitraglia le strade; se la paralisi “parziale” della General Motors, della Ford, della Chrysler, sia stata dovuta all’astensione volontaria delle maestranze al completo; se azioni unitarie di sciopero e comitati unitari di agitazione siano sorti e, in caso affermativo, quanto tempo siano rimasti in vita e quali parole d’ordine abbiano dato.

Questo silenzio (giacché proprio di silenzio, non di mancanza di informazioni nostre si tratta) non è casuale: tutto l’opportunismo, in qualunque paese, ha provveduto a chiudere la rivolta americana nell’ambito di situazioni e problemi “particolari”, a confinarla in un ghetto politico di isolamento dal mondo esterno, prima di tutto dal mondo “esterno” degli altri paesi e del proletariato di altro colore. Questo silenzio (tanto più significativo in quanto le stesse fonti borghesi attribuiscono all’arresto della produzione tre quarti dei danni monetari causati dalla lotta, e parlano di un miliardo di dollari andati in fumo in pochi giorni, tanti quanti il governo italiano ricevette in prestito dagli USA in conto “ricostruzione nazionale”), è l’altra faccia del silenzio che potremmo dire “attivo” delle organizzazioni “operaie” bianche negli Stati Uniti e fuori.

Silenzio che romperebbe una forza politica organizzata che ponesse su scala generale, come punto cardine di principio, la questione di una battaglia unica, non divisa da linee di colore, e valorizzante su un piano più alto l’istintiva solidarietà dei proletari comuni.

Non una voce si è invece levata dal campo dei non colorati (e poteva essere solo la voce di un partito di classe) a gridare: Questa lotta è di tutti noii, il nostro nemico è lo stesso, unica è la volontà di attaccarlo con la violenza che voi, fratelli in pelle nera, avete esercitato a viso aperto, come, tante volte in un secolo di storia, i nostri padri hanno fatto! Se quindi c’è stata la solidarietà istintiva dei proletari bianchi, qualunque forma essa abbia assunta, è mancata quella di una corrispondente forza politica. Non poteva esserci, là dove manca – e non da oggi – il partito di classe, della dottrina e del programma marxisti, e loro veicolo attivo nel cuore dell’imperialismo mondiale, là dove essi sono destinati a fungere da perno della strategia mondiale comunista.

Qui il tragico nodo. Perciò abbiamo intitolato il nostro articolo: “Necessità della teoria rivoluzionaria e del partito de classe in America”, il che è quanto dire al mondo.

È stato diverso il panorama delle forze politiche espresse dalla classe operaia negra? È quello che vedremo in un articolo successivo.

Nel numero scorso, abbiamo cercato di indicare brevemente i limiti storici dell’eroica battaglia dei proletari negri di Newark e Detroit, riconoscendoli in primo luogo nella mancanza non di un’istintiva solidarietà degli sfruttati in pelle bianca (che, in forma più o meno estesa, c’è stata), ma di una corrispondente presa di posizione da parte delle organizzazioni politiche e sindacali che raggruppano l’enorme maggioranza – bianca, ovviamente – dei salariati americani.

La nostra denuncia di codesti organismi, che è d’altronde la denuncia di una lunga storia di invigliacchimento seguito al tramonto dell’impetuosa ondata rivoluzionaria degli I.W.W., trova nuova e schiacciante conferma, proprio in questi giorni, nell’entrata in sciopero nella stessa Detroit dei 160 mila dipendenti della Ford – in questi giorni, dopo che la paurosa sfuriata negra è passata; non allora, quando i due moti potevano confluire in uno solo e gigantesco, capace di scuotere alle fondamenta l’aureo edificio della “prosperità” capitalistica in stelle e strisce.

Va ribadito con forza, perché ricade integralmente sulle organizzazioni sindacali e sui partiti politici operai in America – e in tutto il mondo, prima che dovunque e più che mai in Europa – la responsabilità di qualunque limitazione, deviazione, insufficienza e perfino involuzione mostrino le teorizzazioni che della fiammata del luglio e dell’agosto hanno dato o danno i cosiddetti “leader negri”. Ricadono su quegli organismi venduti alla classe dominante, che non a caso negli Stati Uniti riproducono nella propria struttura e nella propria ideologia le stesse discriminazioni a danno della minoranza negra da cui l’intera società americana è solcata.

Da questa constatazione, che deve fare arrossire i sedicentemente evoluti proletari “non di colore”, bisogna prender le mosse per rispondere al quesito che ci eravamo posti.

Ha, da parte sua, il proletariato negro espresso dal suo seno una forza politica capace di dire la parola che le forze politiche operaie bianche non hanno saputo, né voluto, né per una sconcia tradizione, potuto dire nei giorni di ferro e di fuoco di Detroit?

Una prima constatazione positiva, ovvia del resto perché documentata da tutta la stampa, oltre che facilmente prevedibile per i marxisti, è che di fronte al grido imperioso di quei giorni il blocco eterogeneo della “popolazione negra” si è spezzato nelle sue componenti di classe, ad ulteriore riprova del fondo vigorosamente sociale della rivolta.

Da un lato la borghesia negra – quella che si è dolcemente inserita nel sistema e che a favore dei confratelli “disagiati” non osa chiedere nulla più che miserabili “diritti” da conseguire coi metodi imbelli delle pacifiche marce e della rinunzia alla violenza – ha gettato l’ultima foglia di fico che le restava addosso presentandosi nella vergognosa nudità di paladina dell’ordine costituito. «Se la polizia avesse sparato subito e molto – si è sentito in dovere di urlare il giornale negro “Michigan Chronicle” – i tumulti sarebbero già cessati», chiaro invito al governo, se il caso si ripetesse, a picchiare prima e più sodo! Mentre il solito corteo di leader, più o meno religiosi, invocava riforme, commissioni d’inchiesta, aumento della rappresentanza politica della popolazione di colore, qualche contingente negro in più nella guardia civica, la fine delle discriminazioni nei caffè e negli autobus, ecc., il tutto fra salamelecchi al potere esecutivo e alla “imparzialità” di legislatori e giudici.

Il canagliume borghese non conosce nessuna “color line” – ha una tinta sola, quella della sbirraglia.

Dall’estremo opposto, si sono levate voci di timbro ben diverso, che non solo hanno chiamato i proletari negri a liberarsi dalla supina accettazione del sordido paternalismo dei padroni bianchi (il cosiddetto “ziotomismo”), a boicottare l’infame borghesia negra schieratasi sullo stesso fronte dei borghesi bianchi, a svergognare le ipocrite dichiarazioni dell’unico senatore negro, Brooks, e ad accogliere con le dovute pernacchie il deputato negro Conyers accorso fra i dimostranti nel tentativo di distoglierli dagli atti di “teppismo”. Non hanno esitato a rivendicare il ricorso alla violenza come l’unica arma dal cui impiego senza preconcetti moralistici i super sfruttati lavoratori negri possano attendere un rovesciamento della situazione nella quale da cent’anni marciscono, diversa nella forma ma forse ancor più dura nella sostanza di quella che gli schiavi del Sud avevano cercato (solo in parte riuscendovi) di scrollarsi dosso.

Sono le stesse voci che, poco dopo i fatti di Newark, lanciavano ai proletari negri la parola d’ordine dei rifiuto di vestire la casacca militare per andare a uccidere e farsi uccidere nel Vietnam, perché fossero difesi e, se possibile, rimpinguati i forzieri dei più arroganti padroni capitalistici del mondo.

Queste voci si sono levate, bisogna darne atto, dal partito che si fregia del titolo di Potere Nero e ai cui leader appartengono, ma non ne sono affatto i più significativi, Stokely Carmichael e, ultimo arrivato, Rap Brown, strani relitti di un “comitato di coordinazione degli studenti non violenti” convertitisi oggi alla dottrina della violenza.

Ora come alla gigantesca portata storica dell’elementare esplosione di collera dei proletari negri nulla tolgono le sue debolezze organiche sul piano politico, così il merito di essersi assunta la responsabilità di difenderla in nome della violenza armata nulla toglie a quanto v’è in questa ideologia di fumoso, contraddittorio, negativo, e perfino, sotto certi aspetti francamente reazionario – come è inevitabile nella devastazione mondiale prodotta dallo stalinismo, due volte assassino dell’Internazionale Comunista.

Come tutte le mistiche della violenza in sé e per sé, questa è un sacco in cui ognuno – quindi anche ogni esponente di classi e di dottrine diverse – può pescare ciò che gli piace di più e che gli conviene meglio.

Parlare di “rifiuto del sistema” non è dire nulla, finché non si precisa né il senso del “rifiuto”, né il concetto di “sistema”; come non significa nulla giurare nella “rivoluzione” finché non si sostanzia questa generica professione di fede dandole un contenuto, una direzione e un obiettivo di classe.

Schierandosi sulle posizioni di “Che” Guevara e di Castro, Carmichael non dà forse alla “rivoluzione” invocata il senso borghese di una lotta di liberazione nazionale? Predicare il rifiuto di servire in guerra contro i vietnamiti – che potrebbe significare un ritorno al concetto che il capitalismo si abbatte sul fronte interno, non «creando due, tre, quattro Vietnam» alla periferia – rischia di sboccare nell’invocazione individualistica e passiva dell’obiezione di coscienza, se non si traduce nella formula: trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, per l’abbattimento dello Stato borghese e l’instaurazione della dittatura proletaria!

Ma è la stessa insegna del Potere Nero che permette ai più diversi programmi di raccogliersi sotto un unico ombrello e impedisce a quelli che tuttavia partono dalla radice di un’interpretazione di classe del “problema negro” di svolgere tutte le conseguenze implicite nella propria iniziale denuncia.

Non a caso si è sentito, in nome appunto di quella insegna, parlare da alcuni dell’esigenza per i proletari super-sfruttati di pelle scura di organizzarsi in un partito indipendente dalla borghesia della stessa pelle – vilmente integratasi nella classe dominante e nel suo Stato – che contrapponga al belante pacifismo, democratismo e riformismo di quella l’impiego virilmente proclamato della violenza armata. Ma, ancora una volta, per rivendicare con altri metodi la carta straccia dei “diritti civili”, o per rovesciare il “sistema”?

Da altri si sente dire di creare una terza forza che si inserisca fra i due tradizionali partiti americani agendo come dinamico “gruppo di pressione” a favore e nell’interesse generale della popolazione negra. Ma ciò significherebbe ripiombare nell’ideologia piccolo-borghese, parlamentare e legalitaria, cancellando ogni linea di classe nel magma indistinto del popolo, o della razza.

O infine, ed è il peggio, rivendicare la famosa “spartizione” fra i negri e i bianchi, il raggruppamento delle due razze sotto l’autorità di due Stati, obiettivo tanto assurdo e irrealizzabile quanto reazionario perché distrugge la stessa radice sociale del problema e trasferisce sul piano di un conflitto fra Stati quella che dovrebbe essere la lotta spinta alle conseguenze estreme dello scontro armato, fra classi sociali.

Lo stesso Carmichael, proclamando alla conferenza della Organizzazione per la solidarietà latino-americana a Cuba, nello scorso agosto: «La rivoluzione cubana è anche la nostra», e plaudendo al grido di Castro: «La battaglia dei negri per l’affermazione dei loro diritti è paragonabile a quella condotta dai vietnamiti e a suo tempo, dai cubani», avvalora un indirizzo che si risolverebbe nel trapianto in America della guerriglia nazionale (contro... l’esercito, non contro la borghesia americana ed il suo Stato!), per obiettivi conciliabili col principio sancito dalla stessa costituzione statunitense della “resistenza all’oppressione”. Il fine ultimo non sarebbe già la distruzione del meccanismo generatore dell’estorsione di plusvalore dal sudore e dal sangue proletari, ma l’”equa” ripartizione del profitto (o meglio delle briciole del profitto nazionale e mondiale, giacché il capitalismo yankee estorce plusvalore ai proletari di tutto il mondo) fra le classi o, addirittura (come in Castro e Guevara), fra le nazioni, gli Stati, le “razze”.

Rinasce qui la mistica fumosa e controrivoluzionaria della violenza per la violenza, del Potere Negro privato di ogni fondamento storico e sociale, infine di un razzismo alla rovescia.

E ciò significa snaturare, violentare e capovolgere il senso di classe delle giornate di Detroit.

Ma abbiamo detto che un’interpretazione di classe esiste purtuttavia nel blocco indistinto e dietro la cortina fumogena del Potere Negro, e se ne può riconoscere la voce nelle parole e negli scritti di James Broggs.
Il concetto è qui che il proletariato negro in America è l’espressione spinta all’estremo dello sfruttamento capitalistico, «l’immagine delle contraddizioni che la società americana [solo americana?] non può risolvere né sul piano nazionale né su quello internazionale»: esso, il super-sfruttato per eccellenza, deve quindi levare la bandiera della rivoluzione sociale che gli operai bianchi hanno lasciata cadere; esso che non può aspettare per fare questa rivoluzione che gli operai bianchi, imbastarditi dal pacifismo dei loro falsi profeti, si decidano finalmente a muoversi.

Parole forti, ma che si autodistruggono, perché, da questa consapevolezza di rappresentare, in un certo senso, la classe proletaria “allo stato puro”, dovrebbe scaturire l’orgoglioso proclama: «Noi, in quanto vittime dello sfruttamento più indegno ad opera del Capitale leviamo la bandiera della dittatura comunista in nome di tutti gli sfruttati, qualunque sia il colore della loro pelle».

Quando Broggs dice: «Ieri il concetto di potere operaio esprimeva la forza sociale rivoluzionaria della classe operaia organizzata entro il processo della produzione capitalistica. Oggi il concetto di potere nero esprime la nuova forza sociale rivoluzionaria della popolazione negra (...) una forza sociale rivoluzionaria che deve lottare contro gli operai e i ceti medi che beneficiano del sistema fondato sulla oppressione e sullo sfruttamento dei negri, e gli danno il loro appoggio», ha ragione in quanto si scaglia contro l’aristocrazia operaia e alle vili mezze classi.

Ma quando ne deduce: «Aspettarsi che la lotta per il potere negro comprenda gli operai bianchi (tutti, anche i super sfruttati, i manovali, i diseredati di mille provenienze?) nella lotta negra significa aspettarsi che la rivoluzione accolga il nemico nel proprio campo», egli trasforma quella che potrebbe essere ed istintivamente è la punta avanzata di una rinascita rivoluzionaria classista nella retroguardia di un moto nazionale e razziale oscurantista.

Così come vi ricade quando, partendo dalla giusta constatazione che un’altissima percentuale di cittadini negri degli Stati Uniti è spedita a svenarsi e ad uccidere altri proletari nel Vietnam, non si sogna di levare il grido: Compagni in casacca militare, bianchi come noi siamo neri, seguiteci nella rivolta contro il comune nemico, l’imperialismo capitalistico! Fraternizziamo insieme con coloro che ci si obbliga a considerare nemici!

Per amara che sia, la constatazione va fatta: non nell’azione pratica, ma nell’indirizzo politico e nella sua traduzione in dottrina e programma, neppure dal seno dell’eroico proletariato negro si è levata – ma è colpa nostra, di noi militanti degli orgogliosi paesi capitalistici avanzati – la parola che sola può spalancare le porte dell’avvenire: Proletari di tutto il mondo, di tutte le razze, di tutti i paesi, unitevi per l’abbattimento del regime capitalistico e per l’instaurazione della vostra dittatura!

Non potere negro, ma potere proletario.

Così, una volta di più, la necessità della teoria rivoluzionaria marxista e del partito di classe, suo portatore e suo organo di battaglia, in America – e dire America è dire il mondo – è posta con drammatica urgenza dalla grande luce e dalle terribili ombre dei fatti di Newark e di Detroit.

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