DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Qualunque sviluppo sia destinata ad avere l’eroica rivolta dei proletari negri in America (noi scriviamo il 27 luglio, e la tipografia sta per iniziare la chiusura estiva), essa segna una svolta nella storia degli sfruttati di colore che, mentre riempie di entusiasmo i rivoluzionari, deve essere di vigoroso incitamento, di salutare frustata, a tutti gli schiavi del capitale, in primo longo a quelli in pelle bianca, in tutti i paesi del mondo.

Tra le urla di sdegno dei benpensanti – non ultimi quei “progressisti” borghesi ai quali non pareva vero di plaudire alle innocue e pacifiche marce per la pace o per i “diritti civili” e che ora strillano alla “illegalità” e agli “orrori” di una rivolta aperta tendente a scavalcare ogni confine – essa parla un linguaggio che, con sgomento, gli stessi organi della classe sfruttatrice sono costretti a registrare e, loro malgrado, a trasmettere.

Non è più la silenziosa e quasi implorante richiesta di “diritti” formali, di eguaglianze giurifiche: è l’esplosione di collera di chi ha capito per lunga esperienza che legge e diritto sono strumenti della classe che domina e sfrutta, non armi della classe sfruttata; che la eguaglianza è una beffa di fronte alla realtà della diseguaglianza economica e sociale, della disoccupazione, dei bassi salari, del ritmo di lavoro frenetico a cui sono costretti tutti gli operai, ma in primo luogo i negri; che, di fronte a ciò, preci e petizioni non contano nulla, come non contavano nulla di fronte ai colpi di frusta dei negrieri al tempo in cui gli uomini di colore non erano liberi di vendere la propria forza-lavoro a qualunque padrone.

Non è più l’occasionale sfuriata di studenti in una cittadina universitaria del Sud americano, “patriarcale” e “arretrata”; è la fiammata d’ira di proletari stipati nella più grande e moderna città industriale del Nord, l’orgoglio dell’industria automobilistica americana.

Non è più un episodio isolato: è un incendio che si propaga non solo da una città all’altra, ma, cosa ben più importante, da proletari negri a proletari bianchi solidarizzanti con essi. È una pagina di guerra di classe, orgogliosa quanto violenta, spavalda quanto implacabile. È il segno premonitore di quello che avverrà il giorno in cui i proletari, indipendentemente dal colore della loro pelle, insorgeranno a spezzare, non con la preghiera ma con la forza, le proprie catene nelle cittadelle dorate del “progresso capitalista”.

I borghesi hanno subito gridato allo scandalo, agli orrori del saccheggio, degli incendi, delle sparatorie. Ma è questo lo scandalo? o non è invece il martirio al quale i salariati negri rifugiatisi nel civilissimo Nord sono sottoposti da un secolo, e che li condanna a salari inferiori della metà a quelli dei lavoratori bianchi, e li espone inermi a una disoccupazione ricorrente? È questo l’orrore, o è il ghetto nel quale la cristianissima società borghese rinchiude i suoi schiavi liberati nelle grandi metropoli industriali? Ed è violenza “irresponsabile” quella dei proletari negri che si ribellano, mentre sarebbe violenza legittima quella dei padroni bianchi che li taglieggiano? Per noi quella violenza anonima è santa come fu quella degli schiavi romani, come fu quella dei sanculotti francesi, come fu quella degli operai e mugik russi.

Urlino pure i “progressisti” alla Luther King o Bob Kennedy che così si distruggono i frutti di un lavoro paziente di riforma. I proletari negri NON POSSONO PIÙ, se anche lo volessero, avere pazienza; cent’anni di riforma non hanno arrecato loro nemmeno la millesima parte di ciò – ed era poco – che, proprio un secolo fa, un’autentica guerra guerreggiata, la guerra civile fra Nord e Sud, riuscì a strappare non con discorsi o petizioni ma con il linguaggio delle armi. Quelle conquiste, allora importanti, hanno mostrato in un lungo calvario la propria insufficienza, provando nello stesso tempo come la democrazia rappresenti per gli sfruttati soltanto una lustra: non si può superarle – annullandole in superiori conquiste – se non con un nuovo turno, diverso perché di classe (e di classe proletaria), di guerra civile.

È il linguaggio questo che parlano i proletari negri ai loro dominanti. Ma lo parlano anche ai loro fratelli proletari non di colore, perché ricordino che uno è il nemico, e che da esso ci si libera solo spezzando il giogo che pesa sul collo di tutti gli sfruttati; perché si ridestino alla coscienza che i proletari negri si libereranno veramente nella sola misura in cui, uniti ad essi, si libereranno i proletari di ogni altra razza, strappando dalle torve mani di un padrone, che è lo stesso per tutti, gli strumenti del suo dittatoriale potere, oggi protetto dai paracadutisti sguinzagliati ad arrestare, ferire ed uccidere, in nome della proprietà e del Capitale, chi ha l’orribile colpa di non voler morire di fame!

Contro i proletari negri in rivolta si scagliano oggi tutti i difensori, laici ed ecclesiastici, dell’ordine. È naturale: questi hanno qualcosa, e molto, da perdere; i primi non hanno da perdere che le loro catene. Vada quindi ad essi la solidarietà dei rivoluzionari comunisti di ogni paese, fieri di battersi contro il nemico comune di tutti gli sfruttati al grido che non ha tramonto; Proletari di tutto il mondo (quindi di tutti i paesi e di tutte le razze), unitevi!

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