DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Governo rivoluzionario ed esercito rivoluzionario

 

Da quanto detto fin qui, risulta chiaro che, alla base del la crisi della Convenzione ed al pratico esautoramento di ogni suo potere, c'è la questione militare.

II pericolo numero uno che incombe, specie dopo il tradimento di Dumouriez, consumato sulle orme di LaFayette, e la presenza degli eserciti nemici sul suolo della Francia degli eserciti nemici che minacciano Parigi, cuore e cervello della rivoluzione. Non meno sentite sono le pugnalate alla schiena che vibra la Vandea, alle quali si aggiungono quelle della rivolta "federalista" di cui parleremo più avanti. Che fare? Nessuna pace era possibile: dati i rapporti di forze che si erano venuti a creare, i coalizzati erano decisi a riportare in Francia l'antico regime e la monarchia. Ci si doveva rassegnare a veder annullate le conquiste rivoluzionarie conseguite in quattro anni di sofferenze, di fame e di lotte sanguinose? Ancora una volta la risposta venne dai sanculotti, dall'esterno della Convenzione: "libertà o morte" furono le parole d'ordine con le quali essi imposero la guerra ad oltranza contro i nemici interni ed esterni. Era dunque nelle loro mani il vero e reale potere nei momenti critici e più disperati. E’ la loro forza che trascinerà gli stessi Giacobini a stabilire quella Dittatura del Comitato di Salute Pubblica, vero governo rivoluzionario, che salverà la Francia; e la stessa politica che tale governo metterà in pratica non sarà che il programma degli Arrabbiati applicato dall’alto.

Si ascolti ad esempio cosa disse un operaio tappezziere, inviato dal sobborgo di S. Antonio alla sbarra dell’Assemblea, il I° maggio, dopo che già in febbraio, 48 sezioni parigine avevano chiesto la calmierizzazione delle derrate alimentari: “Da molto tempo voi promettete un maximum generale di tutte le derrate necessarie alla vita ... voi promette sempre e non mantenete mai. La rivoluzione ha finora pesato sulle spalle delle classi povere. Ecco i nostri mezzi per salvare la cosa pubblica ... Se voi non li adottate, vi dichiariamo ... che siamo in stato d’insurrezione. Diecimila uomini sono alla porta di questa sala”. Il 4 maggio la Convenzione vota il primo decreto sul maximum, o calmiere dei grani. L’intervento dello Stato nel corpo dell’economia, richiesto dai sanculotti, non aveva solo il compito di sfamare chi, come loro, mancava di tutto (si tenga presente che la legge Le Chapelier contro lo sciopero e le coalizioni degli operai era e resterà sempre in vigore), ma era al tempo stesso il solo dovere che restava da compiere per provvedere alle necessità dell’esercito rivoluzionario, di cui anche i sanculotti ebbero il merito di reclamare l’organizzazione al duplice scopo di far assorbire la disoccupazione e di fermare l’avanzata dei nemici e di sconfiggerli.

Se il Comitato di Salute Pubblica sorse quando ancora alla Convenzione dominavano i Girondini (che naturalmente gridarono subito allo scandalo ed alla dittatura che uccideva la libertà, la democrazia, ecc.), l’armata rivoluzionaria, in via di principio almeno, nacque lo stesso giorno della caduta della Gironda e del trionfo della Montagna, cioè il 2 giugno. Ma la sconfitta parlamentare dei Girondini, segnata da questa data, non coincise con l’annientamento della forza politica che essi conservavano nel paese ed alla quale si aggiunge quella dei monarchici e di altri controrivoluzionari, che approfittarono (ed approfitteranno sempre in futuro) dei contrasti interni dei rappresentanti del Terzo Stato per indebolire il potere centrale.

Di qui la rivolta di molte province contro Parigi, che divenne particolarmente violenta e pericolosa nel sud-est, dove i monarchici riuscirono perfino a mettere nelle mani degli Inglesi le città di Marsiglia, Tolone e Lione. Questa rivolta, detta “federalista”, in quanto si metteva contro l’unità e l’indivisibilità della repubblica, si aggiunse come nuova spinta a reclamare l’intervento dispotico e dittatoriale di un governo forte, di una volontà unica, decisa ed intransigente. La rivoluzione aveva inferto un colpo mortale al vecchio Stato monarchico e feudale, ma le istituzioni dello Stato borghese sorte sulle sue rovine mancavano ancora di quel cemento unitario e centralizzatore, capace di imporre e far rispettare una sola volontà politica, com’era necessario per assicurare la definitiva vittoria della nuova classe e del suo regime economico, Pretendere la libertà economica invocata da affaristi e speculatori insofferenti delle museruole sanculotte (controlli, calmieri e requisizioni), in una tale situazione di insicurezza, significava votare la rivoluzione alla sconfitta. L’esigenza di un governo forte fu meglio intesa dalla frazione giacobina, sotto lo stimolo proveniente dal basso, dai sanculotti (che naturalmente pensavano di partecipare a tale dittatura rivoluzionaria e rimanervi per poter effettuare riforme più coraggiose), ai quali appunto essa si unì per sconfiggere la maggioranza moderata girondina che aveva già da tempo smarrito il “genio della rivoluzione”. E’ così provato, ancora una volta, ciò che abbiamo affermato all’inizio di questo lavoro: la mancanza di coraggio e di cosciente decisione della borghesia come classe di fronte all’iniziativa che invece mostrarono costantemente i sanculotti. All’organizzazione della dittatura del Comitato di Salute Pubblica non si pervenne certo in modo facile e liscio (il decreto relativo fu emesso solo il 4/12/1793) Nel tempo stesso che si affrontavano nuove lotte, si legiferava e si provvedeva ad organizzare la vita economica ed a sfamare il popolo. Dei provvedimenti più importanti e più discussi accenneremo a due soli: quello riguardante la leva in massa, in base al quale ogni francese doveva considerarsi in stato di permanente requisizione e che fu varato il 23/8/’93, e quello relativo all’introduzione del calmiere generale dei prezzi - il famoso maximum général - decretato il 29/9/’93, ma solo dopo che i sanculotti parigini avevano accerchiata l’Assemblea chiedendo pane e forzando la Comune ad esigere la generalizzazione del calmiere.

Quest’ultimo, che era sempre stato sollecitato dai sanculotti e sempre osteggiato dai sostenitori dell’economia liberale, divenne una necessità ed uno strumento imprenscindibile per frenare ulteriori aumenti del costo della vita in seguito alle maggiori spese militari che la leva di massa comportava. Come si vede, politica economica-sociale e politica militare divenivano interdipendenti e , se è certo vero che i sanculotti ponevano l’accento più sulla prima, la loro azione rivendicativa usciva dai ristretti limiti dell’interesse corporativo per situarsi nella sfera più generale della politica dello Stato, ed in difesa di quelle strutture economiche che i liberisti vedevano minacciate dal dirigismo statale.

Il 10 ottobre, la Convenzione, dichiarando il comitato “governo rivoluzionario” fino alla pace, gli dava ufficialmente via libera per l’azione da compiere. Da allora, le epurazioni, gli arresti,  le condanne e le esecuzioni decise dal tribunale rivoluzionario, si intensificarono a ritmo accelerato. Il 16 ottobre, Maria Antonietta viene ghigliottinata e, il giorno 31, 21 dei 29 deputati girondini arrestati il 2 giugno, subiscono la stessa sorte: il Terrore entra in piena azione. Nel contempo i sanculotti si mobilitano in massa, e sotto la direzione di tecnici e scienziati di ogni branca, organizzano la produzione bellica in vecchie e nuove fabbriche di armi e munizioni, di fonderie, ecc.. Ciò avvenne tanto a Parigi quanto in provincia: per la prima volta si realizza quella che negli Stati moderni si chiama mobilitazione della nazione per la guerra. Lo stesso reclutamento veniva fatto sotto l’impulso dei sanculotti e sotto la direzione dei comitati che presiedevano le Comuni rivoluzionarie. Col sistema poi delle requisizioni si provvedeva all’alimentazione dei soldati, nonché al vestiario ed  all’alloggio. Anche i servizi di carriaggio e trasporto dell’esercito, che sotto la monarchia venivano appaltati, vennero infine requisiti.

Spesso l’iniziativa sanculotta precedeva le disposizioni dall’alto. Lo spettacolo della Francia di allora era veramente singolare: da una parte i vandeani ed altri oppositori, dall’altro tutto un fervore di opere in difesa della rivoluzione, per la sua difesa ed il suo trionfo. L’esercito ancora in fase di organizzazione, ed il Terrore, fecero subito fronte alla situazione. La rivolta federalista venne repressa: a Lione, occupata in ottobre, una formidabile repressione annientò ogni resistenza; all’assedio di Tolone, che cadde in dicembre, fece la sua prima comparsa il Bonaparte. Azioni militari ed il Terrore furono pure impiegati per dare un deciso colpo alla Vandea, che però sarà schiacciata definitivamente solo nella primavera del 1794. Contro gli eserciti coalizzati rifulsero ancor più i meriti dell’esercito che si andava rinnovando dalle fondamenta: gli Inglesi sono battuti a Dunkerque, gli Austriaci a Wattignies e in Renania: insomma gli invasori vengono ricacciati dal suolo francese e si torna a liberare più liberamente. Il primo e più importante dei caratteri rivoluzionari dell’esercito è di ordine materiale - la sua potenza numerica: 600.000 uomini nel luglio del 1793, 850.000 nella primavera del 1794 ...

Da essi derivarono altri caratteri oggettivi del tutto nuovi, come ad esempio la democraticità della sua composizione sociale, la quale produceva a sua volta – e nel fuoco stesso della lotta – quadri direttivi della lotta e, fra essi, veri e propri strateghi. La stessa organizzazione dell’esercito, le sue unità tattiche e strategiche, ricevevano la loro impronta fondamentale dalla realtà delle operazioni belliche e nel loro stesso corso. Il lievito rivoluzionario di cui era pervaso il soldato, e la spinta propulsiva che gli derivava da un governo tutto teso verso la vittoria, insieme a qualche condanna di generale sospetto o semplicemente indeciso ed ai controlli dei commissari politici, completavano la necessaria opera di amalgama e disciplinamento dei vari ed eterogenei elementi confluiti dal vecchio esercito regio, dalla Guardia Nazionale, dal volontariato e dalla coscrizione obbligatoria.

Questo insieme di caratteri originali rispetto al passato conferivano all'esercito francese una notevole ed indiscussa superiorità sugli eserciti feudali dei nemici.

II nuovo concetto strategico che rivoluziono l'arte militare venne suggerito a Carnot, che per primo l'applicò, dalla realtà oggettiva. La necessità di vettovagliare le truppe nei luoghi delle operazioni e  ad opera delle popolazioni ivi re­sidenti, da una parte consentì una maggior mobilità dell'esercito (perché fu possibile alleggerire carriaggio, viveri ed equipaggiamento del soldato), e dall'altra la impose (per cercare nuove fonti di alimentazione). La maggior mobilità permise a sua volta di riunire forze numericamente superiori a quelle del nemico sul luogo della battaglia. Massività e mobilità furono appunto i due caratteri principali dell'esercito rivoluzionario, e da essi doveva risultare una strategia tipicamente offensiva, opposta a quella cosiddetta di cordone impiegata dai nemici, e che, nell'intento di difendere o attaccare tutto e in egual modo e con la stessa intensità, portava ad un nocivo sparpagliamento delle forze. Lo stesso criterio strategico venne in fondo messo da Napoleone a base della sua arte militare in entrambe le forme tipiche in cui essa si articolava: quella che tendeva a tagliare il nemico (quando si presentava in un'unica massa) dalle sue basi di rifornimento, impegnandolo su un fronte rovesciato, e a quella che invece tendeva a battere una delle formazioni nemiche quando queste si presentavano divise.

Grazie all'opera di questi suoi strumenti - che, ripetiamo fino alla noia, furono voluti e imposti soprattutto dalle masse popolari e dal proletariato slanciato verso la conquista delle sue finalità massime, sebbene confusamente intuite - la grande rivoluzione della borghesia e salva. La vittoria militare di Fleurus del 26 giugno 1794, riapre la via alla riconquista del Belgio, alla penetrazione in Olanda ed alla dissoluzione della coalizione. Così la rivoluzione ha raggiunto il suo obbiettivo più importante: quello della costituzione di una forza su cui contare contro ogni futura minaccia dall'esterno, una volta domata la controrivoluzione interna.

 

 

II trionfo della borghesia - La nuova lotta di classe - Ancora sulla questione del potere

 

Con il comitato di Salute Pubblica la rivoluzione raggiunse il suo punto culminante. A differenza delle due precedenti rivoluzioni borghesi (la Riforma e la Rivoluzione inglese), la rivoluzione francese "venne combattuta esclusivamente sul terreno politico; essa fu pure la prima rivoluzione in cui si combatté realmente sino alla distruzione di una delle parti in guerra, l'aristocrazia, e fino al completo trionfo della altra, la borghesia" (Engels: II socialismo dall'Utopia alla scienza). Ma il raggiungimento di tale traguardo segnerà pu­re la fine della temporanea alleanza fra Giacobini e Sanculotti, e la fine del potere degli stessi giacobini. Se infatti è vero che, nella Nuova dichiarazione dei Diritti che accompagnava l'ultrademocratica Costituzione del '93 (peraltro mai applicata), Robespierre volle che sparisse l'affermazione esplicita del carattere sacro del diritto di proprietà, tale diritto rimase comunque in piedi. Renderlo nullo come rivendicava la punta proletaria e comunista dei sanculotti, Robespierre non se lo sognava neppure. E nemmeno intendeva mortificarlo ulteriormente (si ricordi la tassa fortemente progressiva sui ricchi). II l8 marzo 1793, la Convenzione decretò la pena di morte contro chiunque proponesse "delle leggi agrarie o qualunque altra misura sovversiva delle proprietà territoriali, industriali e commerciali". L'alleanza dei Giacobini coi sanculotti era stata puramente strumentale in quanto doveva servire a sconfiggere definitivamente la controrivoluzione. Assolto tale compile, i Giacobini non potevano puntare verso le loro mete piccolo-borghesi di democrazia politica ed economica senza annientare sia l'opposizione di sinistra che quella di destra, e lo fecero liquidando prima gli hebertisti, accusati di provocare la fame attentando alle libertà economiche e favorendo indirettamente (nientemeno!!.) la reazione interna ed esterna: il 4 germinale (24/3/1794) Hebert veniva ghigliottinato. Sedici giorni dopo, anche la testa di Danton rotolava per terra, e con essa cadde pure la opposizione di destra di cui il centrista Robespierre si era servito per abbattere la sinistra.

Più espressivi del carattere di classe borghese della dittatura giacobina, che la liquidazione di queste forze politiche e di questi personaggi, sono tuttavia i provvedimenti che all’iniziativa popolare dal basso sostituiscono l'intervento dispotico borghese dall'alto. II centro vitale del sanculottismo e soprattutto della sua ala proletaria erano state le sezioni: esse vengono a poco a poco esautorate. Le "armate rivoluzionarie" a carattere più o meno locale, avevano servito come arma per l'applicazione effettiva delle leggi con­tro l'accaparramento e per il rispetto del calmiere dei viveri contro l'avidità di grossi contadini e commercianti: ora esse vengono incorporate nell'esercito regolare (perché, co­me scriveva Lindet, "potevamo forse abbandonare la Francia ad un'armata rivoluzionaria che, simile ad un'orda di tartari, avrebbe riunito nei suoi accampamenti tutte le sussistenze e tutte le proprietà mobiliari della Repubblica?"), oppure relegate a compiti subalterni. Le Comuni ed i comitati locali vengono sottoposti al controllo degli "agenti in missione" rappresentanti diretti del governo centrale, i futuri prefetti napoleonici. Gli stessi sanculotti operanti nelle amministrazioni locali vengono trasformati in esecutori della politica del Comitato di Salute pubblica.

La borghesia aveva capito che la spinta popolare e proletaria dal basso, doveva essere disciplinata perché non riapparisse con essa lo spettro di un attentato alla proprietà e all’ordine costituito, - non aveva minacciosamente proclamato un congresso delle società popolari del Mezzogiorno: "Tutte le volte che il corpo legislativo dichiarerà che la Repubblica, in pericolo imminente, esige misure eccezionali di salu­te pubblica in materia di sussistenza, allora, e durante questo periodo di crisi, il suolo produttivo e l'industria produttiva della Francia non saranno più considerati che come immense manifatture nazionali, di cui la nazione e usufruttuaria e di cui i proprietari non sono che degli agenti. Conseguentemente a questo principio, la nazione avrà tutti i prodotti a sua disposizione e si incaricherà di distribuire egualmente a tutti gli individui le cose necessarie alla vita"? Infine, bisognava togliere agli "arbitrii" della "plebaglia" l'esercizio della giustizia locale - il terrore periferico - e mettere fine alla campagna di scristianizzazione (che minaccia va di far piazza pulita degli ultimi residui di chiesa costituita) sostituendo al culto tradizionale il culto di Stato della Ragione o dell'Ente Supremo. Cosi, i Giacobini, dopo aver sfruttato l'iniziativa popolare, la mettevano al servizio della centralizzazione borghese, del rafforzamento delle vittorie rivoluzionarie e dello status quo, per impedire che "debordasse" dai "giusti" confini. Rimasti soli al potere, i Giacobini avrebbero potuto "dittare" ancora per molto tempo? Evidentemente no, e per la semplice ragione che il loro programma piccolo-borghese era irrealizzabile. Pretendere di intaccare, senza l'aiuto del proletariato rivoluzionario. Le forze di quel denaro per il cui trionfo la rivoluzione era stata fatta, e che gli stessi Giacobini, meglio del grandi borghesi, avevano servito fino a condurla a termine, era pura illusione.

Il terrore rosso, al punto in cui erano giunte le cose, non era più una necessità assoluta; perciò la caduta di Robespier­re era scontata: il 10 Termidoro (27/7/1794) salì il patibolo anche lui.

Ma ciò che si designa col nome di reazione termidoriana non va considerate come una controrivoluzione feudale e monarchica. Si tratta invece di un ritorno alla realtà degli interessi di classe della grande borghesia commerciale, industria le e rurale, che ora vuole godere i frutti della rivoluzione da essa iniziata e che altre classi avevano portato a termine. Si tratterà però essenzialmente di frutti più economici che politici. Era infatti del tutto illusorio pensare che, in condizioni ancora obbiettivamente difficili, i rappresentanti di tali ceti potessero riuscire a governare entro i limiti del liberalismo sancito dalla Costituzione del 1795, ancor più antidemocratica di quella del 1791.

La politica inaugurata dai termidoriani e continuata poi dal Direttorio, tesa appunto a riprivatizzare quel poco che era stato nazionalizzato (fabbriche di armi, forniture e trasporti dell’esercito, ecc.) e ad eliminare i controlli sugli accaparramenti di derrate, sugli agiotatori e speculatori vari, doveva presto mostrarsi fallimentare a causa di nuove crisi e di nuove lotte in seno ai gruppi della borghesia, di cui cercarono più volte di approfittare i nostalgici realisti (esempio, l'insurrezione monarchica del 5/10/1795). Alla base di questa instabilità del potere     stava essenzialmente una ragione nuova. Dopo un periodo di demoralizzazione, la classe operaia, alla testa di tutti gli altri ceti popolari, aveva ripreso la sua lotta. E questa lotta non aveva più i vecchi nemici feudali da combattere. I nuovi padroni sfruttatori, quelli che hanno il potere nelle mani, sono ora i borghesi, e perciò la lotta di classe che si combatte è quella essenzialmente moderna: fra proletariato e borghesia. Per quest'ultima la "Cospirazione degli Uguali  o di Babeuf" del 1796, di cui parleremo fra breve, sarà un campanello di allarme.

La borghesia si era dunque cacciata in una situazione veramente difficile e paradossale. Per beneficiare dei frutti della rivoluzione, aveva dovuto abbattere la dittatura giacobina. Ora si accorge che la libertà economica da essa pretesa per meglio sfruttare il lavoro altrui, non la può avere che alla condizione di stabilire un governo forte. E per questa bisogna, non c'è che una sola strada aperta: quella del­la dittatura militare. Ad essa dunque la borghesia è costretta ad affidare l'esercizio del potere in nome dei suoi interessi di classe. Così, governo politico ed esercito, questi due aspetti del potere si fondono ancor più intimamente e, dopo il colpo di stato del 18 Brumaio (9/11/1799) si accentrano nelle mani di Napoleone Bonaparte, il quale, sull'onda delle sue vittorie, potrà consolidarlo e trasformarlo in Impero.

Come già un tempo, la monarchia assoluta aveva occupato una posizione di arbitro fra nobiltà e borghesia, così il nuovo monarca assoluto, l'imperatore Napoleone I, finirà per svolgere lo stesso ruolo in una situazione di quasi-equilibrio tra le nuove classi in lotta: la borghesia ed il prole­tariato alla testa delle forze popolari.

 

 

La "Congiura degli Uguali"

 

Abbiamo già accennato alle disastrose condizioni economiche si erano prodotte con l'avvento della reazione termidoriana e del Direttorio. La liberalizzazione dell'economia, anzichè far riapparire più abbondantemente le merci, come avevano sostenuto i portavoce degli affaristi, le fece rincarare assai di più, aumentando la fame dei lavoratori e le ricchezze dei già ricchi. Ma la sensazione del vuoto allo stomaco trasse nuovamente il popolo dallo stato di passività e di abbandono in cui era caduto dopo la tragedia di Termidoro dello Anno II. La punta più avanzata dei sanculotti, costituita da veri proletari, si risveglia e riprende la lotta aperta contro lo Stato dei nuovi padroni, i borghesi. La lotta, in un primo momento confusa e disordinata, man mano che procede chiarisce sempre più i propri obbiettivi di classe.

Già il 1° aprile 1795 (germinale), quando la razione del pane distribuito era stata ridotta della metà, una folla di digiuni aveva invaso la sala della Convenzione termidoriana: sembrava di essere tornati all'inverno del 1793, al tempo degli Arrabbiati; tutto si era ripetuto, quasi allo stesso modo. Era la rottura fra l'avanguardia proletaria ed il governo borghese. Ma il tentativo insurrezionale fallì. Esito ancora più infelice ebbe il successivo tentativo di pratile dell'Anno III (12/6/1795): gli insorti legiferarono bensì nella Convenzione, ma non pensarono a mettere le mani sul governo. Invano un negro, Delorme, diede l'ordine di far fuoco coi cannoni puntati sulle Tuileries. I Termidoriani si mostrarono concilianti verso la sedizione e promisero di applicare la Costituzione del 1793. Non era che un enorme inganno per far rientrare gli insorti nei loro sobborghi e per scatenare subito dopo il Terrore Bianco con l'aiuto della gioventù dorata, cioè dei figli dei ricchi borghesi. La repressione fu feroce: 10.000 sanculotti furono arrestati ed i loro umili capi morirono sul patibolo. Fra essi il negro Delorme: per la prima volta il sangue di un uomo di colore si mischiava a quello dei suoi fratelli bianchi.

Ma la lotta non è mai sterile. Dopo di aver lottato per abbattere il feudalesimo e per aiutare la borghesia rivoluzionaria a difenderla contro la reazione interna ed esterna, i proletari dirigevano ora i loro colpi contro la borghesia al potere. Più che mai, questi ultimi moti partirono da posizioni autonome di classe; più che mai l'esigenza di un programma fu avvertita come il più importante elemento della forza fisica che permette di vincere. La sua elaborazione prende dunque posto nella questione militare.

Infatti, il comunismo di Babeuf maturo appunto in queste lotte ardenti e prese corpo nelle prigioni che pre e post termidoriani

 

 

 

 

 

 

 

termidoriani  gli inflissero. Sulla base di una critica radacale dei risultati della rivoluzione francese, si delinearono le prime vere rivendicazioni di classe del proletariato: "la rivoluzione francese non è se non il preludio di un'altra rivoluzione, ben più solenne e che sarà l'ultima". Si capì che la rivoluzione aveva portato al trionfo la borghesia e che una nuova rivoluzione, l'ultima, doveva succedere ad essa: la rivoluzione proletaria. E quel che più sorprende in Babeuf è che egli giunse a capire perfettamente l'esigenza della dittatura proletaria come necessario periodo di transizione per giungere alla meta della "comunione dei beni e del lavoro". II legame che egli stabilì con la classe proletaria gli permise di abbandonare il primitivo terreno dell'Utopia, e lo trasformò in vero militante di partito. "II tribuno del popolo", il giornale di Babeuf, divenne col tempo stesso più battagliero, intransigente e classista, e negli ultimi numeri anticipò alcune conclusioni cui perverrà, cinquant'anni dopo, il "Manifesto dei Comunisti".

Le leggi sul maximum dei prezzi e sull'approvvigionamento avevano trovato il loro limite nella proprietà privata: "i frutti devono essere di tutti, la terra di nessuno". L'economia e la società borghese si basano sulla concorrenza, ma "la concorrenza, invece di mirare alla perfezione, sommerge i prodotti coscienziosi sotto un cumulo di prodotti ingannevoli, immaginati per abbagliare il pubblico... essa si limita a dare la vittoria a colui che ha più denaro e, dopo la lotta, non porta ad altro che al monopolio nelle mani del vincitore", mentre nella società futura "tutto sarà appropriato e proporzionato ai bisogni presenti ed ai bisogni previsti secondo l'accrescimento  probabile e facilmente prevedibile della comunità. La scienza dell'amministrazione, che 1'attrito di tanti interessi contrari rende così spinosa, si ridurrà, mediante la comunione dei beni, ad un calcolo che non è al di sopra delle capacità dei nostri più inetti mercanti ... Le ambizioni personali saranno necessariamente limitate quando avremo conosciuto il segreto di incatenare il destino, quando non avremo più inquietudini né sul nostro avvenire ad ogni epoca della nostra vita, né su quello di tutti coloro ai quali dobbiamo la luce del giorno".

Molto è stato scritto sull'opera di questo grande rivoluzionario, in primo luogo da Filippo Buonarroti che, con lui, organizzò la Cospirazione degli Uguali (questo è pure il titolo dell'opera che scrisse nel 1828) e con lui fu arrestato il 10/5/1796. Non è questa la sede per una critica alla letteratura esistente in merito. Basti qui dire che, lucidissimo nell'anticipare la dottrina comunista, Babeuf esitò - ma non poté non esitare – di fronte al passo supremo di un’azione del solo proletariato parigino. Come scrisse il Buonarroti, "il direttorio segreto arretrò di fronte all'idea di far nominare dagli insorti parigini l'autorità provvisoria alla quale bisognava necessariamente affidare il governo della nazione"; temendo di isolarsi dalle masse cerco un'alleanza con i montagnardi illudendosi che anch'essi aspirassero alla "distribuzione uguale dei carichi e dei godimenti", e questa tattica di alleanze con gli altri oppositori del Direttorio (in gran parte elementi giacobini del Club del Pantheon, poi chiuso dal Bonaparte il 28/2/1799) non poteva non portarlo ad accettare un oneroso compromesso: un programma robespierrista di ritorno alla Costituzione del 1793 con la sua "assemblea romana".

Egli giustificò questo che fu certo un errore con la necessità di legarsi alle grandi masse: "L'hebertismo non è che a Parigi e in una piccola cerchia di uomini... II robespierrismo è in tutta la Francia". Noi sappiamo invece che l'insegnamento della rivoluzione era stato il contrario: e Robespierre che per legarsi alle masse rivoluzionarie aveva accettato il programma dei partiti in cui meglio si esprimevano i loro interessi, cioè gli hebertisti e gli Arrabbiati.

Questo errore, che sarà purtroppo ancora tragicamente ripetuto nel futuro, anziché legare Ie masse al partito, le consegnerà ai suoi alleati piccolo-borghesi e borghesi. Con ciò non si vuole certo affermare che un programma diverso avrebbe senz'altro portato alla vittoria e stabilire o quella che chiamiamo dittatura democratica rivoluzionaria o perfino una dittatura proletaria e socialista: mancavano per questo le condizioni materiali favorevoli, "condizioni le quali non possono essere che il prodotto dell'epoca borghese" (Marx). Diciamo subito che, perdendo la propria autonomia nel compromesso, il partito purtroppo aggiunge una ragione in più per essere sconfitto in partenza. Carnot, che aveva già liquida­to Robespierre, agì con fredda determinazione. Servendosi di una spia che era riuscito ad introdurre fra gli Eguali, egli poté arrestare Babeuf, Buonarroti, Germain, Darthe ed altri. capi, e dar mano ad una nuova e violenta repressione di tutte Ie forze democratiche e di sinistra. Con l'odioso processo di Vendome, Babeuf è condannato a morte il 27 maggio 1796 e, dopo pochi giorni, sale eroicamente il patibolo. Ma - è stato scritto - "la lama della ghigliottina ha tagliato, a Vendome, qualcosa di più della sua testa: ha dato espressione drammatica al taglio violento di una classe dai ceti nei quali era ancora inglobata, e da una società nella quale continuava a vivere". Seppure la classe operaia non se ne rese subito conto, questo episodio cruciale "aveva fatto sbocciare l'idea comunista che Buonarroti, l'amico di Babeuf, reintrodusse in Francia dopo la rivoluzione del 1830" (Prefazione alla Critica dell'economia politica di Marx). Nel 1836, un gruppo di lavoratori tedeschi rifugiati a Parigi, la "Federazione dei Giusti” riprese il messaggio e lo trasmise allo avvenire.

La costituzione di un embrionale partito comunista durante la rivoluzione francese fu un fatto essenziale della stessa ed un prodotto dell'esercizio della violenza nel suo corso. Bisognerà attendere il 1848 perché il movimento spontaneo di costituzione del proletariato in classe e quindi in Partito sia teorizzato con la sintesi superiore dell'esperienza delle lotte in Francia, Inghilterra e Germania.

Sarà l'anno del Manifesto: l'anno della teoria e della prassi del proletariato rivoluzionario.

 

 

Partito Comunista Internazionale
(
il programma comunista, n. 2, 1964)

 

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