DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Riunione Generale di Partito. Nei giorni 29 e 30 ottobre, s’è tenuta a Milano l’annuale Riunione Generale, cui hanno partecipato per la prima volta anche i compagni della sezione tedesca. Sono stati due giorni d’intenso lavoro collettivo. Sabato, il lungo Rapporto Politico-Organizzativo, dopo aver disegnato la situazione generale in cui si trova a operare il Partito, ha riassunto l’attività teorica e pratica sviluppata nel corso dell’anno e ha indicato compiti e obiettivi futuri, specie per ciò che riguarda il lavoro con i simpatizzanti e quello (a tutt’oggi ancora embrionale, anche per motivi oggettivi) a contatto con la classe; a esso sono seguiti, oltre al rendiconto di cassa e a una breve relazione sulla situazione del sito di Partito, i rapporti dalle varie sezioni sul lavoro svolto e sui contatti in corso con elementi interessati: di particolare interesse, il programma di lavoro dei compagni tedeschi, che prevede una serie di incontri pubblici, di interventi a prossime manifestazioni e di pubblicazione di materiali e di un primo numero di Kommunistisches Programm, organo periodico in lingua tedesca. La domenica è stata quasi interamente occupata dal rapporto sul “Corso del capitalismo mondiale”, che ha ripreso e portato avanti il lavoro prodotto dal Partito fin dalla metà degli anni ’50 del ‘900, con particolare attenzione alle dinamiche sviluppatesi a partire dal secondo dopoguerra e, ovviamente, alle caratteristiche della crisi attuale del modo di produzione capitalistico: il rapporto verrà poi pubblicato nei prossimi numeri di questo giornale. Sono state quindi affrontate altre questioni di carattere organizzativo interno, in un’atmosfera d’intensa e serena collaborazione collettiva: la carne al fuoco è molta, ma la consapevolezza di aver bene lavorato ci spinge a rimboccarci le maniche con entusiasmo.

 

Milano. Le ultime due conferenze tenute nella sede di via dei Cinquecento sono state seguite da un pubblico piuttosto numeroso. Quella del 25 giugno scorso aveva come titolo "Il nemico è in casa nostra, ma ‘casa nostra’ è il mondo" e, sulla falsariga dell’editoriale del numero scorso di questo giornale, ha preso spunto dagli ultimi avvenimenti europei fra “crisi dei migranti”, Brexit, crescita dei movimenti populisti e nazionalisti, “union sacrée” contro il “terrore islamico”, evidenziando come il mito tutto borghese della pacifica e progressiva unione degli Stati europei sia una pia illusione: sin dal secondo dopoguerra il tentativo di unione politica europea è stato solo un accordo tra briganti imperialisti, necessario per la ricostruzione e per l’accumulazione post-guerra. Ma l’Europa del capitale è una “giungla di nazionalismi” e la crisi in atto non fa che acuire la competizione tra questi briganti: l’Euro è unità di conto e non una vera moneta, e la BCE non ha l’autorità per battere moneta. Questi fatti, oggi più che mai, mostrano l’inconsistenza politica dell’Ue e l’episodio Brexit è servito a dimostrare che “il re è nudo”. D’altra parte, se è vero che da questo quadro il grande assente è il proletariato, segnali incoraggianti, seppur ancora flebili, di una ripresa delle lotte sociali arrivano dalla lotta contro la legge sul lavoro in Francia e da movimenti analoghi in Belgio, oltre che dalla situazione sociale sempre più grave in Gran Bretagna e, allargando il quadro, dalle tensioni sociali sempre più gravi negli Stati Uniti – tensioni, abbiamo sottolineato, di classe e non di razza. Compito di noi comunisti, là dove è possibile, è essere presenti in queste lotte, rivendicando con estrema forza l’autonomia da Stato e padronato della nostra classe e la necessità del partito rivoluzionario, per il superamento di questa società sempre più fetente, rigettando ogni divisione del proletariato su base sia religiosa sia nazionalista, respingendo ogni ipotesi di compromesso di classe e contrapponendo a ogni politica di “union sacrée” la nostra prospettiva classista e internazionalista.

Ancor più partecipata è stata la conferenza tenuta l’1 di ottobre, con il titolo “Usa: lotte razziali o lotta di classe?”. Lo spunto sono stati i numerosi episodi di violenza e repressione poliziesca succedutisi negli ultimi mesi negli Stati Uniti contro la popolazione nera, che hanno mostrato come la situazione sociale statunitense sia più complessa e contraddittoria di come viene descritta dai media borghesi. Nonostante gli Usa, in quanto prima potenza imperialistica, abbiano più strumenti per contrastare la crisi, i suoi effetti si fanno sempre più sentire colpendo più duramente gli strati più deboli del proletariato (di colore o meno, immigrati, specie dal Centro e Sud America), che vivono e lavorano in condizioni disumane, concentrati in veri e propri ghetti ai margini delle città. Le manifestazioni di insofferenza e malessere, di istintiva rivolta, specie di quella parte del proletariato "più precario", sono destinate ad essere più frequenti e più violente. In quanto comunisti, noi non condanniamo queste azioni: anzi, poniamo la questione vitale dell’autodifesa, dell'organizzazione e radicalizzazione in senso anti-nazionale e anti-capitalista, di queste lotte e poniamo con particolare urgenza la necessità del partito rivoluzionario come unico organo in grado di unificare la classe proletaria. Con una digressione storica, a "volo d'uccello" ma efficace, si è trattato della questione "razziale" negli Usa, partendo dalla Guerra Civile del 1861-65, che ha trasformato gli schiavi in proletari puri, e passando alla critica delle forme di organizzazione tipicamente socialdemocratiche della seconda metà dell'800, funzionali e organiche al capitalismo rampante made in Usa, e al tentativo di un loro superamento attraverso l'esperienza "classista" interrazziale degli IWW, e delle prime forme di organizzazione nera, "agevolate" dalla guerra ispano-americana e dalla Prima guerra mondiale, e soprattutto dagli echi dell'Ottobre rosso. Dopo il rinculo originato dalla sconfitta del movimento comunista mondiale dalla metà degli anni ’20 del ‘900, si è giunti così al movimento dei diritti civili e all’esperienza coraggiosa seppure confusa e contraddittoria delle Black Panthers negli anni '60, fino al più recente Black Lives Matter, coalizione piccolo-borghese il cui limite invalicabile è la chiara mancanza di una prospettiva classista. Con questa estrema sintesi storica, si è argomentato che il razzismo è uno strumento che la borghesia ha usato e continua a usare per dividere e indebolire il proletariato. Non, dunque, di questione razziale si tratta, ma di questione di classe. Ricordando uno degli interventi del comunista Usa John Reed al Secondo Congresso dell'Internazionale Comunista (1920), in cui si ribadiva da una parte che i comunisti dovevano sostenere con forza un movimento di autodifesa nera, ma dall'altra che avrebbero dovuto contrastare la prospettiva di un'insurrezione armata "di soli neri", la relazione ha ribadito che, allora come oggi, compito dei comunisti non è disinteressarsi del movimento nero per l'eguaglianza sociale, ma combatterlo, mostrando i limiti piccolo-borghesi delle rivendicazioni dei diritti civili e ponendo invece al centro della questione la necessità della lotta di classe unitaria, per l’abbattimento della società capitalistica. La discussione che è seguita ha permesso di chiarire ai presenti che il superamento dei pregiudizi razziali, l'unificazione della classe, la lotta al razzismo sono possibili solo nel corso delle lotte proletarie, nei picchetti che affratellano i lavoratori senza distinzioni di alcun tipo, in difesa delle proprie condizioni di vita e di lavoro, riaffermando una volta di più la necessità del partito rivoluzionario e del suo ruolo a contatto della classe.

 

Roma. Oltre a intervenire in alcune assemblee sindacali (come già si è avuto modo di ricordare nei numeri precedenti di questo giornale), i compagni della sezione hanno tenuto un’interessante iniziativa pubblica, prendendo spunto dall’opuscolo che abbiamo pubblicato di recente, La crisi del 1926 nell’Internazionale Comunista e nel Partito russo. Dopo una breve introduzione in cui si è ricordata l’estrema importanza che riveste per tutto il movimento comunista il 1926, in quanto spartiacque contro il quale s’infrange l’ondata rivoluzionaria nata dal 1917, dando inizio all’offensiva della controrivoluzione borghese nelle vesti dello stalinismo, i compagni relatori hanno letto alcuni brani della lettera del 1924 di Bordiga a Korsch (rappresentante di una corrente del cosiddetto “marxismo occidentale”), a dimostrazione che le nostre posizioni erano già chiare fin d’allora e che, se davamo piena solidarietà alla battaglia dell’Opposizione entro il Partito bolscevico – staccandoci dunque nettamente da tutte le altre “opposizioni” in seno all’Internazionale – , al tempo stesso non ne condividevamo appieno le tesi e le posizioni. I compagni hanno quindi proseguito, collegando le posizioni delle due ali del Partito comunista russo (la sinistra di Trotzky, Zinoviev, Kamenev, Preobragensky, e la destra di Bukharin che rappresentava il Centro del partito) alle forze economiche e sociali che stavano eruttando dal sottosuolo delle lotte di classe, e che, nell’isolamento internazionale, il partito russo di fatto non riusciva più a controllare, fino a giungere in entrambi i casi (difendendo diversi indirizzi di politica economica) a gravi e devastanti errori di natura teorica. Entrambe le ali sostenevano infatti (sia pure con differenti sfumature) la “natura socialista” dello Stato e dell’industria sovietica, il principio dell’“accumulazione primitiva socialista” e ancora l’esistenza di due sistemi economici: l’uno socialista fondato sulla proprietà pubblica dei mezzi di produzione e l’altro capitalista perché fondato sulla proprietà privata – dimenticando così quanto Lenin aveva dimostrato a proposito della NEP e sottolineato nell’opuscolo “Sull’imposta in natura” e in tutta la sua battaglia politica degli anni ’21-‘23. La vittoria definitiva del primo sistema sul secondo, che avrebbe permesso il passaggio al socialismo “integrale”, era legata (per l’Opposizione) alle sorti della rivoluzione internazionale: purtroppo, la caduta in questi errori anche da parte di elementi dell’Opposizione, che pure si batté strenuamente e fino all’ultimo per la difesa del marxismo e della rivoluzione comunista, spianò letteralmente la via alla vittoria della controrivoluzione staliniana, che pesa ancor oggi come un macigno sul proletariato mondiale e sulla sua capacità di ripresa classista. L’incontro s’è concluso con un vivace scambio di opinioni con i presenti.

I compagni della sezione sono poi intervenuti a un incontro pubblico organizzato, il 25/10, dall’Associazione culturale Barricata, presso il CSOA Spartaco, con un attivista srilankese, che in gioventù aveva partecipato all’insurrezione di fine anni ’60 con il People’s Liberation Front-JVP, dal quale s’è in seguito staccato, in disaccordo con la deriva nazionalista e la repressione della minoranza Tamil da parte dello stesso, sperimentando in prima persona poi la feroce repressione condotta dallo Stato (si ricordi che lo Sri Lanka – fino al 1972 Ceylon) è una repubblica semipresidenziale che si fregia del nome “Repubblica Democratica Socialista dello Sri Lanka”). Titolo dell’incontro: “Sri Lanka, tra deriva autocratica e nazionalismi, lotte operaie e repressione”. Dopo un panorama storico dal 1948, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, il relatore ha delineato le tappe della penetrazione imperialista nell’isola, le lotte dei lavoratori nelle piantagioni (soprattutto di tè), la massiccia repressione dei movimenti anche di ispirazione democratica e il carattere fortemente autocratico dei governi che si sono succeduti, la contrapposizione fra organizzazioni della minoranza Tamil e la maggioranza singalese che ha impedito una vera unità di classe (unità che – aggiungiamo noi – è stata violentemente osteggiata dal potere, interessato a soffiare sul fuoco delle antiche divisioni etniche e, in pari misura, da quelle formazioni politiche sempre pronte a trasformare le rivendicazioni di classe in sterile lotta per le libertà democratiche). Anche l’assenza di una borghesia nazionale sufficientemente numerosa e politicamente determinata, in grado cioè di sganciarsi dai privilegi elargiti dalla potenza coloniale a scapito di contadini e proletari, ha fatto sì che l’indipendenza dagli inglesi nel 1948 sia stata “servita su un piatto d’argento”, tra l’altro con la concessione che le basi del contingente restassero sull’isola.

Alla fine della relazione, ci sono stati alcuni interventi dei presenti: interessante quello di un lavoratore srilankese che, dopo aver ricordato le condizioni di sfruttamento in cui versano i lavoratori come lui, ha chiesto all’interprete (presentatosi come “comunista iscritto al PRC”) che cosa stessero facendo le varie formazioni sedicenti comuniste per organizzare le lotte e unire il fronte dei lavoratori, criticando duramente la loro mancanza di posizioni classiste. Un nostro compagno è allora intervenuto sottolineando come la vittima principale dello sciovinismo, che mette gli uni contro gli altri gruppi di etnia e lingua diverse, sia sempre il proletariato: diviso, confuso dalla propaganda di quei sedicenti partiti “di sinistra”, esso diventa strumento di lotte interne tra fazioni di una borghesia succube delle pressioni e dei contrasti imperialistici, che fanno delle “aree deboli” del mondo capitalistico il proprio “laboratorio sperimentale”. Il nostro compagno ha poi concluso affermando con forza che on ci potrà mai essere salvezza e riscatto per il proletariato nell’inseguire il miraggio dei “diritti civili” e della “piena democrazia”, maschere che nascondono solo il volto sanguinario dell’imperialismo – unica via praticabile, anche se lunga e difficile, sta nell’unione del proletariato mondiale in un’unica forza, al di là delle divisioni di nazione, lingua e religione, in grado di opposi al dominio del Capitale. Al termine dell’incontro, i compagni della sezione sono stati salutati con un caloroso abbraccio e con l’auspicio di rivedersi presto con del materiale in lingua inglese. Un altro lavoratore srilankese, di nostra conoscenza, ci ha poi chiesto che cosa ne pensassimo del SI Cobas, che viene percepito come unica organizzazione di base combattiva in grado di organizzare la lotta dei lavoratori in difesa dei loro reali interessi immediati. Gli abbiamo risposto ribadendo le nostre classiche posizioni sull’importanza delle rivendicazioni di tipo economico, della lotta per migliori condizioni di lavoro, dell’impegno per la rinascita di un vero fronte unico proletario. Abbiamo altresì riaffermato che le rivendicazioni e le lotte di tipo immediato, economico, non possono rappresentare un fine in sé, ma devono essere considerate mezzi necessari alla preparazione dei lavoratori per il perseguimento del loro fine storico: l’abbattimento, insieme al rapporto salariale, del modo di produzione capitalistico – compito questo che viene assolto necessariamente dal partito rivoluzionario. Cosa che è stata pienamente riconosciuta e condivisa dal lavoratore.

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

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