DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Premessa

Due punti vorremmo risultassero chiari dai testi finora riprodotti e dai commenti e richiami storici coi quali li abbiamo corredati. In primo luogo, quella che la Sinistra oppose fin d’allora all’Internazionale era una linea tattica tale da permettere al partito di affrontare le fasi sia di ascesa che di declino o, comunque, di concentrazione su compiti preparatori  ad una nuova avanzata  - fasi previste nell’eventualità del loro insorgere come nelle direttive da seguire per operare in esse e su di esse – senza mai perdere il filo che lega e sempre deve legare teoria e prassi, e senza mai cancellare ai propri occhi e a quelli dei proletari i caratteri distintivi e i confini delimitanti della propria esistenza indipendente. Questa linea era ed è per noi tracciata dai duri fatti della storia, non dipendeva né dipende dalla volontà o, peggio, dall’arbitrio di singoli o gruppi, fossero pure i meglio temprati dall’esperienza e i più sicuri nel possesso della dottrina; non surroga né potrà surrogare l’assenza di condizioni oggettive favorevoli, né impedirà il ritorno di flussi negativi, ma non lascia sprovveduto e brancolante di fronte ad essi il partito. L’Internazionale tendeva invece sempre più a cercare nelle situazioni – purtroppo giudicate per lo più a breve scadenza – e nel loro capriccioso alternarsi delle ricette per capovolgere volontaristicamente i rapporti di forza, e in tale ricerca da un lato perdeva il legame fra azione pratica e scopi finali, dall’altro si precludeva la possibilità, grande o piccola che fosse, di agire come volontà collettiva, come fattore di storia, sulle situazioni stesse, mostrando in tal modo come il volontarismo si converta in determinismo meccanico, e infine in capitolazione larvata od esplicita di fronte a Sua Maestà il Fatto.

In secondo luogo, e per le stesse ragioni, la Sinistra ammonì che, presa questa via contorta e non fermatisi in tempo, si sarebbe necessariamente percorsa tutta la china; un espediente se ne sarebbe tirato dietro un altro magari contrario; dell’insuccesso del primo si sarebbe cercata la responsabilità e infine la “colpa” non nella sua natura divergente dal fine, ma nel suo “errato” maneggio da parte di singoli o gruppi, correndo affannosamente ai ripari con brusche virate di bordo e improvvise crocifissioni di “capi”, sottocapi e gregari, e così minando le stesse basi di quella disciplina internazionale, non formale ma sostanziale, che pur si voleva, a giusta ragione, instaurare. Proprio perché il partito non è né una macchina bruta, né un esercito passivo, ma un organismo che è sì fattore ma anche prodotto degli eventi storici, la tattica reagisce sulla collettività che la pratica, modificandola – se discordante dalle basi programmatiche – nella sua struttura, nella sua capacità di agire, nei suoi modi di operare, e, alla lunga, nei suoi stessi principii, per quanto accanitamente e sinceramente ci si proponga di difenderli.

L’allarme su una possibile ricaduta nell’opportunismo, che la Sinistra lanciò con sempre maggiore insistenza a partire dal 1922, riguardava (questa è per noi – soprattutto per i giovani militanti – un’altra lezione di primaria grandezza) un fenomeno non soggettivo ma oggettivo, del quale a nessuno meno che ai bolscevichi poteva e doveva farsi colpa, sia perché il suo insorgere non si spiega banalmente con gli “errori” di tizio o di sempronio, trattandosi invece di capire che tizio o sempronio agiscono come la via imboccata impone loro di agire; sia perché, nella stretta drammatica dell’isolamento mondiale della rivoluzione russa, ad essi doveva venire dall’Occidente ( e non venne se non dalla nostra voce, forte ma isolata), non da essi si poteva chiedere che venisse, l’energica spinta ad una “rettifica di tiro”, o meglio ad un “ritorno alle origini”. Non chiedemmo la testa di nessuno nemmeno quando si chiese e si ottenne la nostra: facemmo quanto era nelle nostre forze perché le teste e le braccia riprendessero a lavorare sull’unico binario che non avevamo mai creduto si potesse o dovesse rimettere in questione.

E’ quindi anche un concatenamento inesorabile di fatti, quello che rievochiamo in queste pagine perché serva di monito alle generazioni presenti e future; non una “cronaca nera” che ci offra il modo e l’occasione di vantare titoli personali e mettere a nostra volta le vittime inconsce – e indiscutibilmente in buona fede – di un metodo sbagliato, oltre che di un accumularsi di condizioni avverse. Non vogliamo cadere, e ci si dia atto del non esserci caduti, nel girone infernale della contrapposizione di persone a persone, in cui Trotsky si lascerà travolgere dopo il 1927 dal più che legittimo sdegno per il demone stalinista. Difendiamo il marxismo, non la proprietà intellettuale di nessuno; condanniamo una deviazione con le sue conseguenze ineluttabili, non l’uomo messo in berlina per la dubbia soddisfazione del giudice e il morboso piacere della platea. 

Il concatenamento può essere seguito con maggiore brevità, ora che ne abbiamo visto i primi anelli.

L’Esecutivo Allargato del 21 febbraio – 4 marzo 1922 riconferma le “tesi sul fronte unico proletario” del dicembre 1921, dando incarico al Presidium “di stabilire, in collaborazione con le delegazioni di tutte le più importanti sezioni, quali misure pratiche immediate debbano essere applicate nei ripettivi paesi per l’esecuzione della tattica decisa, che, inutile dirlo, deve essere adattata alla situazione di ciascun paese”, non senza tuttavia mettere in guardia contro i pericoli di una sua applicazione troppo lata e frettolosa. Ne dà inoltre un primo esempio su scala mondiale dichiarando che “ l’Internazionale Comunista mantiene nella sua interezza la propria fondamentale concezione dei compiti della classe operaia nell’attuale situazione rivoluzionaria” e proclama che “soli la dittatura del proletariato e il sistema sovietico possono liberare il mondo dall’anarchia capitalistica; ma crede ugualmente che il cammino verso la battaglia finale passi per la lotta delle masse operaie unite contro gli attacchi della classe capitalistica, ed è quindi pronta a partecipare ad una conferenza internazionale che si metta al servizio delle azioni unite del proletariato”; accetta di conseguenza la proposta dell’Internazionale “due e mezzo” per una conferenza delle tre Internazionali in vista della difesa contro l’offensiva capitalistica e contro la reazione, proponendo di estenderne l’invito a “ tutte le confederazioni e associazioni sindacali tanto nazionali quanto internazionali” in modo da elevare la conferenza al livello di “congresso mondiale operaio”per la difesa della classe lavoratrice contro il capitale internazionale.

          

La delegazione italiana difende il principio, sempre proclamato dal partito, che ogni proposta e intesa di fronte unico deve correre fra organizzazioni economiche e non raggiungere il limite di un accordo tra partiti; invoca una azione generale del proletariato e una crescente unificazione delle lotte, contrapponendole “all’unità formale” costituita da accordi politici;mette severamente in guardia contro un travisamento della natura dei partiti comunisti(1); e infine respinge la progettata adesione alla conferenza a tre, proponendo di sostituirla con un incontro tra “le organizzazioni sindacali di ogni sfumatura”, previa assicurazione che vi sarà ammessa “una rappresentanza proporzionale di tutte le loro correnti politiche”. La mozione presentata in tal senso con l’appoggio – purtroppo dubbio – delle delegazioni francese e spagnola è respinta a larga maggioranza (sebbene con molte riserve da parte di numerose delegazioni sull’applicabilità al loro paese della tattica preconizzata dall’Esecutivo), e i suoi promotori si piegano all’imperativo della disciplina internazionale (2).

Già nel corso dell’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo aveva tuttavia fatto capolino, sulla falsariga di iniziative prese dal partito tedesco, una nuova parola d’ordine: quella del “governo operaio”, formula non meglio precisata in sede internazionale ma notoriamente intesa da alcune sezioni dell’IC (prima tra tutte quella di Germania) nel senso tutt’altro che sottaciuto di una combinazione parlamentare di “trapasso” verso l’attacco rivoluzionario al potere dopo il primo e già sperimentato gradino dell’appoggio esterno a eventuali governi socialdemocratici (3).

Il passo non avanti, ma indietro, si profila qui gravissimo: dal campo dei rapporti tra partiti il fronte unico rischia d’essere trasferito sul piano dei rapporti con lo Stato, il terreno specifico della nostra opposizione permanente e totale. Il delegato tedesco al Congresso di Roma del PCd’I parla senza veli di un “governo operaio”, cioè socialdemocratico, come eventuale “governo antiborghese” da appoggiare non solo sul terreno parlamentare, ma, occorrendo, su quello della coalizione ministeriale (ferma restando …l’indipendenza del partito). In una durissima risposta, Bordiga per l’Esecutivo del PCd’I risponde, quanto al fronte unico, che “se sul terreno politico ci rifiutiamo di stringere la mano ai Noske e ai Scheidemann, noi rifiutiamo di stringere queste mani non perché siano bagnate del sangue di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht, ma perché sappiamo che, se queste mani non fossero già state strette da comunisti subito dopo la guerra, assai probabilmente in Germania il movimento rivoluzionario del proletariato avrebbe già avuto il suo sbocco vittorioso”; quanto al secondo, “domandiamo se si vuole l’alleanza coi socialdemocratici per fare ciò che essi sanno, possono e vogliono fare, oppure per chiedere loro ciò che non sanno, non possono e non vogliono fare… Vogliamo sapere se si pretende che diciamo ai socialdemocratici di essere pronti a collaborare con essi anche in parlamento ed anche in quel governo che è stato definito operaio: ché se questo ci si chiedesse, se ci si chiedesse cioè di tracciare in nome del PC un progetto di governo operaio cui dovrebbero partecipare comunisti e socialisti, se ci si chiedesse di presentare alle masse questo governo quale “antiborghese”, noi risponderemmo, prendendo tutta quanta la responsabilità della nostra risposta, che tale atteggiamento si oppone a tutti quanti i principii fondamentali del comunismo. Perché, se accettassimo questa formula politica, verremmo a lacerare la nostra bandiera sulla quale è scritto: “Non esiste governo proletario che non sia costituito sulla base della vittoria rivoluzionaria del proletariato” (4).

Dell’allarme suscitato nel partito da questa svolta ancora indistinta, ma gravida di minacce, si fa interprete la maggioranza di sinistra della delegazione italiana al nuovo Esecutivo Allargato del 7-11-1922 (di cui non esiste nessun protocollo a stampa, ma i documenti relativi alla questione italiana si leggono nel n.6, marzo 1924, dello “Stato operaio”, pubblicati insieme ad altri nella fase preparatoria alla conferenza nazionale di Como). Zinoviev, sia in sede di riunione, che nella “risoluzione confidenziale” sulla questione italiana(5), mentre insiste sulla necessità di una pronta applicazione della parola d’ordine del “governo operaio”, precisa: “Va da sé che questa idea del governo operaio non deve essere affatto considerata come una combinazione parlamentare, ma come la mobilitazione rivoluzionaria di tutti gli operai per il rovesciamento del dominio borghese”; è, si disse allora e si ripeterà poi, “un sinonimo di dittatura del proletariato”, qualcosa di simile alla parola d’ordine bolscevica tra l’aprile e il settembre 1917: “tutto il potere ai Soviet”.

In seguito ad approfondita illustrazione dell’attività svolta dal Partito Comunista d’Italia, dalla sua costituzione in poi, lo stesso Esecutivo riconosce che “nessun conflitto di organizzazione e disciplina si è mai verificato tra il partito e l’Internazionale” e che “i comitati locali di operai di tutti i partiti o senza partito” esistono già, come lealmente dichiara per la minoranza Graziadei, proprio per iniziativa del partito, sotto forma di comitati di quell’Alleanza del Lavoro, di cui esso è divenuto la forza propulsiva così come era stato il primo ad invocarne e promuoverne la costituzione fin dall’agosto dell’anno precedente. Reagendo a valutazioni troppo ottimistiche e indubbiamente sfocate della situazione oggettiva, e procurando di togliere in generale alla parola d’ordine  del “governo operaio” (subìta senza convinzione, e con le debite riserve) ogni punta astrattamente volontaristica evitando nel contempo una sua interpretazione in senso parlamentare, la maggioranza della delegazione (6) precisa che “il momento nel quale essa dovrà essere lanciata (l’Internazionale esigeva che si fissasse una data precisa : il 15 luglio), dal punto di vista degli effettivi obiettivi come della realizzazione completa dei movimenti d’insieme del partito, dovrà corrispondere ad una svolta concreta della situazione; questa svolta potrà consistere nella realizzazione dello sciopero generale suscitato da un episodio clamoroso dell’offensiva borghese, oppure nella convocazione di un congresso nazionale dell’Alleanza del Lavoro, come risultato della campagna condotta da lungo tempo dal partito comunista”.

La stessa delegazione, a proposito delle critiche rivolte alle sue Tesi di Roma (7), ribadisce in un testo che ci sembra opportuno riprodurre di “aver tracciato in esse una concezione della tattica comunista in generale, e della sua applicazione al fronte unico in particolare, in un quadro preciso e completo, nel quale l’applicazione della tattica del fronte unico ha un valore e degli scopi nettamente politici, e mira ad intensificare l’influenza del partito nella lotta politica. Il compito che esse prevedono per il partito comunista nell’insieme  del movimento è tale da evitare la coalizione con altri partiti politici come base di un organo comune di direzione della lotta proletaria, senza per nulla cancellare  l’importanza di questo compito e i caratteri politici della lotta”. Aggiunge: “La maggioranza del Partito Comunista d’Italia contesta di aver avuto esitazioni nella direzione della tattica del partito e di essersi tenuta a mezze misure, avendo sempre seguito un piano nettamente saldo al solo scopo di sfruttare il più possibile la situazione concreta per la lotta contro i socialisti e tutti gli altri avversari del partito e dell’Internazionale. Esso non contesta evidentemente d’aver potuto commettere degli errori, né il diritto dell’Internazionale Comunista di esigere qualsiasi modificazione della tattica del partito, secondo le risoluzioni della maggioranza di questi organi supremi e sotto la loro responsabilità”. E, contro i giudizi frettolosi sulla “instabilità” del governo borghese in Italia, aggiunge: “Gli avvenimenti sulla scena  parlamentare non devono indurci alla conclusione che la classe dominante italiana non disponga di un apparato statale ben solido e preparato ad una formidabile lotta controrivoluzionaria, con l’appoggio delle bande irregolari fasciste. Si deve pure mettere in giusto rilievo il pericolo rappresentato dalla politica combinata dei riformisti da una parte, e dei serratiani e di altri gruppi falsamente rivoluzionari dall’altra. Gli uni e gli altri, con una campagna di tolstoismo e di critica disfattista del “militarismo rosso”, impediscono la riorganizzazione rivoluzionaria dell’avanguardia proletaria, e mentre i primi mirano al compromesso con la borghesia, i secondi coprono il loro tradimento col gioco di una demagogia che distoglie il proletariato dai suoi veri compiti di lotta. Si devono prospettare gli effetti di queste influenze che potrebbero preparare  all’azione proletaria che si avvicina uno sbocco non desiderato, mentre i comunisti tendono a farne una tappa verso l’innalzamento  del livello di preparazione ideale e materiale della classe operaia per la lotta rivoluzionaria  finale(8).

 

1° agosto 1922.La previsione amara trova purtroppo conferma. Al culmine di una violenta battaglia difensiva su tutti i fronti del proletariato italiano, l’Alleanza del Lavoro decide la proclamazione di uno sciopero generale, in cui però i riformisti non vedono che un mezzo di pressione per risolvere la crisi governativa nel senso di una coalizione liberale-socialdemocratica (pochi giorni prima, Turati aveva salito le scale del Quirinale), mentre i proletari in genere e i comunisti in specie ne sentono l’urgenza come vigorosa azione di contrattacco alla grandeggiante offensiva fascista, in corso con la connivenza dei poteri pubblici; la CGL è così poco convinta della propria politica,e soprattutto delle proprie capacità di controllo delle masse, che l’ordine “segreto” dello sciopero viene reso di pubblica ragione da un organo socialdemocratico e confederale. “Il Lavoro”, mettendo così lo Stato e le squadracce nere in grado di entrare tempestivamente in azione; lo sciopero stesso viene sospeso dopo 24 ore, mentre le masse si sono mobilitate senza la minima diserzione e continueranno a battersi con splendido coraggio contro le forze repressive, ora piegandosi solo alla strapotenza del numero (a Bari, è necessario l’intervento della marina per “riconquistare” la città vecchia), altrove (Parma) respingendo clamorosamente, in un autentico assedio, le arroganti e molto più “attrezzate” e numerose squadre nere (9). Notoriamente, è da qui che data il vero e proprio “cambio di mano” al governo dello Stato dai liberali ai fascisti: il resto sarà tutta questione di un…viaggio in vagone letto sullo sfondo puramente coreografico dell’eroicomica marcia su Roma.

E tuttavia, i riformisti traggono dall’insuccesso voluto e preparato dello sciopero d’agosto la conferma non già malinconica ma segretamente esultante: “Usciamo da questa prova clamorosamente battuti…è stata la nostra Caporetto”; mentre i massimalisti, chiudendo tutti e due gli occhi sul palese sabotaggio della destra socialdemocratica, non sanno invitare i proletari demoralizzati e dispersi ad altro che ad una pausa di “raccoglimento” per “correggere gli errori [!!!], rettificare il fronte, perfezionare[!!!] lo strumento di lotta” in vista delle nuove battaglie che la “furia avversaria” prepara, e delle nuove “prove di abnegazione e sacrificio” ch’essa impone, prima fra tutte nientemeno che “la resistenza nelle posizioni conquistate nella pubblica amministrazione”!!!

Malgrado tutto ciò, per inesorabile forza d’inerzia, l’Internazionale insiste (anzi insiste con sempre maggiore insistenza) per un’azione di recupero del PSI, e logicamente prende sul serio la commedia della scissione socialista infine avvenuta al congresso di Roma del 1-3 ottobre a parità quasi completa di voti, e la ancor più indegna commedia della rinnovata richiesta di adesione a Mosca dell’ala maggioritaria del partito. In realtà. i proletari italiani che avevano mostrato di stringersi sempre più intorno al Partito Comunista d’Italia nella lotta contro il fascismo e in difesa delle loro rivendicazioni di vita e di lavoro (10), e ai quali, subito dopo lo sciopero e i suoi strascichi sanguinosi, il 19 agosto, il partito stesso aveva rivolto un appello non retorico ma nutrito di pratiche proposte e direttive precise per l’immediata riorganizzazione delle forze scompaginate e disperse intorno ad una rinnovata e potenziata Alleanza del Lavoro, articolata in una rete efficiente di comitati locali, e centralizzata in un “organo direttivo supremo eletto da un congresso nazionale dell’Alleanza in modo rispondente alle necessità della situazione”, nella prospettiva di un’ulteriore “simultanea mobilitazione di tutte le sue forze, nell’affasciamento di tutte le vertenze che l’offensiva borghese continuerà implacabile a suscitare nel campo delle lotte sindacali come nella quotidiana guerriglia contro il fascismo”(11), questi proletari che dal partito ricevevano una parola non di piagnucoloso disarmo ma di virile ed antidemagogico impegno: “La lotta continua!” (“Il Comunista” dell’8-8), mentre prendeva corpo l’iniziativa del convegno delle Sinistre sindacali e guadagnava consensi l’invito ai proletari ancora legati al vecchio partito bancarottiero di rompere con esso e schierarsi col partito rivoluzionario di classe; questi proletari vedevano l’Internazionale muoversi sul doppio binario – un binario di semi-equidistanza – del corteggiamento anche finanziario del PSI neomutilatosi solo per finta e dello scomodo e quasi riluttante “appoggio” – ma non più che appoggio – al partito di Livorno, l’unico partito comunista; con riflessi di smarrimento, disgusto ed amarezza (12) di cui non potranno mai valutarsi gli influssi sulla débacle finale (13).

Ma v’era di peggio. Non solo in Francia si accumulavano i sintomi di un’ennesima sbandata a destra del PCF ( un carro tirato in altrettante direzioni diverse da almeno cinque cavalli) e di trasposizione delle tattiche del fronte unico e del governo operaio sul piano delle combinazioni elettorali sia pure soltanto amministrative, ma in Germania il corso precipitoso verso posizioni a dir poco equivoche e intermedie aveva fatto passi da gigante: estenuanti trattative con la socialdemocrazia per una manifestazione comune, poi naufragata, ai funerali di Rathenau; finale intervento isolato del partito al grido di “repubblica! repubblica!”; netta prevalenza negli organi direttivi di una interpretazione del “governo operaio” che troverà la sua codificazione di “sinistra” (!!!) alla conferenza del gennaio 1923 a Lipsia: “né dittatura del proletariato né pacifico modo parlamentare di arrivarci, ma tentativo della classe operaia, nel quadro e dapprincipio coi mezzi della democrazia borghese, di esercitare una politica operaia con l’appoggio di organi proletari e di movimenti di masse proletarie”, ma che nella sua formulazione di destra (come in quella di Graziadei o di Radek al IV Congresso), aveva un sapore neppure dissimulatamente parlamentare e ministerialista: e prescindiamo da analoghi macroscopici sbandamenti nel solito partito cecoslovacco o in altri.

Il nostro allarme trovava dunque fin troppe conferme: e la più grave era che le oscillazioni e gli sdruccioloni dei maggiori partiti dell’Europa occidentale si riflettevano nella politica della dirigenza del Comintern e la condizionavano.

In questa atmosfera di brancolamenti e confusione, che solo l’ottimismo ufficiale velava adducendo i successi conseguiti sul piano numerico, parlamentare e statistico-organizzativo, si riunì il IV Congresso dell’Internazionale Comunista (5 novembre-5 dicembre 1922), mentre già in Italia il fascismo completava la sua pacifica, legale e benedetta dai padri tutelari della democrazia, ascesa al potere, sulle ceneri della rabbiosa e mai placata resistenza proletaria.

Per la prima volta, la rappresentanza all’assise di Mosca è veramente mondiale.  Ma di là da questo aspetto che sottolinea la potente forza di attrazione dell’Internazionale rivoluzionaria, la discussione che si trascina per un mese intero rivela la fragilità intrinseca del poderoso edificio. Astrazion fatta dal breve discorso di Lenin appena convalescente, dallo splendido bilancio di Trotsky sulla NEP e le prospettive della rivoluzione mondiale, dal primo grande rapporto Bordiga sul fascismo, e dal rapporto di Bucharin sul programma dell’Internazionale, che sollevano il dibattito all’altezza delle grandi sintesi e delle formulazioni di principio, il Congresso brancola faticosamente alla ricerca di una via che delle più recenti evoluzioni tattiche, nei paesi di capitalismo avanzato e in quelli ancora coloniali o semicoloniali, fornisca una definizione univoca e ne tracci i confini (paradossalmente, il problema dei limiti della tattica è ripreso dai nostri contraddittori, senza però che si vada oltre i termini di una complicata e tutt’altro che chiarificatrice casistica).

Appare fin dalle prime battute che la parola del fronte unico ha dato luogo non solo a diverse interpretazioni erronee, ma ad aperte deviazioni di principio: alla rappresentanza mondiale dei partiti comunisti si impone l’incredibile necessità di ricordar loro che ogni ritorno all’ “unità” con la socialdemocrazia è per sempre escluso! Ma lo spettro appena fugato ritorna in scena dalla finestra aperta del “governo operaio”. La confusione nel modo di interpretare ed attuare questa parola d’ordine, improvvisamente e incautamente lanciata nella sua forma più vaga, si rivela subito enorme: se Zinoviev prospetta il mitico “governo operaio” come un’eventualità del tutto eccezionale e quasi improbabile, v’è chi lo giudica una possibilità condizionata, e chi, agnosticamente, come un evento realizzabile o no anche sul piano parlamentare, a seconda della posizione che la socialdemocrazia assumerà nei prossimi mesi, e che nessuno può prevedere (Radek, che appunto sostiene senza mezzi termini questa tesi, non esita a ridimensionare il giudizio fin allora ritenuto definitivo sulla funzione storica del riformismo: la socialdemocrazia – si deve sentir dire dalla tribuna, e da un rappresentante così qualificato del Presidium – ha sì massacrato gli spartachisti e strangolato la rivoluzione tedesca, ma ci ha pur fatto, volente o nolente, il piacere di “liberarci” del Kaiser!!!).

Il nocciolo della questione resta comunque ( e le tesi votate con la sola astensione del partito italiano lo provano) che la parola d’ordine non è più presentata come sostitutiva – e solo in date circostanze – della classica parola della dittatura del proletariato: questa, che sola merita veramente il nome di “governo operaio”, è l’ultimo gradino, il vertice ideale – per così dire – di una scala ascendente di forme imperfette e tuttavia ipotizzabili come trampolini di lancio a quella vetta suprema: governo “operaio” con partecipazione comunista (subordinatamente all’impegno di armare i proletari, disarmare le organizzazioni controrivoluzionarie, introdurre il controllo della produzione e scaricare sulle spalle della borghesia l’onere principale delle imposte); governo “di operai e contadini poveri” non meglio specificato, come potrebbe verificarsi nei Balcani; governi “apparentemente operai” come quello operaio…”liberale” già esistente in Australia e forse imminente in Inghilterra, o come quello “operaio”…puramente socialdemocratico già in atto o in gestazione in Germania. Questi ultimi, - si dice – pur non essendo “rivoluzionari”, possono in date circostanze “accelerare il processo di disgregazione del regime borghese” (la socialdemocrazia non più strumento di conservazione del regime borghese, ma suo possibile fermento dissolutore!), e i comunisti devono essere pronti “ad appoggiarli sotto certe garanzie e, naturalmente, solo in quanto esprimano e difendano gli interessi dei lavoratori”(!!!): i due primi “non significano ancora la dittatura del proletariato, non sono neppure uno stadio di transizione storicamente inevitabile ad essa, ma rappresentano, qualora e dovunque si costituiscano, un importante punto di partenza per la conquista della dittatura attraverso la lotta”. Le tesi aggiungono:”Un governo operaio è possibile solo se nasce dalla lotta delle masse stesse, poggia su organi operai atti al combattimento e creati dagli strati più profondi delle masse proletarie oppresse. Anche un governo operaio scaturito da una costellazione parlamentare, quindi di origine puramente parlamentare, può dar modo di ravvivare il movimento rivoluzionario operaio. E’ però evidente che la nascita di un vero governo operaio, e l’ulteriore conservazione di un governo che conduca una politica rivoluzionaria, deve scatenare le lotte più aspre ed eventualmente (?!) la guerra civile con la borghesia: Già il solo tentativo del proletariato di creare un tale governo operaio si scontrerà sin dall’inizio nella più accanita resistenza della borghesia: La parola d’ordine del governo operaio è quindi atta ad affasciare il proletariato e a scatenare lotte rivoluzionarie”. Le “garanzie”? Eccole: “la partecipazione ad un governo operaio deve avvenire previo consenso del Comintern; i suoi membri comunisti devono soggiacere al più stretto controllo del partito e mantenersi nel più intimo e diretto contatto con le organizzazioni del proletariato; il partito comunista deve assolutamente mantenere il proprio volto e la completa autonomia della propria agitazione” (14).

In tutto questo edificio, cesellato con la giuridica minuzia di un costituzionalismo che ricorda la classica teoria borghese dei “freni e contrappesi”, tutto va perduto: l’indipendenza reale  del partito, che non gli si può chiedere di mantenere nell’atto che abbandona le sue pregiudiziali di irrevocabile scissione da partiti classificati per sempre nel novero delle forze controrivoluzionarie; l’esclusione marxista di soluzioni intermedie fra dittatura della borghesia e dittatura del proletariato; le stesse basi del “parlamentarismo rivoluzionario”, che è strumento di eversione degli istituti rappresentativi borghesi o non è nulla; infine, implicitamente, la stessa nozione dello Stato. E di riflesso salta il fondamento di una disciplina internazionale non fittizia, non meccanica, non basata sull’esegesi degli articoli di un codice civile o penale, ma organica, subentrandole la disciplina formale imposta da un organo insieme deliberante e esecutivo, la cui capacità di mantenere nel gioco complesso e imprevedibile delle manovre il filo della continuità teorica, pratica e organizzativa, è data a priori per ammessa in forza di un’immunizzazione supposta permanente.

E’ un vecchio corollario delle “garanzie” che quando sciaguratamente vengono messe in campo, sorga il quesito: chi custodirà i custodi? O dirigenza e “base” sono legate da un vincolo comune e superiore (e questo non può essere che il programma invariante e impegnativo per tutti) o deve risorgere l’apparato giudiziario dei tribunali di primo, secondo e terz’ordine, con tutto il gregge degli avvocati, dei pubblici ministeri e, ovviamente, dei professori di diritto costituzionale, e questo apparato non è un ente metafisico, è la sovrastruttura dell’organismo che teoricamente dovrebbe controllare e giudicare: giudice e imputato in una persona sola. Non resta allora, che sottoporlo anch’esso all’autorità suprema non del buon dio (che è, almeno finora, escluso), ma del poliziotto, poi del questore, infine del maresciallo.

La disciplina è il prodotto dell’omogeneità programmatica e della continuità pratica: introducete la variabile indipendente dell’improvvisazione, e avrete un bel circondarla di clausole limitative; al termine del processo c’è solo il Knut: se preferite, c’è Stalin.

Questo in altre parole, dissero in appassionati interventi i rappresentanti della maggioranza del partito italiano (15), allora tutta di sinistra. E, poiché verba volant, scripta manent, formularono le tesi che riproduciamo, nel disperato tentativo di rimettere ordine nei concetti e quindi nell’azione pratica, e isolare il nocciolo sano delle formule via via uscite dagli alambicchi moscoviti dalle loro superfetazioni morbose. Le “tesi sulla tattica” presentate al IV e poi al V Congresso (i due testi sostanzialmente si identificano) saranno rinviate a discussioni future: la “disciplina” provvederà ad archiviarle per sempre.

       

Note:

1. Appassionatamente obietta uno dei delegati: “Ci si prepara dunque a sacrificare, in nome della conquista delle masse, i principii ai quali andiamo debitori della nostra esistenza? E’ possibile, noi pensiamo, che coi mezzi suggeriti dall’Esecutivo si conquistino le masse; ma non avremo più  dei partiti comunisti; avremo dei partiti che assomiglieranno come gocce d’acqua ai vecchi partiti socialisti”, Che tale sia divenuto il PCI, e che quello stesso delegato ne faccia ora parte, è solo una riprova della impersonalità dei processi storici.

2. La conferenza si tenne in realtà a Berlino ai primi di aprile del 1922 e si risolse in violento duello oratorio tra il caustico Radek e i peggiori arnesi del riformismo internazionale, di tutt’altro preoccupati che di “un’azione comune per la difesa contro il capitale”. L’accordo – “pagato troppo caro”, scriverà Lenin a proposito delle concessioni fatte dalla delegazione russa in merito alla procedura del processo contro i social-rivoluzionari -, che prevedeva anche la convocazione a breve scadenza di “un congresso mondiale operaio” precipitosamente annunziato dall’Internaziionale Comunista in un manifesto ai proletari di tutti i paesi e mai avvenuto, fu subito violato dalle due Internazionali gialle, che non parteciparono a nessuna delle previste o concertate manifestazioni “comuni” e poco dopo tornarono a fondersi: non altra era l’”unità” che avevano perseguito! L’effetto fu disastroso, tra l’altro, in Italia, dove le manifestazioni di denunzia dell’Internazionale sindacale gialla di Amsterdam riunita in congresso a Roma, già progettate e organizzate dal partito, dovettero essere sospese in omaggio ai deliberati di Berlino.  

3. Thalheimer all’Esecutivo Allargato del febbraio-marzo: “Le condizioni in Sassonia e forse in Turingia sono tali che i maggioritari sarebbero pronti ad entrare con piacere in un governo di coalizione borghese, e la briglia che li trattiene dal farlo è proprio l’appoggio da noi dato al governo dei maggioritari e degli indipendenti”. Bell’esempio di teorizzazione del “governo migliore” identificato nella coalizione ministeriale   dei Noske-Scheidemann-Haase, i carnefici dell’ottobre-dicembre 1919 tedesco, tenuti amorosamente in sella da “noi”, e così impediti di smascherarsi di fronte alle masse!

4. “Il Comunista”, 26-3-1922.

5. “Stato operaio”, 13-3-1924.

6. Di cui  (accanto ad Amadeo Bordiga) fa incondizionatamnet parte Antonio Gramsci, fin alora per nulla dissenziente dalla direzione di sinistra.

7. L’orientamento ormai decisamente preso vela a tal punto gli occhi dei dirigenti del Comintern che nelle “Osservazioni del Presidium sulle Tesi di Roma sulla Tattica del PCI” rese pubbliche il 22 luglio (riprodotte nel numero 24-4-1924 di “Stato operaio”), a parte le solite accuse di dottrinarismo, settarismo e infantilismo, un testo come quello che abbiamo riprodotto e che indica con estrema precisione le eventualità alternative della situazione per mettere il partito in grado di non “subirle ecletticamente” viene interpretato come una riverniciatra della “teoria dell’offensiva”! Un testo che propugna il fronte unico sindacale ed esclude quello politico proprio per salvaguardare il carattere e la funzione del partito e, d’altra parte, indica nel fronte unico sindacale uno strumento per imbevere della propria ideologia le organizzazioni economiche e sottoporle alla propria guida politica, è respinto come a sfondo “sindacalista”! La lettera invita quindi il partito a “lottare per lo scioglimento della Camera allo scopo di instaurare un governo operaio” e a proporre a tal fine “un blocco col partito socialdemocratico” appoggiandolo nei limiti in cui esso “difende (!!!)mgli minteressi della classe operaia”: ad un mese dal II Esecutivo Allargato, a questo è decaduto il “sinonimo della dittatura del proletariato”.

8. Siamo costretti per le ragioni di cui sopra a centrare il problema sulla “questione italiana”, ma è chiaro che per noi si trattava di salire da questa ad una ben precisa ( e non passibile di equivoci) interpretazione internazionale della nuova tattica.

9. Lo snodarsi della lotta sindacale e militare contro l’offensiva fascista nella prima metà del 1922, nel cruciale agosto e nei mesi successivi, è illustrato nei nr. 43, 44, 45 e successivi della nostra rivista teorica internazionale “Programme Communiste”, insieme con l’azione disfattista svolta dai socialdemocratici dietro la solita copertura del verboso “estremismo” massimalista. Si noti che la potentissima CGL dovette affidarsi alla rete clandestina del Partito Comunista d’Italia per impartire in codice le disposizioni di sciopero del 1° agosto!

10. E’ significativo come, in un periodo di rabbiosa offensiva padronale, in tutti i convegni e conferenze della CGL e della FIOM le mozioni comuniste, malgrado i brogli elettorali in cui il bonzume era allora come oggi specialista, ottengano un numero di voti stabile o in ascesa, mentre quello alle mozioni socialiste declinano (in fatto di “conquista della maggioranza”, le carte erano dunque in perfetta regola, ma lo erano soprattutto  in fatto di influenza reale, come dimostrano gli innumerevoli episodi di scioperi, agitazioni, scontri armati, svoltisi sotto la guida materiale del partito e della sua longa manus, i gruppi comunisti di sindacato e di azienda).

11.  Manifesto 19 agosto “Per il programma di lotta del proletariato”.

12. Se ne occorressero testimonianze “non sospette” si leggano il rapporto al Comitato Centrale del 10-11 settembre 1922 e le lettere all’Internazionale Comunista dell’8 marzo 1923 di U. Terracini rispettivamente a pp. 128 degli “Annali Feltrinelli” 1966, e pp. 45-50 di La formazione del gruppo dirigente del PC di P. Togliatti. Che poi la frazione terzinternazionalista fosse già nel 1922 finanziata dal Comintern come strumento di noyautage nel PSI o, di volta in volta, come candidata alla fusione col Partito Comunista d’Italia, è confermato dai recenti libri di Humbert Droz.

13. Accenniamo solo di passaggio alle ulteriori, squallide vicende del tentativo di ricupero del PSI dopo la scissione con la “destra” socialdemocratica (PSIU). Nuove trattative per la fusione col Partito Comunista d’Italia al IV Congresso sulla base di 14 punti ultimativi; immediata reazione della maggioranza del PSI in Italia che, portavoce Nenni sull’ “Avanti!”, protesta contro la “liquidazione sotto costo” del partito nei deliberati di Mosca; formazione di “comitati per la fusione” che, in tali circostanze, rimangono sulla carta; nuovo congresso del PSI a Milano dal 15 al 17 aprile 1923 e vittoria degli antifusionisti all’insegna del “Comitato di difesa socialista”; ulteriori approcci in seguito all’Esecutivo Allargato del luglio e, di fronte a un nuovo rifiuto della direzione del PSI, costituzione della frazione “terzinternazionalista” con l’appoggio del Comintern; estremo invito non solo al PSI, ma al PSIU per un blocco di “unità proletaria” nelle elezioni dell’aprile 1924, cui aderiscono soltanto i “terzinternazionalisti” o “terzini”; finale confluenza di questi ultimi (un’esilissima organizzazioine, politicamente più che dubbia, tenuta in vita unicamente dall’appoggio di Mosca) nel Partito Comunista d’Italia, secondo i deliberati del V Congresso dell’Internazionale (giugno-luglio 1924), proprio mentre si apre la crisi Matteotti – un’affannosa rincorsa al fantasma socialista conclusasi con l’acquisto di pochi e soltanto opinabili “nuovi compagni” e la perdita di veri militanti disorientati o, peggio, disgustati, della vecchia guardia; per non parlare della confusione seminata nelle file proletarie…

14. Protokoll des.4. Kongresses der Kommunistischen Internationale, Amburgo 1923, pp. 1016-1017.

15. Il lettore può trovare il discorso di Bordiga ne “Il Lavoratore”, 9-12-1922. 

 

La tattica dell'internazionale comunista nel progetto di tesi presentato dal PCd'I al IV Congresso mondiale

"Lo Stato Operaio", 6 marzo 1924 

Le condizioni per il conseguimento degli scopi rivoluzionari dell’Internazionale Comunista sono di natura oggettiva in quanto risiedono nella situazione del regime capitalista e nello studio della crisi che esso attraversa, e sono di natura soggettiva per quanto riguarda la capacità della classe operaia a lottare per il rovesciamento del potere borghese e ad organizzare la propria dittatura con unità di azione: riuscendo, cioè, a subordinare tutti gli interessi parziali di gruppi limitati all’interesse generale di tutto il proletariato, ed allo scopo finale della rivoluzione. 
Le condizioni soggettive sono di doppio ordine, ossia:
a) la esistenza di partiti comunisti sia dotati di una chiara visione programmatica sia di una organizzazione ben definita che ne assicuri l’unità di azione.
b) un grado di influenza del partito comunista sulla massa dei lavoratori e sulle organizzazioni economiche di questi, che ponga in prevalenza il partito comunista rispetto alla altre tendenze politiche del proletariato. 
Il problema della tattica consiste nel ricercare i mezzi che meglio consentano ai partiti comunisti di realizzare contemporaneamente queste condizioni rivoluzionarie di natura soggettiva, basandosi sulle condizioni oggettive e sul procedimento dei loro sviluppi. 
 

Costituzione dei Partiti Comunisti e della Internazionale Comunista

Il fallimento della Seconda Internazionale e la rivoluzione russa hanno dato luogo alla ricostituzione della ideologia rivoluzionaria del proletariato, ed alla sua riorganizzazione politica nelle file della Internazionale Comunista. 
L’Internazionale Comunista, per rispondere al suo compito di unificazione nella lotta del proletariato di tutti i paesi verso lo scopo finale della rivoluzione mondiale, deve prima di tutto assicurare la propria unità di programma e di organizzazione. Tutte le sezioni e tutti i militanti dell’Internazionale Comunista devono essere impegnati dalla loro adesione di principio al comune programma dell’Internazionale Comunista. 
La organizzazione internazionale, eliminando tutte le vestigia del federalismo della vecchia Internazionale, deve assicurare il massimo di centralizzazione e di disciplina. Questo processo si svolge tuttora attraverso le difficoltà derivanti dalle differenti condizioni dei vari paesi e dalle tradizioni dell’opportunismo. Esso si risolverà efficacemente non con espedienti meccanici, ma con la realizzazione di una effettiva unità di metodo, che ponga in evidenza i caratteri comuni all’azione dei gruppi di avanguardia del proletariato nei vari paesi. 
Non si può ammettere che un qualunque gruppo politico possa essere inquadrato nella disciplina e nella organizzazione rivoluzionaria internazionale in virtù della semplice sua adesione a dati testi, e con la promessa di osservanza di una serie d’impegni. Si deve invece tener conto del processo reale svoltosi nei gruppi organizzati che agiscono nella politica proletaria (partiti e tendenze) e della formazione della loro ideologia e della loro esperienza di azione per giudicare se, ed in quale misura, possono essi far parte della Internazionale Comunista. 
Le crisi disciplinari dell’Internazionale Comunista dipendono da un doppio aspetto che assume oggi l’opportunismo tradizionale: quello di accettare con entusiasmo le formulazioni dell’esperienza tattica dell’Internazionale Comunista, senza intenderne la solida coordinazione ai fini rivoluzionari ma cogliendone le forme esteriori di applicazione come un ritorno ai vecchi metodi opportunisti destituiti di ogni coscienza e volontà finalistica e rivoluzionaria, e quello di rifiutare quelle formulazioni della tattica con una critica superficiale che le dipinge come una rinuncia e un ripiegamento rispetto agli obiettivi programmatici rivoluzionari. Nell’uno e nell’altro caso si tratta di incomprensione dei rapporti che corrono tra l’impiego dei mezzi e i fini comunisti. 
Per eliminare i pericoli opportunisti e le crisi disciplinari, la Internazionale Comunista deve appoggiare la centralizzazione organizzativa sulla chiarezza e la precisione delle risoluzioni tattiche e sulla esatta definizione dei metodi da applicare. 
Una organizzazione politica, fondata cioè sulla adesione volontaria di tutti i suoi membri, risponde alle esigenze dell’azione centralizzata solo quando tutti i suoi componenti abbiano visto ed accettato l’insieme dei metodi che dal centro può essere ordinato di applicare nelle varie situazioni. 
Il prestigio e l’autorità del centro, che non dispongono di sanzioni materiali, ma si avvalgono di coefficienti che restano nel dominio dei fattori psicologici, esigono assolutamente chiarezza, decisione e continuità nelle proclamazioni programmatiche e nei metodi di lotta. In questo sta la sola garanzia di poter costituire un centro di effettiva azione unitaria del proletariato internazionale. 
Un’organizzazione solida nasce solo dalla stabilità delle sue norme organizzative; che assicurando ogni singolo della loro applicazione imparziale, riduce al minimo le ribellioni e le diserzioni. Gli statuti organizzativi, non meno della ideologia e delle norme tattiche, devono dare un’impressione di unità e di continuità. 

Per queste considerazioni, poggiate su di una ricca esperienza, nel passaggio dal periodo di costruzione dell’Internazionale dei partiti comunisti a quello della azione del Partito Comunista Internazionale, si presenta necessaria l’eliminazione di norme di organizzazione affatto anormali. Tali sono le fusioni di sezioni isolate dell’Internazionale con altri organismi politici, il fatto che taluna di queste possa essere costituita non sul criterio delle adesioni personali, ma su quello della adesione di organizzazioni operaie, la esistenza di frazioni o gruppi di organizzati su basi tendenziali nel seno della organizzazione, la penetrazione sistematica e il noyautage in altri organismi che abbiano natura e disciplina politica (il che si applica ancor più a quelli di tipo militare). 
Nella misura in cui la Internazionale applicherà tali espedienti, si verificheranno manifestazioni di federalismo e rotture disciplinari. Se dovesse arrestarsi o invertirsi il processo per tendere alla eliminazione di tali anormalità o se queste dovessero elevarsi a sistema, si presenterebbe con estrema gravità il pericolo di una ricaduta nell’opportunismo.
 

La conquista delle masse

Compito fondamentale dei partiti comunisti è la conquista di una sempre maggiore influenza sulle masse. A tale scopo essi devono ricorrere a tutti quei mezzi tattici che la situazione oggettiva rende opportuni e che valgono ad assicurare una estensione sempre maggiore negli strati del proletariato della influenza ideologica e delle varie forme che si appoggiano sul Partito. 

La conquista delle masse non si può realizzare con la semplice propaganda delle ideologie del Partito e col semplice proselitismo, ma partecipando a tutte quelle azioni a cui i proletari sono sospinti dalla loro condizione economica. Bisogna far capire ai lavoratori che queste azioni non possono per se stesse assicurare il trionfo dei loro interessi: esse possono solo fornire un’esperienza, un risultato organizzativo ed una volontà di lotta da inquadrare nella lotta rivoluzionaria generale. A ciò si riesce non negando tali azioni, ma stimolandole con l’incitare i lavoratori ad intraprenderle e presentando ad essi quelle rivendicazioni immediate che servono a realizzare un’unione sempre più larga di partecipanti alla lotta. 
Anche nelle situazioni di sviluppo normale del capitalismo, per i partiti marxisti rivoluzionari era una necessità fondamentale la lotta per le rivendicazioni economiche concrete dei gruppi proletari sul terreno dei sindacati e dei gruppi affini. Anche le rivendicazioni di ordine sociale politico generale devono servire al lavoro rivoluzionario. Ma queste rivendicazioni non devono formare il terreno di un compromesso con la borghesia attraverso il quale il proletariato paghi le concessioni di questa con la rinunzia alla indipendenza delle sue organizzazioni di classe ed alla propaganda del programma e dei metodi rivoluzionari. 
Attraverso le azioni per le rivendicazioni parziali il partito comunista realizza un contatto con la massa che gli permette di fare nuovi proseliti: perché completando con la sua propaganda le lezioni della esperienza, il Partito si acquista simpatia e popolarità e fa nascere attorno a sé tutta una rete più larga di organizzazione collegata ai più profondi strati delle masse e dall’altra parte al centro direttivo del partito stesso. In questo senso si prepara una disciplina unitaria della classe operaia. Ciò si raggiunge col noyautage sistematico dei sindacati, delle cooperative e di ogni forma di organizzazione di interessi della classe operaia. Analoghe reti organizzative devono sorgere appena possibile in tutti i campi della attività del Partito: lotta armata e azione militare, educazione e cultura, lavoro tra i giovani e tra le donne, penetrazione dell’esercito e così via. L’obiettivo di tale lavoro è la realizzazione di una influenza non solo ideologica ma anche organizzativa del partito comunista sulla più grande parte della classe operaia. Per conseguenza, nel loro lavoro nei sindacati i comunisti tendono a realizzare la massima estensione della base di essi, come di tutte le organizzazioni di natura analoga, combattendo ogni scissione e propugnando la unificazione organizzativa dove la scissione esiste, pur che sia loro garantito un minimo di possibilità di lavorare per la propaganda e pel noyautage comunista. Tale attività in casi speciali può anche essere illegale e segreta. 
I partiti comunisti, pur lavorando col programma di assicurarsi la direzione delle centrali sindacali, apparato indispensabile di manovra nelle lotte rivoluzionarie, col mezzo della conquista della maggioranza degli organizzati, accettano in ogni caso la disciplina alle decisioni di questo e non pretendono che negli statuti delle organizzazioni sindacali ed affini od in patti speciali, venga sancito l’impegno ad un controllo del partito.
 

Il Fronte Unico

L’offensiva del capitale e i suoi particolari caratteri attuali offrono speciali possibilità tattiche ai partiti comunisti per accrescere la loro influenza sulle masse. Da questo sorge la tattica del fronte unico. 
L’offensiva capitalista ha il doppio obiettivo di distruggere le organizzazioni proletarie capaci di offensiva rivoluzionaria, ed intensificare altresì lo sfruttamento economico dei lavoratori per tentare la ricostituzione dell’economia borghese. L’offensiva capitalista urta quindi direttamente contro gli interessi anche di quei proletari che non sono guadagnati ancora alla coscienza ed allo inquadramento rivoluzionario, ed assale quelle stesse organizzazioni che non hanno un programma rivoluzionario e sono dirette da elementi opportunisti. La burocrazia che inquadra tali organismi, ben comprendendo che l’accettare la lotta anche soltanto difensiva equivale a porre un problema rivoluzionario ed a schierare i lavoratori su di un fronte di lotta contro la classe borghese e le sue istituzioni, sabota anche la pura resistenza difensiva, mentre rinunzia all’illusorio programma di un miglioramento graduale delle condizioni di vita del proletariato. Tale situazione permette ai partiti comunisti di condurre alla lotta anche la parte degli operai che non ha una coscienza politica sviluppata. I partiti comunisti hanno la possibilità d’invitare questi strati di lavoratori ad azioni unitarie per quelle rivendicazioni concrete ed immediate che consistono nella difesa degli interessi minacciati dalla offensiva del capitale. 
A tale scopo i comunisti propongono un’azione comune di tutte le forze proletarie inquadrate nelle organizzazioni, delle più diverse tendenze. 
Questa tattica non deve mai venire in contrasto col compito fondamentale del partito comunista: cioè la diffusione in seno alla massa operaia della coscienza che solo il programma comunista e l’inquadramento organizzativo attorno al partito comunista la condurrà alla sua emancipazione. 
Le prospettive del fronte unico sono duplici. L’invito al fronte unico servirà per una campagna contro i programmi e la influenza delle altre organizzazioni proletarie, se esse rifiuteranno l’invito alla azione fatta dai comunisti; è evidente, in tal caso, il vantaggio del partito comunista. Se invece si giunge realmente ad un’azione cui partecipino tutte le organizzazioni proletarie e tutto il proletariato, il partito comunista si prefigge di riuscire a prendere la dirigenza del movimento, quando le condizioni generali permettano di condurlo ad un sbocco rivoluzionario. Quando questo non sia possibile, il partito comunista deve tentare con ogni mezzo di realizzare – attraverso le vicende della lotta, un successo parziale od anche l’insuccesso se esso è inevitabile – la convinzione da parte delle masse che il partito comunista è il meglio preparato a far prevalere la causa del proletariato. Il partito comunista, se avrà precedentemente fatta una campagna sulle precise proposte che garantirebbero il successo della lotta, potrà, attraverso la partecipazione in prima linea delle sue forze alla azione comune, farà sì che le masse si formino la convinzione che la vittoria sarà possibile quando su di esse non avranno una influenza prevalente le organizzazioni non comuniste. 
La tattica del fronte unico è dunque un mezzo per la conquista di una preponderante influenza ideologica ed organizzativa del Partito. 
La istintiva tendenza della masse all’unità deve essere utilizzata quando può servire allo impiego favorevole della tattica del fronte unico: deve essere combattuta quando condurrebbe al risultato opposto. 
Il grave problema tattico del fronte unico presenta dunque dei limiti al di fuori dei quali la nostra azione verrebbe a mancare ai propri fini. Questi limiti devono essere definiti in rapporto al contenuto delle rivendicazioni ed ai mezzi di lotta da proporre, ed in rapporto alle basi organizzative da proporre o da accettare come piattaforma delle forze proletarie. 
Le rivendicazioni che il partito comunista avanza per il fronte unico devono essere tali da non mettersi in contrasto con i programmi dei vari organismi di cui si propone la coalizione, e da essa raggiungibili con metodi di lotta che nessuno di tali organismi rifiuta per principio. 
Solo in tal caso si potrà fare una campagna contro le organizzazioni che rifiutassero la loro adesione alla proposta del fronte unico: ed in caso opposto solo in tal caso sarà possibile utilizzare a vantaggio della influenza comunista lo svolgimento dell’azione. 
Tutte le rivendicazioni perseguibili con l’azione diretta del partito possono essere affacciate: la difesa dei salari e dei patti di lavoro della industria e dell’agricoltura, la lotta contro i licenziamenti e la disoccupazione, la difesa effettiva del diritto di associazione e di agitazione. 
Come mezzi di lotta possono essere proposti tutti quelli che il partito comunista non rifiuta per le proprie azioni indipendenti, e quindi tutte le forme di propaganda, di agitazione e di lotta in cui la classe proletaria si pone nettamente e dichiaratamente contro il capitale. 
Infine, le basi della coalizione debbono essere tali che, essendo noto alla masse l’insieme delle proposte comuniste, anche quando gli altri organismi proletari non le abbiano accettate, ma tuttavia iniziano un’azione generale proletaria (ad esempio: usando gli stessi mezzi di lotta consigliati dal Partito Comunista, sciopero generale, ecc.ecc. ma con altri obbiettivi), il Partito Comunista non tenendosi estraneo all’azione comune, possa però riversare la responsabilità dell’indirizzo di questo sugli altri organismi in caso di sconfitta del proletariato. 
Il Partito Comunista non accetterà dunque di far parte di organismi comuni a vari organismi politici, che agiscano con continuità e con responsabilità collettiva, alla direzione del movimento generale del proletariato. Il partito comunista eviterà anche di apparire compartecipe a dichiarazioni comuni con partiti politici, quando queste dichiarazioni contraddicano in parte al suo programma e siano portate al proletariato come risultato di negoziati per trovare una linea di azione comune. 
Specialmente nei casi in cui non si tratti di una breve polemica pubblica con la quale si invitano altri organismi all’azione prevedendo con sicurezza che essi si rifiuteranno, ma vi è invece la possibilità di giungere ad una lotta in comune, si dovrà realizzare il centro dirigente della coalizione in una alleanza di organismi proletari a carattere sindacale od affini. In tal guisa questo centro si presenterà alle masse come conquistabile da parte dei vari partiti che agiscono in seno agli organismi operai. 
Solo in tal modo si assicurerà l’utile impiego della tattica dell’unità di fronte anche attraverso una azione che per l’influenza degli opportunisti, finisca in una vittoria incompleta o in una sconfitta della classe operaia.
 

Il governo operaio

Le rivendicazioni immediate che interessano il proletariato possono anche essere legate alla politica dello Stato. 
Queste rivendicazioni debbono essere formulate dal partito comunista e proposte come obbiettivi di un’azione di tutto il proletariato condotta mediante una pressione esterna sul governo, esercitata con tutti i mezzi di agitazione. 
Quando il proletariato si trova dinnanzi alla constatazione che per conseguire tali rivendicazioni occorre che il governo esistente sia cambiato, il partito comunista deve appoggiare su questo fatto la sua propaganda per il rovesciamento del potere borghese e la dittatura proletaria: analogamente a quanto deve farsi quando i lavoratori constatano che le loro richieste economiche non trovano posto nel quadro dell’economia capitalistica. 
Quando il regime di governo si trova, pel rapporto di forze sociali, in una situazione critica, occorre fare del rovesciamento di esso non una semplice parola di propaganda, ma una rivendicazione concreta accessibile alla massa. Tale rivendicazione (il potere ai Soviet, ai Comitati di Controllo, ai Comitati dell’Alleanza Sindacale) può essere posta ai lavoratori di tutti i partiti e senza partito rappresentati in tali organismi. Tutti i lavoratori saranno portati ad accettarla anche contro i loro capi. Essa si inquadra nel compito politico proprio del partito comunista, in quanto la sua realizzazione comporta la lotta rivoluzionaria e la soppressione della democrazia borghese, e il proporlo induce su questa via tutta la massa proletaria. Ma non è da escludersi che una tale parola extra parlamentare possa essere data anche nel Parlamento o in una campagna elettorale. 
Parlare di governo operaio come di un governo di coalizione dei partiti operai, senza indicare quale sarà la forma della istituzione rappresentativa su cui tale governo potrà appoggiarsi, significa non lanciare una rivendicazione comprensibile agli operai, ma solo dare una parola di propaganda che confonde i termini della preparazione ideologica e politica rivoluzionaria. I partiti sono organizzazioni costituite per prendere il governo, ed i partiti che formano il governo operaio non possono essere quelli che sono per la conservazione delle istituzioni parlamentari borghesi. 
Parlare di governo operaio dichiarando o non escludendo che esso può sorgere da una coalizione parlamentare alla quale partecipi il partito comunista, significa negare praticamente il programma politico comunista, ossia la necessità della preparazione delle masse alla lotta per la dittatura. 
La situazione politica mondiale non è tale da far prevedere la formazione di governi di passaggio tra il regime borghese parlamentare e la dittatura proletaria, ma piuttosto di governi di coalizione borghese, che condurranno con estrema energia la lotta per la difesa controrivoluzionaria. Se i governi di transizione dovessero aversi, è una necessità di principio per il partito comunista di lasciare la responsabilità di dirigerli ai partiti socialdemocratici, fino a quando essi sorgono sulla base delle istituzioni borghesi. Solo così il partito comunista può dedicarsi alla preparazione della conquista rivoluzionaria del potere e alla eredità del governo di transizione.
 

La conquista delle masse inorganizzate

L’esistenza di forti e fiorenti organizzazioni economiche è una buona condizione per il lavoro di penetrazione delle masse. L’accentuarsi del dissesto della economia capitalista crea una situazione oggettivamente rivoluzionaria. Ma poiché la capacità di lotta del proletariato, al momento in cui dopo l’apparente floridezza del dopo-guerra immediato la crisi è apparsa in tutta la sua gravità, s’è rivelata insufficiente, assistiamo oggi allo svuotamento dei sindacati e di tutte le organizzazioni analoghe in moltissimi paesi: in altri è prevedibile che un tale fenomeno non tarderà a verificarsi. 
Per conseguenza, la preparazione rivoluzionaria del proletariato si rende difficile, malgrado il dilagare della miseria e del malcontento. 
Si pone in prima linea il problema dell’inquadramento dietro i partiti comunisti degli strati dei senza lavoro e degli elementi proletari ridotti in un stato caotico dalla paralisi della macchina produttiva. È possibile che questo problema tra qualche tempo apparirà più grave di quello della conquista degli operai che seguono gli altri partiti proletari, attraverso le organizzazioni economiche da questi dirette, problema che viene bene affrontato con la tattica del fronte unico. Si deve anzi ritenere che, accompagnandosi alla decadenza economica la intensità dell’azione unitaria controrivoluzionaria di tutte le forze borghesi, si svuoteranno più rapidamente gli organismi economici proletari non comunisti. I termini del problema della conquista delle masse verranno modificati. 
Si dovrà realizzare una nuova forma di organizzazione degli interessi proletari, dovendosi sempre poggiare il lavoro rivoluzionario sulle reali situazioni concrete. Nella fase attuale si delinea il compito di inquadrare attorno ai Comitati e agli organi del fronte unico delle organizzazioni, con opportune forme di rappresentanza, gli strati dei proletari senza organizzazione. Il partito comunista dovrà essere il centro della lotta e della riscossa contro la centralizzazione reazionaria capitalistica tendente ad imporsi su una classe operaia sparpagliata e dispersa e definitivamente abbandonata a se stessa dalla burocrazia opportunista. 
  
 
"Lo Stato Operaio", 6 marzo 1924 

  
 

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