DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Appaiono riuniti nella prima parte di questo volume, oltre alle tesi sul ruolo del Partito comunista nella rivoluzione proletaria approvate al II Congresso della III Internazionale nel 1920 e corredate da un nostro commento, quattro testi dedicati allo stesso tema e emananti dalla Sinistra comunista italiana: i tre primi pubblicati nel 1921-1922, quando sulle sue posizioni si era schierato tutto il Partito Comunista d’Italia, e il quarto redatto nel secondo dopoguerra, quando la Sinistra si era ormai organizzata in partito fuori e contro le organizzazioni coinvolte nell’irrimediabile degenerazione staliniana.

La piena concordanza fra tutti questi testi - proclami ed armi di battaglia - balza evidente agli occhi del lettore ignaro del fatto che, al II Congresso dell’Internazionale Comunista, il rappresentante della Sinistra italiana vi portò l’adesione incondizionata della sua corrente.

Comune a tutti è l’affermazione del ruolo primario del Partito non solo nella preparazione e nell’attuazione della conquista rivoluzionaria del potere, ma anche - giacché la guerra delle classi, lungi dall’attenuarsi dopo la rivoluzione, si acutizza e si estende alla scala mondiale -, nell’esercizio della dittatura proletaria.

Comune è la condanna delle correnti di varia origine e natura che - come vedremo più avanti - negano quel ruolo, condanna che pone la Sinistra italiana nel solco delle ardenti polemiche di Marx ed Engels contro il proudhonismo e il suo erede bakuninista, espressioni tipiche e ricorrenti delle bastarde “mezze classi” agenti in diretta antitesi al divenire storico obiettivo del modo di produzione capitalistico e, per riflesso, alle esigenze del suo superamento rivoluzionario.

Comune il riconoscimento - del tutto coerente alla definizione della natura e del compito del partito - della necessità di una stretta centralizzazione, e il rifiuto così di ogni autonomia delle organizzazioni locali del Partito stesso, come della pretesa delle forme immediate  del movimento operaio (sindacati, consigli di azienda, cooperative, ecc.) alla neutralità politica e alla “apartiticità”.

I testi della Sinistra vanno tuttavia più a fondo nella precisazione dei concetti di Partito e Classe, e, parallelamente, nella definizione dei compiti del primo come guida organizzata della seconda.

Anzitutto, riprendendo una scultorea formulazione del Manifesto dei Comunisti, essi affermano e svolgono il concetto che la classe è veramente tale, cioè non più aggregato di individui statisticamente accomunati dalla identità o affinità della loro posizione nel processo produttivo, ma forza unitaria tendente verso un obiettivo finale e cosciente della storica via che ad esso conduce, solo in quanto abbia espresso dal suo seno il Partito: “organizzazione del proletariato in classe - dice il Manifesto - quindi in partito politico”. Pochi mesi prima del II Congresso mondiale, la Frazione Comunista Astensionista del Partito Socialista Italiano (1) condensava questo concetto nella formula seguente: “La lotta decisiva rivoluzionaria diretta contro lo Stato borghese…è il conflitto di tutta la classe proletaria contro tutta la classe borghese. Il suo strumento è il partito politico di classe, il Partito Comunista, che realizza la cosciente organizzazione di quella avanguardia del proletariato che ha compreso la necessità di unificare la propria azione; nello spazio, al di sopra degli interessi dei singoli gruppi, categorie o nazionalità; nel tempo, subordinando al risultato finale della lotta i vantaggi e le conquiste parziali che non colpiscono l’essenza della struttura borghese. E’ dunque soltanto l’organizzazione in partito politico che realizza la costituzione del proletariato in classe lottante per la sua emancipazione”; o, potremmo aggiungere con Marx, in “classe non più per il capitale, ma per sé” ( Miseria della filosofia).

In questo senso, del resto ben presente ai bolscevichi, la Sinistra preferì fin d’allora al termine ‘parte’, sia pure avanzata, ‘della classe operaia’, quella di ‘organo’, che assai meglio caratterizza il partito, fuori da ogni possibilità di interpretazione statistica, e come forza sintetizzatrice delle innumerevoli spinte rivoluzionarie nascenti dalle condizioni materiali e di vita della forza lavoro nella società capitalistica, e come forma reale della costituzione del proletariato, prima in classe, poi in classe dominante attraverso la presa del potere e l’esercizio della dittatura sulla classe vinta.

Che, in questo, la Sinistra non fosse guidata da scrupoli accademicamente dottrinari o, peggio, da mania di sottigliezze terminologiche, non apparirà allora, quando tutta l’Internazionale era schierata su un fronte omogeneo di battaglia teorica e pratica, ma allorché, nel riflusso dell’ondata rivoluzionaria mondiale e nei primi annunzi di infiltrazione opportunistica nello stato maggiore internazionale della rivoluzione comunista, la potente costruzione delle Tesi sul ruolo del Partito verrà incrinata, pretendendosi dapprima che, come ‘parte’ della classe operaia, il partito non fosse più definito dal suo cammino storico - cioè dal suo programma, dalla sua strategia di lotta, dalla sua visione dei problemi tattici e organizzativi - ma dalla sua composizione sociale meccanicamente e statisticamente ‘proletaria’ (2), e poi, sempre come ‘parte’, si adattasse, in un progressivo abbandono delle sue posizioni di principio, ai mutevoli orientamenti del ‘tutto’, alle contingenti reazioni del proletariato alle vicissitudini alterne della lotta fra le classi. Si ricadde così, da un lato, in quella stessa concezione “industrialista” che le Tesi del 1920 avevano bollato respingendo la formula del “Partito che deve assumere carattere proletario”, dall’altro in quella subordinazione alla vera o presunta “volontà della massa”, anche se temporaneamente influenzata in senso reazionario da situazioni negative, in cui le Tesi del 1920 avevano ravvisato l’origine della capitolazione dei partiti della III Internazionale di fronte al nemico di classe e alla sua guerra imperialistica.

Non era questo, lo ripetiamo, il pensiero di Lenin e della gloriosa vecchia guardia bolscevica, come si può vedere da ogni riga delle Tesi. Ma l’insistenza della Sinistra nell’esigere che i concetti teorici, come le parole d’ordine pratiche, fossero - anche a costo di una certa schematizzazione - definiti nel modo più chiaro, e posti al riparo da equivoci e, peggio, da deformazioni, mette in risalto un altro dei punti costantemente da essa rivendicati in seno all’Internazionale: le formule usate dal partito non sono mezzi “neutri” e “indifferenti”, sono forze reali che condizionano il partito stesso e, mentre sono un coefficiente della giusta direzione del suo moto quando sono esatte, diventano o sono suscettibili di diventare, nel caso inverso, un fattore del suo allontanamento dal programma, dagli interessi generali della classe, e quindi dal suo ruolo storico.

Le Tesi del 1920 definirono questo ruolo distinguendo la forma-partito dalle altre forme, necessarie ma subordinate, del movimento operaio, per il possesso da parte sua della coscienza della missione storica del proletariato, e della “visione generale” della strada che questo dovrà percorrere di là dagli svolti alterni e spesso contraddittori di una lotta titanica. E ne dedussero un insieme di regole di organizzazione basate - col pieno accordo della Sinistra - sui criteri della massima centralizzazione dell’apparato partito. La definizione di queste regole e la codificazione di questi criteri erano necessarie; ma, secondo la Sinistra, non sufficienti a “darci il partito di cui abbiamo bisogno”. Centralizzazione e disciplina sono l’altra faccia dell’unicità e invarianza del programma: la Sinistra si batté in lunghi anni affinché la teoria ed il programma del partito mondiale del proletariato fossero stabiliti in modo univoco ed immutabile, e che in esso fossero codificate le grandi eventualità tattiche di cui il partito deve possedere la nozione anticipata (3), e la cui soluzione, nota e obbligatoria per tutti, esso non può e non deve abbandonare al caso e all’arbitrio di “scelte” nazionali, locali, contingenti, personali. Nel rispetto di questo legame dialettico che unisce centro e periferia, dirigenti e militanti “comuni”, generazioni passate presenti e venture del movimento comunista, Internazionale e sezioni “nazionali”, è la chiave di una centralizzazione e di una disciplina che non sono meccaniche, che non sono esteriori, ma che rappresentano l’espressione vivente di una forza reale, il partito, muoventesi come un blocco unico verso un obiettivo unico (4).

Allentate le maglie del programma, lasciate la porta aperta alla scelta “locale” dei mezzi tattici, condizionate la conquista della necessaria influenza sui più vasti strati possibili della classe operaia all’uso di espedienti “imprevisti” e non perfettamente collimanti con gli obiettivi strategici del movimento (come si comincerà a fare nel 1922 e come alla Sinistra parve di poter temere che si facesse già nel 1921), e avrete distrutta la base stessa di un’autentica centralizzazione e di una vera disciplina. Fate un passo ancora, e, per tenere insieme le membra disgiunte di un partito mondiale e non più omogeneo dal punto di vista programmatico e tattico, non vi resterà altro che l’applicazione formale ed esteriore di una disciplina “burocratica” poggiante sulle sanzioni materiali di un apparato statale repressivo: avrete non già la disciplina, ma il terrore disciplinare sul partito; non la centralizzazione, ma l’irreggimentazione stalinista.

Non dunque un Partito qualunque, disponibile per la sua rigida disciplina ai fini di cause qualsiasi, è necessario alla guida della rivoluzione proletaria; ma un Partito disciplinato e centralizzato, al centro come alla periferia, nell’osservanza, nella difesa e nell’attuazione, di un piano di lotta previsto e codificato. Nulla di diverso aveva scritto Trotskij nei suoi Insegnamenti della Comune di Parigi (1920): “Solo con l’aiuto di un partito che si appoggia sul suo passato storico, che prevede teoricamente il corso dello sviluppo e le sue tappe successive, e ne conclude quale forma di azione è la più giusta nel momento dato, solo con l’aiuto di un simile partito il proletariato può liberarsi dalla necessità di ripetere la propria storia, le proprie oscillazioni, la propria indecisione e i propri errori” (5). In questa capacità di previsione - premessa della capacità di mirare in tutti i momenti all’obiettivo senza tentennamenti, senza indecisioni, senza ripetere gli errori commessi, quindi col massimo di centralizzazione e disciplina - era stata la grande forza del Partito russo. Toccò alla Sinistra ricordarlo agli stessi bolscevichi.

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Le tesi del 1920 dell’I.C., che miravano a distinguere nettamente la posizione dei comunisti di fronte a tutti questi problemi dall’atteggiamento sia dei revisionisti di destra - riformisti socialdemocratici e laburisti - che da quello dei revisionisti di sinistra -sindacalisti rivoluzionari e anarchici -, restano storicamente fondamentali tanto più oggi che l’opportunismo piccolo-borghese è dilagato ovunque. Esse si adagiano completamente sulla linea della grande tradizione dottrinaria marxista anche in quanto sono un’arma di battaglia, uno strumento di polemica teorica e di combattimento politico. Conviene brevemente ricordarlo.

Seguito di un anno alla demolizione del proudhonismo - matrice comune di tutte le ulteriori varianti di socialismo piccolo-borghese e gradualista - il Manifesto del 1848, prima di svolgere nell’ultima sezione una critica dettagliatadi tutte le “scuole” e tendenzeaberranti, ripercorre in una sintesi grandiosa le tappe dialetticamente successive che il proletariato percorre nella tormentata via della sua organizzazione in classe: dallo stadio in cui “gli operai costituiscono una massa dispersa sull’intero paese e frantumata dalla concorrenza”, a quello in cui “il vero risultato delle loro lotte” (in quanto distinto dal loro “successo immediato”) è “di centralizzare le molte lotte locali di carattere dovunque identico in una lotta nazionale (poi “internazionale”), in una lotta di classe”; dunque, dalle lotte economiche e dalle agitazioni immediate fino alla lotta di classe aperta (“e ogni lotta di classe è una lotta politica”) e di qui alla “organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico”.

Già qui la linea che va fino al 1920 appare ininterrotta: condanna di ogni individualismo e localismo, come di ogni apoliticismo e apartitismo; affermazione che il proletariato in tanto agisce come classe storica, in quanto si costituisce in partito politico.

Notoriamente, il Manifesto non parla di “dittatura”, sebbene il concetto sia implicito nella formula di “classe dominante” che presuppone una classe “dominata”, e in quello degli “interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti di produzione borghesi” che il potere politico conquistato dai proletari dovrà impiegare “come mezzo per rivoluzionare l’intero modo di produzione”, anche se, all’inizio, possono “apparire economicamente insufficienti e insostenibili”: Il principio della “dittatura del proletariato” si precisa tuttavia nel corso delle grandi battaglie del 1848-49 (6) e negli anni immediatamente successivi. Prima ancora della famosa lettera a Weydemeyer del 1852, ripresa da Lenin in Stato e rivoluzione come chiave di volta della dottrina marxista dello Stato, lo statuto redatto da Marx nell’aprile del 1850 della “Weltgesellschaft der revolutionären Kommunisten” contiene al suo 1° art. la formula lapidaria: scopo della lega è “l’abbattimento di tutte le classi privilegiate, la loro sottomissione alla dittatura dei proletari, in cui la rivoluzione viene mantenuta in permanenza fino alla realizzazione del comunismo”; formula nella quale sono contenuti i due concetti inseparabili della necessità della presa violenta e dittatoriale del potere come punto non di arrivo ma di inizio di una lotta di classe sempre più vasta ed estesa nello spazio e nel tempo, e quindi della necessità di un organo di centralizzazione e di guida, il partito politico (7).

E’ vero che il secondo concetto non è espressamente formulato. Ma lo sarà non molto dopo, e proprio in seguito alla lunga battaglia polemica non più con i riformisti e gradualisti, ma con gli anarchici. A chiusura di questo ciclo, al congresso dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori all’Aia, 1872, Marx aggiungerà agli Statuti del 1864 il cruciale articolo 7a): “Nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti, il proletariato può agire come classe SOLO organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti”, e precisa subito dopo: “Questa organizzazione del proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione sociale e il raggiungimento del suo fine ultimo - la soppressione delle classi”) (8).

 Nel 1873, Engels ritorna sulla questione in una lettera (Dell’Autorità) alle sezioni italiane dell’Internazionale, ancora suggestionate dall’antistatalismo e antipartitismo bakuninista. La formula è inequivocabile: “Una rivoluzione è certamente la cosa più autoritaria che vi sia: è l’atto per il quale una parte della popolazione impone la sua volontà all’altra parte col mezzo di fucili, baionette e cannoni, mezzi autoritari se ve ne sono; e il partito vittorioso, se non vuol aver combattuto invano, deve continuare questo dominio col terrore che le armi ispirano ai reazionari”. E’ la lezione della Comune parigina; e all’affermazione Engels fa seguire la negazione: “Delle due l’una: o gli antiautoritari [che, non dimentichiamolo, negano sia lo Stato che il Partito] non sanno ciò che dicono, e in questo caso non seminano che la confusione; o lo sanno, e in questo caso tradiscono il movimento del proletariato. Nell’un caso e nell’altro, essi servono la reazione(9).

La serie ascendente è così scolpita da Marx e da Engels con una nettezza di contorni alla quale le conferme storiche delle lotte di oltre cinquant’anni successivi non faranno che dare un più aspro rilievo: prima, lotte locali, sparpagliate e disorganiche, suscitate dalle condizioni immediate di vita dei salariati, - poi loro trasformazione e centralizzazione in lotte nazionali e internazionali generalizzate di classe, quindi in lotte politiche - costituzione del proletariato in classe mediante l’organo di questa centralizzazione, il partito politico, - costituzione della classe proletaria in classe dominante attraverso la rivoluzione violenta, e mantenimento di questo dominio con il terrore sotto la direzione del partito - infine scomparsa del proletariato come classe, e quindi anche del partito politico, con la realizzazione del comunismo pieno.

Il grande nodo storico, in cui la visione teorica marxista diverrà carne e sangue del movimento proletario militante, sarà l’Ottobre 1917. E sarà Lenin, quindici anni dopo il Che fare?, a scrivere alla sua vigilia: “La dottrina della lotta di classe, applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè che esso non condivide con nessuno e che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse. L’abbattimento della borghesia non è realizzabile se non attraverso la trasformazione del proletariato in classe dominante capace di reprimere la resistenza inevitabile, disperata, della borghesia, di organizzare per un nuovo regime economico tutte le masse lavoratrici e sfruttate. Il potere statale, l’organizzazione centralizzata della forza, l’organizzazione della violenza, sono necessari al proletariato sia per reprimere la resistenza degli sfruttatori, sia per dirigere l’intera massa della popolazione - contadini, piccola borghesia, semiproletariato - nell’opera di “avviamento” dell’economia socialista. Educando il partito operaio, il marxismo educa un’avanguardia del proletariato capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, di essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia”. (Stato e Rivoluzione, II, 1).

Un balzo aldisopra di tre anni; e dal crogiuolo della guerra civile e del Terrore Rosso nasceranno, nel 1920, i due Antikautsky di Lenin e di Trotskij.

“Il ruolo straordinario del partito comunista nella rivoluzione proletaria vittoriosa - dirà allora magnificamente il secondo - è ben comprensibile. Si tratta della dittatura della classe. Nella classe come tale vi sono strati, atteggiamenti, fasi di sviluppo differenti. Ma la dittatura presuppone unità di volere, orientamento, azione.

“Il dominio rivoluzionario del proletariato presuppone il dominio politico, in seno allo stesso proletariato, di partito con un chiaro programma di azione ed un’inviolabile disciplina interna.

“C’è stato spesso rimproverato di aver soltanto fatto balenare la dittatura dei soviet, e di aver esercitato, in effetti, la dittatura del nostro partito. Ma si può affermare a ragion veduta che la dittatura dei soviet è possibile solo mediante la dittatura di partito: grazie alla chiarezza della propria visione teorica ed alla propria salda organizzazione, il partito dà ai soviet la possibilità di convertirsi, da informi parlamenti del lavoro, in apparato di dominio del lavoro”.

Non per patriottismo di partito, ma per l’accumularsi sull’arco di un trentennio delle conferme dirette e a contrario della teoria marxista della Rivoluzione, del Partito e dello Stato, noi crediamo di poter degnamente affiancare ad essi il nostro saggio: Partito di classe e dittatura proletaria (1951), dove il concetto di “delega” al partito e quello di incodificabilità della prassi del partito stesso nell’esercizio della dittatura sono splendidamente svolti.

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Le considerazioni che precedono spiegano l’enorme importanza, ai fini di una ripresa su solide basi del movimento rivoluzionario marxista internazionale, della pubblicazione del presente volume. Essa coincide con una fase storica nella quale vanno lentamente maturando le premesse oggettive di una ripresa su scala generale delle lotte di classe e in cui si impone più che mai di gettare e consolidare le basi soggettive di un loro vittorioso snodamento.

La crisi della III Internazionale ebbe le sue prime manifestazioni nella progressiva lacerazione del tessuto connettivo che, nella costruzione teorica più sopra delineata, lega indissolubilmente gli uni agli altri i principii, il programma, la tattica e l’organizzazione del partito comunista mondiale, del partito di classe. Retrospettivamente (ma il pericolo fu denunciato fin dal 1920, e con sempre maggiore insistenza negli anni successivi, dalla Sinistra “italiana”) non è difficile constatare come, ai fattori materiali d’ordine internazionale che pesarono sui destini - alla lunga purtroppo catastrofici - della gloriosa Internazionale Comunista 1919-20, non sia stato possibile contrapporre in tempo il solido baluardo di un’assimilazione organica e completa di quei principii, di quel programma, di quelle deduzioni tattiche, di quelle norme organizzative, e del loro nesso dialettico. L’Internazionale era nata su basi teoriche granitiche, ma crebbe e si sviluppò in un processo di affrettata convergenza e affiliazione di organismi nazionali legati ad una tradizione affatto eterogenea e spesso antitetica, che, lungi dall’essersi costituiti attraverso una drastica maturazione e selezione ideologica importarono nel “partito mondiale della classe operaia” il bagaglio solo superficialmente “ritoccato” del centrismo prima, del socialdemocratismo poi; nonché di sopravvivenze sindacaliste, aziendiste, e operaiste, rendendo sempre più fragile un’Internazionale già sottoposta alla pressione schiacciante di una situazione russa e mondiale rapidamente deterioratasi.

 E’ una lezione che non deve andar perduta, in questa fase di tormentata preparazione della ripresa internazionale della lotta di classe. Oggi ancor più che allora, per reazione istintiva ma non perciò meno falsa alle devastazioni dello stalinismo, rinasce la suggestione dell’orrore piccolo-borghese e anarchico per la centralizzazione, la dittatura e, prima ancora, il partito (il che vuol anche dire: il programma) - non per la centralizzazione, la dittatura e il partito della controrivoluzione, ma per la centralizzazione, la dittatura, il partito e il programma tout court. Oggi più che allora, è necessario che il partito comunista mondiale nasca sulla base di un’assoluta chiarezza ed omogeneità teorica e programmatica, condizione prima della sua efficienza organizzativa e della sua serrata e non formale disciplina. Banco di prova cruciale di questa omogeneità e chiarezza è la sicura coscienza della natura, del ruolo, del compito del partito nella rivoluzione e nella dittatura proletaria, rivendicati senza alcuna esitazione o attenuazione contro ogni tendenza a svuotarli del loro vero e perenne contributo.

Per questo è polemicamente indispensabile rievocare - come antitesi alla corretta visione marxista - la teorizzazione di questa tendenza di fondo (vecchia, peraltro, come la storia del movimento operaio) nel primo dopoguerra: quella che ebbe per protagonista la falsa “sinistra” del Partito tedesco (a sua volta non sufficientemente immunizzato per resisterle), e che portò ad una prima scissione nel movimento rivoluzionario nell’area decisiva per l’avvenire del comunismo nella stessa Russia e nel mondo (10), del Centro-Europa, deviando su posizioni erronee e obiettivamente liquidatrici una parte dell’avanguardia proletaria e così lasciando campo libero ai ritorni di fiamma centristi in quello Spartakus-Bund che pure aveva offerto in olocausto alla rivoluzione mondiale le vite di Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Leo Jogisches.

 Il movimento operaio in Germania non conobbe quasi quelle correnti anarco-sindacaliste o sindacaliste-rivoluzionarie, in cui noi ravvisiamo la forma tipica di unaconcezione “immediatista” del processo di emancipazione violenta della classe lavoratrice: di una concezione cioè che nega il ruolo centrale e determinante del partito nella rivoluzione proletaria, per sostituirvi quello di organismi indifferenziati, comprendenti l’intera massa dei senza-riserve, e aderenti al tessuto della produzione così come esiste oggi (sindacati, consigli di fabbrica, comitati industriali di reparto e via discorrendo). Ma l’assenza di una tradizione anarco-sindacalista simile a quella da cui fu infestato il movimento operaio nei Paesi latini fin dal secolo scorso, e nei Paesi anglosassoni nel primo ventennio dell’attuale, non impedì che nelle file dell’avanguardia rivoluzionaria tedesca stentasse a radicarsi la corretta visione marxista del partito, dei suoi rapporti con la classe, e dei suoi compiti nell’assalto violento al potere e nell’esercizio dittatoriale di esso.

Lo dimostra con particolare evidenza la posizione di quell’ala del movimento rivoluzionario in Germania che nel 1920, staccandosi dal KPD, fondò il KAPD e che mantenne da allora legami molto stretti con il gruppo olandese di De Tribune, riconoscendone anzi come i propri massimi teorici gli esponenti più significativi, Pannekoek e Gorter. Questa corrente si era battuta con estrema energia contro il socialpatriottismo e contro il riformismo e aveva chiara, come nelle classiche formulazioni della III Internazionale, la nozione della violenza di classe e dell’attacco insurrezionale al potere, mentre, in apparente accordo con la Sinistra italiana, sosteneva che non si potevano applicare meccanicamente alla situazione di capitalismo ultra-avanzato dell’Europa occidentale le soluzioni tattiche date dai bolscevichi al problema della rivoluzione nell’arretrata e in parte precapitalistica Russia. Dietro queste convergenze si celavano tuttavia dissensi profondi che avvicinano i “kaapedisti” e i “tribunisti” più al filone sindacalista del movimento rivoluzionario operaio che a quello genuinamente marxista.

 Nello schema di Gorter e degli altri esponenti del KAPD, l’Europa occidentale era destinata ad essere il teatro di una rivoluzione in cui il proletariato si sarebbe trovato solo di fronte alla compatta schiera della borghesia grande e media, della piccola borghesia e del contadiname: il che , se era esatto nel giusto senso storico di una rivoluzione che solo poteva essere proletaria e non ripetere il ciclo classico delle rivoluzioni doppie, diveniva un’astrazione quando escludeva dalla scena rivoluzionaria (e perciò dai suoi problemi strategici e tattici) l’intervento, sotto la direzione egemonica della classe operaia, di minori strati sociali non-proletari e la neutralizzazione di altri, soprattutto contadini e piccolo-borghesi in genere. D’altra parte, secondo lo stesso schema, la caratteristica sociale di “purezza” proletaria della rivoluzione imminente offriva di per sé la garanzia che la classe operaia, protagonista unica, avrebbe imboccato, senza esitazioni e compromessi, la strada dell’assalto rivoluzionario e violento al potere.

In questa prospettiva, il problema della tattica si identificava, per usare le parole di Gorter, nel “liberare innanzitutto lo spirito del proletariato” alla vigilia dello scontro frontale col potere borghese; “liberarne lo spirito” affinché i proletari fossero posti in condizione di organizzarsi da sé, e di costruire, fuori da ogni intervento disciplinatore e centralizzatore “esterno”, la macchina amministrativa e produttiva della loro dittatura. Tale, e soltanto tale, sarebbe stato il compito dei comunisti: un compito di illuminazione delle “coscienze”, non di guida attiva ed operante di forze reali sprigionantisi   - inconsapevolmente e perfino “contro coscienza” - dal sottosuolo sociale. Ogni forma di organizzazione che, per essere in possesso di una visione generale del percorso storico e della meta finale del movimento proletario, avesse preteso di “rappresentare” la classe nella lotta per il potere e, conquistatolo, nel suo esercizio; ogni forma di organizzazione che non coincidesse con l’intera estensione della classe salariata e non ne fosse la “espressione diretta”, assumeva agli occhi dei “kaapedisti”, l’aspetto sinistro di una forza violentatrice e corruttrice della genuinità del moto di emancipazione proletaria.

Alla storica antitesi proletariato-borghesia (e comunismo-opportunismo), andava quindi sostituendosi l’antitesi del tutto idealistica masse-partiti o, peggio, masse-capi. Una brochure intitolata La scissione del KPD, che si attirò le giuste rampogne di Lenin, poneva così la questione: “Il partito comunista è il partito della lotta di classe più decisa…Sorge la questione chi debba essere il depositario della dittatura: il partito comunista o la classe proletaria?…Si deve per principio tendere alla dittatura del partito comunista o della classe proletaria?”. E rispondeva: “Due partiti comunisti si stanno oggi di fronte: l’uno, il partito dei capi, che mira ad organizzare la lotta rivoluzionaria e a dirigerla dall’alto…l’altro, il partito di massa, che attende l’emergere della lotta rivoluzionaria dal basso, che conosce e impiega per questa lotta un unico metodo dai chiari fini…, il metodo dell’abbattimento radicale della borghesia per erigere poi la dittatura delle masse. Così suona la nostra parola d’ordine!”. Di qui la negazione del “parlamentarismo rivoluzionario” non già in forza dell’argomento marxista (ribadito, ad esempio, dalla Sinistra italiana al II Congresso dell’Internazionale 1920) che l’impiego di quella tattica, valido in determinati svolti storici ed aree geografiche, avrebbe avuto effetti negativi e persino distruttori nei Paesi di avanzato capitalismo e di lunga tradizione democratica deviando la classe proletaria ed il partito dal compito urgente della preparazione rivoluzionaria verso quello delle competizioni elettorali, e infine dell’abbandono della via rivoluzionaria al potere, ma in forza - ancora una volta - dell’argomento che il parlamento e le elezioni sono la classica arena dei “capi” e dei “partiti”, insomma dell’ “autorità”, contrapposta, con un’eco involontaria (ma non perciò meno evidente) dell’orrore anarchico del “potere” metafisicamente inteso come potenza malefica, alla “spontaneità” delle masse. Di qui il rifiuto del sindacato tradizionale - per Lenin e per la Sinistra oggetto di conquista politica da parte dei comunisti, anche se diretti, come nella stragrande maggioranza dei casi, dai peggiori bonzi del riformismo, e “cinghia di trasmissione” della dottrina e delle parole di battaglia del comunismo ai salariati di qualunque categoria e di qualunque affiliazione politica e persino religiosa - a favore di organismi aziendali ritenuti impermeabili alla corruzione appunto perché, e soltanto perché, direttamente controllati dalla totalità dei componenti. Di qui la ricerca di una forma di organizzazione immediata in cui i proletari potessero trovare la garanzia di un orientamento rivoluzionario e classista. Di qui, in alcune manifestazioni estreme della stessa ideologia, il rifiuto della lotta economica e dello stesso sciopero se non come arma e strumento diretto dell’attacco al potere.

Ma, se la negazione del partito come organo reale della rivoluzione balza agli occhi con assoluta evidenza nel KAPD, non si può dire che neppure nel gruppo Spartakus, per gloriosa che sia stata la sua battaglia contro il riformismo e il socialpatriottismo, i termini effettivi della questione del Partito siano mai stati chiari, come ebbe occasione di lamentare Lenin durante la I guerra mondiale. Questa resistenza ad accettare il ruolo dirigente, anche se non esclusivo e di per sé risolutivo, del partito nella rivoluzione proletaria, è visibile per noi non tanto nella troppo nota e sfruttata dai traditori polemica Luxemburg-Lenin del 1904 sul centralismo, o nelle pagine monche ed incomplete, comunque postume, sulla rivoluzione russa della stessa grande rivoluzionaria, quanto nella fatale esitazione a rompere i ponti organizzativi con lo SPD prima, con l’USPD poi, in attesa che la “delega” a questa decisione, certo dolorosa e drammatica, venisse dalla “base” del Partito anziché dall’inequivocabile voce del programma storico del movimento rivoluzionario, strenuamente difeso contro tutti i traditori; è visibile nel tragico destino che portò gli eroici Carlo e Rosa ad essere non già gli attori del rosso gennaio 1919, ma i ricattati dall’opportunismo riformista e centrista in combutta obiettiva e segreta coi massacratori assoldati dalla borghesia e dagli junker; è visibile nella dichiarazione esplicita del KPD al suo congresso di fondazione, tragicamente in ritardo sul moto travolgente della storia: “La Lega Spartaco non prenderà mai il potere governativo se non per la volontà chiara e inequivocabile della grande maggioranza delle masse proletarie in Germania; se non in virtù della sua cosciente adesione alle idee, alle finalità e ai metodi di lotta della Lega Spartaco”, formula che, seppure dettata dalla giusta preoccupazione di escludere le facili soluzioni di un avventato putschismo, preludeva già alla negazione del ruolo storico del partito quale depositario della coscienza del proletariato, e quale guida della sua volontà, nelle tormentose vicissitudini della lotta anticapitalistica.

E’ suggestivo, ma vano, pensare che, senza il sanguinoso olocausto dei suoi militanti migliori nell’inverno e nella primavera del 1919, il Partito tedesco avrebbe potuto raggiungere sulla questione del partito di classe, del suo ruolo e della sua tattica, la chiarezza che gli eventi non gli avevano fino allora consentito di fare in sé e intorno a sé e la cui mancanza graverà come una fatale palla di piombo al piede dei proletari bavaresi ed ungheresi nello stesso glorioso, ma sfortunato 1919. Certo è che, ricostituitosi senza una solida piattaforma teorica, il Partito Comunista di Germania non solo mostrerà negli anni successivi di non saper resistere agli sbandamenti di elementi e correnti eterogenee nel proprio seno (i Levi, i Brandler) e di non riuscire ad esprimere dalle proprie file una sinistra armata di una visione generale e continua del processo rivoluzionario (basti pensare ai paurosi zig-zag e alla finale dégringolade della corrente cosiddetta di sinistra Fischer-Maslow-Korsch), ma di non essere in grado di divenire il perno internazionale di un fronte omogeneo di resistenza al processo degenerativo dell’Internazionale Comunista. L’incrocio di questi due fattori storici - l’immaturità ideologica del Partito tedesco (per giunta troppo frettolosamente “unificato” coi rimasugli dell’USPD) e l’incipiente deviazione dell’Internazionale dalla via maestra dei suoi anni gloriosi - segnerà il destino del movimento proletario non solo in Germania ma nel mondo nel 1921 e nel 1923 - non nel senso che, in caso contrario, la vittoria sarebbe stata immancabile, ma in quello squisitamente marxista che alla mancata vittoria, se tale fosse stato (come fu) l’epilogo di anni che pur sembravano suscettibili di essere risolutivi, non si sarebbe tuttavia accompagnata la capitolazione teorica e pratica di fronte al nemico, e dalla controrivoluzione momentaneamente trionfante il movimento proletario avrebbe attinto la forza, per averne tratto le lezioni, di riprendere il cammino su una strada mai abbandonata, invece di doverla faticosamente ritrovare nel buio e nella tempesta di una disgregazione totale.

Possano le generazioni avvenire - diversamente da quelle i cui tentativi eroici di riscossa e di emancipazione fallirono nell’altro dopoguerra sotto i colpi di forze storiche troppo potenti per poter essere controbattute e spazzate via nel perimetro di una sola nazione - rinascere dal tremendo calvario della terza ondata opportunistica, dello stalinismo, con la visione chiara e rettilinea del proprio cammino, che nelle pagine seguenti è indicata non come infallibile ricetta di vittoria, ma come monito sulle insidie da cui è sempre minacciata nella sua dura battaglia la classe che nella rivoluzione non ha nulla da perdere salvo le sue catene.

 

 

(1)   Cfr. In difesa della continuità del programma comunista, ediz. deIl Programma Comunista, Milano 1970, pp.15-23.

(2)   Assai prima, nel 1921, in vista del III Congresso dell’Internazionale, la Sinistra aveva reagito alla pretesa di valutare l’efficienza e la capacità di influenza del Partito non già in base alla ferrea continuità delle sue posizioni programmatiche e della sua azione pratica e alla serrata disciplina della sua organizzazione (nel che è la sua vera forza), ma in base al criterio quantitativo e meccanico della sua consistenza numerica e, peggio, dell’avvenuta conquista della “maggioranza della classe operaia” (cfr. il testo Partito e azione di classe)

(3)   Un esempio di questa precisazione e “codificazione” della tattica del partito nei grandi svolti storici si trova nelle Tesi di Roma (1922) ripubblicate nel già citato volume In difesa della continuità del programma comunista, pp.37-52.

(4)   Si noti, per inciso, che in ciò la Sinistra vide anche la soluzione del complesso problema del funzionamento organizzativo del Partito nella sua indispensabile struttura verticale e gerarchica: soluzione che la formula del “centralismo democratico” era ed è, per essa, impotente a fornire. La “garanzia” - nei limiti in cui una garanzia può darsi - del buon funzionamento dell’organizzazione centralizzata di partito risiede non già nell’ “accidente” dell’elezione degli organi superiori da parte degli inferiori, o della consultazione democratica della base come prassi normale e corrente, ma nel legame unico ed uniforme che dialetticamente unisce “centro” e “base” al programma noto a tutti e alle sue implicazioni tattiche “chiuse”, vincolanti per entrambi al disopra di ogni barriera di spazio e di tempo - nel che è il senso del “centralismo organico” teorizzato dalla Sinistra fin dal !921 (come si vede dal testo su Il principio democratico), in cui la “disciplina” e la “fiducia” spontanee dell’organizzazione periferica verso l’istanza centrale del Partito derivano dal fatto di essere questa l’organo tecnico indispensabile dell’applicazione unitaria e invariabile di norme fisse e conosciute alla base, non il depositario di una superiore “saggezza” o capacità di “scoprire” soluzioni originali a problemi “nuovi”.

(5)   E’ interessante riprodurre il seguente brano del 1939, scritto dallo stesso Trotskij, in contraddizione con la tattica purtroppo da lui auspicata nei confronti di organizzazioni dichiaratamente opportunistiche: “Le masse non sono mai esattamente identiche: vi sono masse rivoluzionarie; vi sono masse passive; vi sono masse reazionarie. Le medesime masse sono, in periodi differenti, ispirate da propositi e obiettivi diversi. E’ appunto per questa ragione che è indispensabile un’organizzazione centralizzata dell’avanguardia… Far indossare alle masse i panni della santità e ridurre il proprio programma a una democrazia “amorfa” vuol dire dissolversi nella classe quale essa è, trasformarsi da avanguardia in retroguardia e, di conseguenza, rinunciare ai propri compiti rivoluzionari” (Moralisti e sicofanti contro il marxismo, giugno 1939).

(6)   Ricordiamo lo stupendo grido di guerra della Neue Rheinishe Zeitung dopo la repressione dell’insurrezione di Vienna, il 7 novembre 1848: “Il cannibalismo stesso della controrivoluzione infonderà nelle masse la convinzione che esiste un solo mezzo atto a concentrare, abbreviareesemplificaregli spasimi di una vecchia società agonizzante, e il sanguinoso travaglio del parto di una società nuova: il terrore rivoluzionario”.

(7)   In altra forma lo stesso concetto riappare in Le lotte di classe in Francia(III quaderno, marzo 1850): “…Il proletariato va sempre più raggruppandosi intorno al socialismo rivoluzionario, al comunismo, pel quale la borghesia stessa ha inventato il nome di Blanqui. Questo socialismo è la dichiarazione della rivoluzione in permanenza, la dittatura di classe del proletariato, quale punto si passaggio necessario per l’abolizione delle differenze di classe in generale, per l’abolizione di tutti i rapporti di produzionesu cui esse riposano, per l’abolizione di tutte la relazioni sociali che corrispondono a questi rapporti di produzione, per il sovvertimento di tutte le idee che germogliano da queste relazioni sociali”. (E Marx ribadirà nella Critica al Programma di Gotha, 5 maggio 1875, che “tra la società capitalistica e la società comunista vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad essa corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”).

(8)   A riprova dell’invarianza del marxismo - la cui dottrina nasce come un blocco solo e tale resta fino alla definitiva vittoria, non attendendo dalla storia che di essere applicata con rigore crescente e quindi anche di essere sempre meglio scolpita nei suoi tratti immutabili nel programma del partito di classe - è suggestivo ricordare come Marx, nel discorso in occasione del 7° anniversario della I Internazionale, 1871, leghi il principio della dittatura proletaria e quindi del terrore alla rivendicazione di una direzione centralizzata della lotta di classe trasformatasi in guerra campale sull’arena del pianeta: “Prima di realizzare una trasformazione socialistica, è necessaria una dittatura del proletariato, e una condizione primaria di questa è l’esercito proletario. Le classi operaie dovranno conquistare sul campo di battaglia il diritto alla propria emancipazione. Compito dell’Internazionale è quello di organizzare e concentrare le forze proletarie nel combattimento che le aspetta”. Il problema si porrà in termini storici materiali ai bolscevichi, ed è sull’invariabile solco della dottrina marxista che nascerà l’Armata Rossa - fra le urla e lo sdegno di riformisti ed anarchici!

(9)   Scrivendo a G. Trier, il 18 dicembre 1889, Engels ribadisce con la consueta chiarezza: “Siamo d’accordo sul fatto che il proletariato può conquistare il proprio potere politico - l’unica porta che dia accesso alla nuova società - solo mediante una rivoluzione violenta. Ma perché, al momento decisivo, il proletariato sia abbastanza forte per vincere, bisogna che si costituisca in partito autonomo, in partito di classe cosciente, scisso da tutti gli altri e ad essi opposto. E’ quanto Marx ed io non abbiamo mai smesso di sostenere dal Manifesto del 1848”.

(10)Perciò limitiamo l’analisi a questa incarnazione del vero “infantilismo di sinistra” trascurando le forme che esso venne assumendo altrove.

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