DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Il "Dialogato con i morti" nasce nel 1956 in occasione del XX Congresso del Partito comunista russo a tre anni di distanza dal Dialogato con Stalin.In questo prevedemmo la futura confessione in cui due legami sarebbero stati dichiarati rotti; tra la struttura produttiva russa e il socialismo; tra politica dello Stato russo e quella della lotta di classe dei lavoratori di tutti gli Stati contro la forma capitalista mondiale. Se il XX Congresso non ci ha dato il termine di questa storica tappa futura, ha tuttavia rappresentato un balzo enorme, e forse più vicino di quanto attendevamo.Poiché le scandalose ammissioni sono ancora tuttavia incastonate nella pretesa di parlare la lingua di Marx, di Engels e di Lenin, il Dialogato dovrà proseguire. E' certo che ogni passo della inabissata degli uomini del Kremlino nelle sabbie mobili della controrivoluzione borghese, avvicina il duro, aspro traguardo della ricostituzione del partito rivoluzionario, cui tutto dedichiamo delle nostre possibilità, meno che una bolsa impazienza.


  

 

Giornata prima

  • Viatico per i lettori
  • Richiamo di capisaldi
  • Da Est terremoto ideologico
  • Lacera storiografia
  • Bari, passa la verità
  • Mito e culto della persona
  • Insanabile scoliosi
  • Piombo nei deretani
  • Cauti sguardi sulla rotta nuova
  • Note

 

Il XX Congresso del Partito Comunista Russo

 

Viatico per i lettori

Una chiara comprensione del presente lavoro comporta (quasi necessariamente) la conoscenza del «Dialogato con Stalin», stampato nel 1953 a cura dello stesso movimento, da cui l'attuale pubblicazione deriva.

Nelle pagine con cui questo scritto si apre è detto abbastanza sul collegamento cronologico e sulla natura tutta speciale del «contraddittorio» che qui seguita a svolgersi.

Colla premessa del 1953 al «Dialogato con Stalin» davamo chiara ragione di tre tempi di quell'antico e profondo contrasto.

Nel primo tempo, che andò dal 1918 al 1926, può dirsi che trattavasi di una divergenza sulla tattica, nel seno di un movimento che tendeva allo stesso comune fine, della Terza Internazionale Comunista, fondata sulle rovine della Seconda caduta nell'opportunismo social-patriottico, e nella scia della Rivoluzione russa di Ottobre 1917. L'ala sinistra del socialismo italiano, da cui noi deriviamo, nella guerra e nel dopoguerra lottò, dal 1914, per rompere con ogni versione democratica e pacifista del socialismo, e coronò la sua lotta con la fondazione a Livorno nel gennaio 1921 del Partito Comunista d'Italia. Nel seno del movimento internazionale questa corrente sostenne tesi che divergevano da quelle dell'Internazionale Comunista e dello stesso Lenin, quanto alla tattica parlamentare e a quella tendente a debellare i partiti operai opportunisti, negando che a ciò fossero validi i metodi detti allora del fronte unico, e peggio del governo operaio.

Questo bagaglio di contributi, che contenevano una esplicita denunzia contro pericoli di degenerazione, ebbe per tappe i congressi di Mosca dal 1920 al 1926 e congressi del partito italiano a Roma nel 1922 e a Lione nel 1926

Nel secondo tempo, dopo il 1926, la dirigenza si svolse fino alla separazione organizzativa e politica, in cui la posizione di sinistra fu ovunque battuta fieramente, mentre le sue previsioni di rivoluzione della maggioranza dominante in Russia Europa ed Italia trovavano gravi conferme. In Russia vinceva la falsa teoria della costruzione della società socialista russa senza e al di fuori della rivoluzione proletaria internazionale, e l'opposizione che su questo e altri punti restava fedele alle tradizioni bolsceviche e di Lenin soccombeva, diffamata e sterminata. In Europa il rinvio dell'ondata rivoluzionaria e il consolidarsi insolente del capitalismo avevano come risposta disfattista e imbelle il passaggio dei comunisti nelle file di blocchi con partiti e classi non proletarie, col fine non del rovesciamento della borghesia, ma della salvezza della borghese democrazia liberale.

Nel terzo tempo, colla seconda guerra mondiale, fu chiaro che il dissenso si era allargato ad abisso incolmabile di dottrine e di principii, col totale rinnegamento da parte del Kremlino e delle sue aggregazioni estere del marxismo rivoluzionario, nei capisaldi difesi e rivendicati dopo la prima guerra da quelli che lottavano come Lenin e con Lenin. Furono gettati i partiti esteri nella collaborazione social-nazionale, nella prima fase in Germania, nella seconda in Francia, Inghilterra ed America. La consegna di Lenin per il disfattismo entro ogni paese imperialista belligerante e l'abbattimento del potere militare e civile dei capitalisti, si tradusse in una lega con gli Stati che erano bellicamente alleati di Mosca, mentre contro gli Stati a lei nemici si lottava non per distruggervi la borghesia, ma per ripristinare le sue forme liberati, uccise nella teoria da Marx e da Lenin, schiacciate per sempre materialmente nell'interno della Russia, sia rivoluzionaria, che imperiale.

Questo tempo segnò la liquidazione organizzativa e teoretica dell'Internazionale di Lenin e di Ottobre: si videro tratti i corollari del totale passaggio alla controrivoluzione. In poco numero, ma con un bagaglio possente di continuità storica e dottrinale, proclamammo, fuori dal clamore che circondava in una falsa ebbrezza di folle i seguaci di quello che allora si chiamò da tutti i lati lo stalinismo, che avevamo da molti anni di fronte non più uno smarrito dissidente da se stesso di ieri e da noi marxisti di sempre, ma un aperto giurato nemico mortale della classe operaia e del suo storico cammino al comunismo. E nello stesso tempo si levava palese la prova della natura capitalistica della società economica, in Russia instaurata, e l'infamia centrale di vantarla nel mondo come società socialista; nel che, di tanti e così clamorosi tradimenti ravvisiamo il vertice supremo, il capolavoro di controrivoluzionaria infamia.

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Nel «Dialogato con Stalin» ci eravamo proposti di tracciare i «tempi» futuri di questo dibattito storico - che chiamiamo tale, per quanto ad una delle parti in contesa manchino del tutto illustri credenziali - e prevedemmo la futura confessione in cui due legami saranno dichiarati rotti: tra la struttura produttiva russa ed il socialismo; tra la politica dello Stato russo e quella della lotta di classe dei lavoratori di tutti gli Stati contro la forma capitalista mondiale.

Dopo tre anni, il XX congresso del Partito Comunista della Unione Sovietica, se non ci ha dato il termine di questa storica tappa futura, ha tuttavia rappresentato un balzo enorme, e forse più vicino di quanto attendevamo. Poiché tuttavia le scandalose ammissioni, che fanno chiasso mondiale per il distacco dal morto Stalin, sono ancora incastonate nella pretesa di parlare la lingua di Marx e di Lenin, il Dialogo col contraddittore-fantasma deve proseguire: la totale Confessione, che verrà un giorno, non sappiamo se in un altro solo triennio, dal Kremlino, lo ridurrà al loro monologo. Vanamente avevano tanto sperato essi con le Confessioni che strappavano torturando i rivoluzionari. I Confessori confesseranno.

La posizione che oggi prendiamo, dinanzi allo strazio esagerato fino all'oscenità dell'idolo di tre anni addietro, e che è tutt'altro che di plauso agli iconoclasti, è coerente a quanto allora stabilimmo, ben prevedendo che sul corso della terrificante inabissata si sarebbe levato il grido ghignante del mondo borghese contro le grandiose concezioni della nostra dottrina rivoluzionaria. Scrivemmo quanto segue:
«
I metodi di repressione, di stritolamento, che lo stalinismo applica a chi da ogni parte gli resiste, trovando ampia spiegazione in tutta la critica ora ricordata del suo sviluppo, non devono dare appiglio alcuno ad ogni tipo di condanna, che menomamente arieggi il pentimento rispetto alle nostre classiche tesi sulla Violenza, la Dittatura ed il Terrore, come armi storiche di proclamato impiego: pentimento che lontanamente sia il primo passo verso l'ipocrita propaganda delle correnti del 'mondo libero' e la loro mentita rivendicazione di tolleranza e di sacro rispetto alla persona umana. I marxisti, non potendo oggi essere protagonisti della storia, nulla di meglio possono augurare che la catastrofe politica, sociale e bellica della signoria americana sul mondo capitalistico. Nulla quindi abbiamo a che fare colla richiesta di metodi più liberali o democratici, ostentata da gruppi politici ultra-equivoci, e proclamati da Stati che nella realtà ebbero le più feroci origini, come quello di Tito».

Già da queste chiare parole, come da tutta la nostra costruzione, tanto più compatta e non confondibile con altra, quanto meno recitata davanti a camere fono-televisive da figure da farsa, risultò allora quale accoglienza dovevano da parte nostra avere le pietose contorsioni del XX congresso, e la commedia della abiura da Stalin, mostrata come un ritorno ai classici della nostra grande Scuola; mentre è una tappa della marcia all'indietro verso le superstizioni più fallaci dell'ideologia borghese, una vile genuflessione alle super potenze del contemporaneo lupanare capitalistico.

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Abbiamo premesso in copertina la breve epigrafe che, insieme a questo scorcio della nostra origine storica, salva il nostro piccolo gruppo da indesiderate deplorevoli confusioni.

Aggiungiamo un'altra discriminante. È certo che ogni passo della inabissata, di cui sopra, degli uomini del Kremlino nelle sabbie mobili della controrivoluzione borghese, avvicina il duro, aspro traguardo della ricostituzione del partito rivoluzionario, cui tutto dedichiamo delle nostre possibilità, meno che una bolsa impazienza.

Quando l'ora sarà dalla storia segnata, la formazione dell'organo di classe non avverrà in una risibile costituente di gruppetti e di cenacoli che si dissero e dicono antistalinisti o che oggi si dicano bene o male «anti-ventesimo congresso».

Il Partito, ucciso goccia a goccia da trent'anni di avversa bufera, non si ricompone come i cocktails della drogatura borghese. Un tale risultato, un tale supremo evento, non può che essere posto alla fine di un'ininterrotta unica linea, non segnata dal pensiero di un uomo o di una schiera di uomini, presenti «sulla piazza», ma dalla storia coerente di una serie di generazioni.

Soprattutto non deve sorgere da nostalgiche illusioni di successo, non fondato sulla incrollabile dottrinale certezza del corso rivoluzionario, che da secoli possediamo, ma sul basso soggettivo sfruttamento dell'annaspare, del vacillare altrui; che è misera, stupida, illusoria strada per un risultato storico ed immenso.

 

Giornata prima

 

Richiamo di capisaldi

Le recenti discussioni del congresso comunista dell'Unione Sovietica, che hanno avuto in ogni campo eco vastissima, rivestono un profondo significato storico. Questo non si legge certo enunciato nelle formulazioni esposte, ma nemmeno si risolve nel dichiararle tutte pura verbale manovra, tendente alla copertura di misteriose calcolate azioni: la relazione tra tutte quelle parole e il sottofondo storico si cerca ben altrimenti: noi vi siamo preparati assai meglio dei seguaci - scombussolati per non breve ora, anzi che no - e degli avversari occidentali, facinorosi ma armati di ben poveri mezzi polemici e critici.

Affermiamo questo oggi ai pochi che conoscono i precedenti della nostra non chiassosa, ma fondata, coerente, ricerca e presentazione. Altri eventi, che faranno rumore in ben più vasta cerchia della nostra, ci troveranno a saldare, anche tra il silenzio, altri anelli di questa solida, se pur oggi poco visibile, catena.

Con le date del 1° febbraio, 21 aprile, 22 maggio, 28 settembre 1952, Stalin pubblicava una serie di non lunghi scritti, coi quali riteneva necessario intervenire nella discussione economica sorta in seno al partito nell'anno 1951, a proposito della preparazione del nuovo «Manuale di economia politica», che di recente è stato pubblicato in occidente, e che speriamo conoscere prima che sia fatto sparire (1). Proposito dello scritto era di stabilire quali leggi economiche andassero applicate alla struttura della società russa di oggi, e di sostenere che tali leggi fossero quelle proprie di un'economia socialista. E, ovviamente, il contenuto era anche quello di richiamare le leggi che vigono nella contemporanea economia del capitalismo internazionale, confrontandole con la maniera nella quale l'economia marxista le ha da un secolo formulate.

Il «Dialogato con Stalin», pubblicato dal nostro movimento in un volumetto del 1953, sostenne che questa costruzione, mentre rappresenta in modo erroneo la realtà del procedere del fatto economico, sia in Russia che in occidente, contiene una serie di gravi sbagli di dottrina; è inconciliabile con i fondamenti di quella marxista. Vi furono raccolti «Fili del Tempo» dati in questo periodico nel n. 1 del 10-24 ottobre 1952 e nei successivi 2, 3, 4, con estratti complementari nei nn. 2 e 3 del 1953.

Proprio in quel torno, dal 5 al 15 ottobre del 1952, il partito comunista dell'Unione Sovietica teneva il suo XIX congresso, nel quale, come ben si ricorda, Stalin non tanto sovrastava come capo, quanto era considerato da tutti e in tutti i testi come ordinatore dell'intera teoria storica, economica, politica e filosofica del partito, ufficialmente definita la «dottrina di Lenin e Stalin».

Tale posizione rimase indiscussa nel partito russo (e nei confratelli) fino al giorno 5 marzo del 1953, nel quale Stalin moriva. E da quel giorno ad oggi (14 febbraio 1956).

Nella trattazione sulla Russia che si svolge nelle pagine di «Programma Comunista» dal novembre 1954 (2) abbiamo ridato in ordine organico i materiali della nostra veduta critica sviluppata da anni e decenni. Secondo questa le posizioni «staliniste» in storiografia, economia, politica, e anche filosofia, sono false ed anti-marxiste.

Di tutto ciò voglia chi oggi ci segue, amico o nemico, considerare soprattutto la discussione di economia marxista di quel «Dialogato», e la recente esposizione della storia rivoluzionaria di Russia, delle grandi lotte del 1917 e dei seguenti gloriosissimi anni, della costruzione storica dei bolscevichi e di Lenin sullo sviluppo della struttura sociale russa, e della rivoluzione russa e mondiale; soprattutto in quanto contrastano alla cosiddetta teoria dello costruzione del socialismo in un solo paese, alle gesta persecutorie, infamanti, e disfattiste dei suoi sciagurati fautori, da trent'anni ad oggi.

Dal 14 al 25 di questo febbraio del 1956 si è svolto il XX congresso del partito di Stalin: il suo linguaggio sta alle mille miglia dal nostro tanto meno risuonante, ma non è più quello del XIX congresso e del vivente Stalin: si parla in esso sempre dell'immortale Lenin, non più di un immortale Stalin.

Nessuno per il marxismo è immortale - nessuno è morto. La vita dialoga con tutti quelli che così chiama la volgare oratoria. Tutti risponderanno! Con essi i vivi, e quelli che verranno dopo.

 

 

Da Est terremoto ideologico

Da varie voci risulta che la immensa società di propaganda costituita dal partito e dal governo di Mosca, che da trent'anni riempie con mezzi strapotenti la superficie terrestre di una formidabile letteratura forgiata su di uno stampo costante, pur se attenta ogni tanto a far funzionare un implacabile Indice che ritira e brucia emissioni sbandate - e non sia detto a disdoro dell'Indice romano alle cui spalle sta, inchiodata indelebilmente sulle targhe in cima ai pali degli auto-da-fè, una poderosa coerenza a bimillenaria dottrina - risulta, dunque, che questa società gigantesca mette di colpo tutto sotto revisione, e lancia l'annunzio di nuovi testi su tutte le discipline, da sostituire agli antichi. Nulla è passato sotto silenzio: storia ed economia, filosofia e politica, arte e biologia, tecnologia ed etnologia...

Ha questo congresso di incredibile abiura fondato altamente il piedistallo di una nuova fede, sulle cui pietre angolari si possa attendere che vengano erette le nuove stele di una costruzione diversa, e può qualcosa fare attendere che una simile opera fondatrice possa domani scaturire da quell'aggregato di forze storiche? I materiali del congresso, giunti da tutte le fonti, presentati sotto luci diverse da tutte le «chiese», ci danno tanto da poter rispondere clamorosamente e irrevocabilmente che no.

Ha questa confessione di spaventosa ed incancrenita eresia minimamente valso, in ginocchio sotto le ceneri di un'incredibile Canossa, a significare un ritorno alle posizioni ortodosse in lungo fallire calpestate e prostituite, un lavacro di sanguinose colpe, e un rinnovato battesimo nella salvezza? Mai. Queste figurazioni di generose leggende, a loro volta forgiate da subcoscienza di antichi rivolgersi storici, non ci porgono oggi chiave alcuna; va annunciata solo una nuova fase del morbo inguaribile, un passo ulteriore verso il fondo del baratro di non riscattabile dannazione. Il gridato da tutti gli angoli, nel recitare il più goffo ed inabile mea culpa dell'accecamento stalinista, ritorno alle fonti grandiose del Marxismo e Leninismo, tradizioni di purissimo sangue storico oggi vantate da irriconoscibili bastardi, non è che una bestemmia dì più della indegna serie, un nuovo - ma per iddio cento volte più impotente dei precedenti - insulto all'altezza della fede rivoluzionaria del Proletariato mondiale. La bestemmia, l'insulto, degnamente coronano un terzo di secolo di pratiche oscene che celebra una laida congrega nera di sacerdoti del fallo, imbrattata di menzogna e di fraterno sangue, con macchie indelebili per la storia dei secoli.

Questo terremoto ideologico che mostra e prepara soltanto rovine, lasciando ad altre forze l'elevazione di strutture nuove, e con ben altre materie, deve essere spiegato con gli scuotimenti del sottofondo sociale, non solo di Russia ma dell'intero mondo. Vano è parlarne come di una nuova montatura di altre scene propagandistiche, agli stessi fini dello stesso mostruoso ma ancor saldissimo potere, come fa l'imbecillità borghese da ogni lato; vano più ancora sarà, dopo tratto il fiato (nei ranghi degli scagnozzi cui cadono da anni le briciole dei banchetti d'orgia del sinedrio bonzesco incredibilmente sopravvivente alle sue gesta) osare ancora di cianciarne come di preludio di un meglio aggiustato tiro di schiere che difendano le classi sacrificate dalla maledetta società presente. Il senso di classe di quanto si svolge è ben altro; in non lontano avvenire sarà evidente, e lo premettiamo all'ulteriore esame.

La «nuova» formula dell'alleanza nel mondo capitalistico tra classe del lavoro salariato e classi della minima e piccola ricchezza non «esce» storicamente, come terza via, dall'antitesi - che demmo a chiusura della nostra prima parte della trattazione russa e che la nostra redazione ha messo in fronte al primo annuncio della logorrea di Mosca - tra dittatura del capitale e dittatura del proletariato. Essa «entra» nel corno controrivoluzionario della insolubile antitesi, e passa al servizio delle forze del grande capitale mondiale. Muore lo stalinismo, ma rinasce sotto lo smascherato aspetto di quello che per noi non è motivo idiota di scandalo e di orrore, ma lieto annunzio di scioglimento rivoluzionario: il totalitarismo mondiale, il filisteisticamente deprecato «fascismo».

Le disonorate classi medie di questa moderna pestilenziale società, come tante volte abbiamo visto, si aprono solo verso destra, e chi le tasta e attira non è che un manutengolo della controrivoluzione.

Questo a Mosca hanno detto, senza saperlo né volerlo; e non già maneggiando con diaboliche risorse il timone che i compari di occidente attribuiscono ai russi di tenere con salde mani.

«Gli uomini fanno la loro storia, ma non secondo la loro libera volontà, non in base a circostanze liberamente scelte, sibbene sotto l'impulso di fatti immediati, anteriori ed ineluttabilmente definiti dagli eventi trascorsi

«La tradizione di tutte le generazioni scomparse grava come un incubo sul cervello dei vivi, e quando sembra che appunto lavorino a trasformare sé ed il mondo circostante, a creare il nuovo, essi invocano angosciosamente gli spiriti del passato, ne mutano i nomi, le parole d'ordine, i costumi, allo scopo di erigere sotto questo antico e venerabile travestimento, e con frasi prese a prestito, la nuova scena della storia».

Estremo sinistro del congresso, Anastas Mikoyan, avete detto che bisogna ormai cercare non nei giornali in edizione attuale, ma nell'archivio. Con le parole or citate si apriva un «lavoruccio» - a dir dell'autore, povero emigrato a Londra - che nel febbraio 1852 giunse alla rivista tedesca «Die Revolution» pubblicata a New York da un fedelissimo della nostra scuola: Giuseppe Weydemeyer: studio scritto di getto negli stessi giorni degli avvenimenti. Si tratta dell'esordio del «Diciotto Brumaio», di Carlo Marx.

 

 

 

Lacera storiografia

Qualche volta nel nostro studio abbiamo messo in evidenza le falsificazioni storiche, alla lettura delle quali, e dopo tanti anni di esperienza amara, viene fatto di fregarsi gli occhi, e non solo a chi ha vissuto da vicino quegli eventi. Non lo abbiamo fatto con molto impegno: la nostra ingenuità non ha in tanti decenni abbastanza vacillato sotto l'incredibile serie di profanatrici guanciate vibrate alla sacra storia della Rivoluzione e del suo Partito, e non siamo mai riusciti a capacitarci che masse di figli della classe operaia ormai giurassero su quell'Himalaya di merda.

Una tale fiducia di tanto pochi era giusta. I materiali di quella montagna rovinano per mano di chi ne ha elevato il cumulo: ma quale ammorbante fetore!

Il «Breve Corso» della Storia del Partito Comunista Bolscevico, su cui un'intera generazione russa è stata educata, come sul testo di base, viene nel rapporto di Krusciov squalificato.

Il moderato segretario, sebbene non compreso tra gli autori del testo, si è limitato a dire (giusta l'«Unità») che si è voluto dal C.C. attuale migliorare il lavoro ideologico, diffondendo le opere di Marx, Engels e Lenin (silenzio nero su quelle di Stalin!), e poi che
«
negli ultimi diciassette anni la nostra propaganda è stata basata principalmente sul 'Breve Corso'», ma che «è necessario pubblicare un libro di testo marxista popolare (e dalli!) della storia del Partito», un altro sui «principii della dottrina marxista-leninista», ed una «esposizione popolare (non ci campate tanto, da scegliere tra popolare e marxista) dei fondamenti della filosofia marxista».

Più deciso è stato Mikoyan, il testo intero del cui discorso non sarà dato dall'«Unità». Nella versione di questa, l'oratore ha solo imputato al Breve Corso di ignorare gli ultimi venti anni di storia. E come si scriveranno questi venti anni con metodo materialista? Come si racconterà l'onta suprema del 1939, l'accordo imperiale prima con la Germania nazista, poi con le democrazie plutocratiche oggi esecrate, la «sale bisogne» dei partiti esteri che si fanno prima servitori di Hitler e disfattisti (per la teoria di Lenin!) solo degli imperialismi di Parigi, Londra, ecc.; e, ad un colpo di bacchetta, smaccati partigiani della guerra antitedesca per la democrazia, al punto da far rimpiangere gli sciovinisti del 1914, sanguinosamente scuoiati dalla inesorabile lama di Vladimiro? E si addebiterà ipocritamente al solo sorprendente capro espiatorio Djugasvili il tentato (e nemmeno saputo portare a segno) colpo di tagliare i garretti agli alleati d'America nel 1945, il «doppio colpo» audacemente annunziato nel rapporto al XVIII congresso nel 1939, oggi che si lanciano a questi idiote passerelle diplomatiche? Si offre per questo quella testa? Non basta, signori, un teschio.

Mikoyan ha detto ben altro sulle vergogne di quella «storia». Nel testo dell'«Associated Press» si dice:
«
Mikoyan ha criticato Stalin sotto parecchi aspetti: 1) Egli (Mikoyan) dichiarò che gli scritti del fu Premier ignorano le ultime due decadi; e richiese quindi nuovi testi di insegnamento sul comunismo. 2) Egli attaccò le accuse di tradimento che Stalin portò con molti anni di ritardo contro gli eroi di una volta della rivoluzione bolscevica del 1917. 3) Egli dichiarò che la politica estera della Russia è divenuta attiva, flessibile e calma dopo la morte di Stalin nel marzo 1953».

Quanto a questo punto, esso non sa certo di un ritorno al metodo storico marxista! I nostri pochi lettori possono dare atto che né nel 1953 né negli anni dopo il 1945 abbiamo mai creduta vicina la guerra Russia-America. Ma le ragioni storiche di questo fatto non hanno un canchero a che vedere colla morte di Stalin! Non si lotta contro il mito personale dicendo, al rovescio, la stessa fesseria. E non qui ci fermiamo sulla parte, nota anche all'«Unità», che demolisce (a ragione, ma senza dedurne la chiara conseguenza che annienta le altre conclusioni di tutti questi sfrontati neo-antistalinisti) gli «Scritti economici».

 

 

Bari, passa la verità

Solleviamo tuttavia la copertina di quel «Breve Corso», di falsità senza limite, come se fosse una cosa seria.
«
La Storia è stata redatta da una commissione incaricata dal Comitato Centrale del P.C. (b) dell'U.R.S.S. della quale hanno fatto parte Kalinin, Molotov, Voroscilov, Kaganovic, Mikoyan, Zdanov, Beria, sotto la direzione di Stalin».
Tutti o morti bene, o morti male, o mal-vivi. Ed oggi si parla di aver «riabilitato» i 32 del grande Comitato di Ottobre, di cui, dopo poche morti naturali, solo superstite era da anni molti il grande Morto, oggi debeatificato, del 1953!

Di miglior respiro è leggere quanto ha detto l'eminente storiografa Pankratova, che (vedi tra altri Tempo del 24 febbraio)
«
ha posto in evidenza la profonda crisi di cui ha sofferto per circa trent'anni la storiografia sovietica, a causa del grande numero di argomenti resi sotto Stalin 'tabù'».

La stessa ha fatto un lungo elenco difatti che era obbligo tacere o capovolgere. Riscrivere la storia della guerra civile (1918-1920) come se mai Trotzky fosse stato commissario alla Guerra. Tacere nel libro commemorativo della Comune ungherese del 1919, sanguinosamente caduta dopo disperata difesa, il nome del suo grande condottiero Bela Kun. Oggi un comunicato ufficiale riabilita questo nome di un impareggiabile compagno, marxista completo, vero eroe rivoluzionario, che semplice e modesto si aggirava umile nei corridoi dei congressi di Mosca, tra tanti pomposi intriganti di manovre coi social-traditori d'Europa, quasi fosse stata una colpa l'amara disfatta del magnifico partito ungherese, superbo per la dottrina teorica quanto per il valore sulle barricate; e solo perché, quando le belve capitaliste azzannavano alla gola, nel momento cruciale, la rivoluzione di Mosca, non aveva atteso altro per lanciare tutto nella battaglia, nella grande rossa cittadella danubiana, levata contro la ventata feroce di tutte le sbirraglie borghesi d'Europa, contro la velenosa rabbia di tutti i rinnegati e social-traditori, tedeschi ed intesisti, fascisti e democratici. Non sarebbe mai egli tornato in Europa per trattare, magari per ordine di Lenin che tanto lo amava, coi boia del socialismo rinnegato: dichiarato nel 1937 nemico dei popolo, non si sa dove sia stato mandato a crepare in Siberia pochi anni fa; mentre solo perché il crimine fu consumato fuori di Russia si sa il giorno e il luogo in cui affondava nel cranio del rosso capo della Vittoria, Leone Trotzky, la piccozza levata da un ancor vivente carognone, avvicinatosi in veste di discepolo. Costui può ora uscire più tranquillo di galera: non ha più misteri da rivelare.

Seguiamo alcuni dei riferimenti della professoressa Pankratova. Ordine di non far conoscere in Russia la storica corrispondenza di Lenin con Trotzky, che possiede l'università di Harvard. Ordine di far sparire dalle biblioteche e dai musei tutti i documenti relativi al ruolo di primo piano, nella Rivoluzione, dei giustiziati nelle grandi «purghe». Ordine agli storiografi Chliapnikov, Jaroslawsky e Popokov nel 1931 di far apparire Trotzky come agente segreto imperialista nella storia della guerra civile. L'oratrice ebbe ordine di minimizzare lo sbarco alleato in Normandia nella seconda guerra europea, modificando una sua opera del 1946. Fu di piena ragione che nel 1949 Stalin si fece qualificare nei trattati come «il fondatore della storiografia sovietica».

Ed infine la cosa più sbalorditiva e stupefacente - vi sono cose che scendono più sotto del limite di ogni possibile indignazione! Nei testi di storia relativi alla rivoluzione di Ottobre fu fatta inserire la favola che un tentativo di assassinare Lenin fu fatto da Bucharin! Il diritto, semplice, sorridente, verginale Bucharin, i cui occhi azzurri inumiditi vedemmo tante volte lampeggiare di entusiasmo e di gioia, quando il maestro, che egli idolatrava come un fanciullo, trattava i temi della rivoluzione nei congressi di Mosca, e la fiducia reciproca più splendida soprastava i contraddittori più ardenti! Quanto lontani dalle spregevoli unanimità di una collegiata di servi!

La Pankratova ha affermato che la reazione degli storiografi ha contribuito in gran parte a far cadere questi ignobili «tabù».

Qualche rara volta, scienza e coraggio procedono insieme.

I comunisti, sta scritto dal «Manifesto», «disdegnano di nascondere i loro principii e i loro scopi». Non è un imperativo etico per i marxisti la difesa della verità. Ma essa è fisicamente il solo ossigeno della Rivoluzione.

 

 

Mito e culto della persona

Non si può non gioire dei colpi portati contro quella che è la vera peste controrivoluzionaria del mondo contemporaneo, mortifera sia in quanto si tratti di portare in alto il ruolo (passi il brutto vocabolo per la cosa scema) della Persona di eccezione, il seguito e la gratitudine che Le si dovrebbe - sia quando si delira e deboscia ideologicamente per la generica persona umana, mai tanto osannata e inchinata, quanto in un'epoca della storia che la stritola in masse come polvere nel mortaio.

Ma qual valore dare alle proclamazioni e di Krusciov, e di Mikoyan, e di Molotov, e di Bulganin, e di quasi tutti?! Cadono nel freddo, dette come cose nuove e straordinarie, le ovvie ammissioni che il culto della personalità è contrario allo spirito di Marx e di Lenin. Altro che allo spirito! - chi a tali uomini avesse manifestato una superstizione tanto schifosa, e peggio che mai rivolta a loro medesimi, non sarebbe uscito dalle loro grinfie senza lasciarvi brucianti brandelli della sua pelle di rettile.

Sono decenni che questa sporca genia imbottisce i crani con la storia delle gesta dei Grandi, degli Altissimi, dei Big, siano essi genii del bene o del male. La caleidoscopica moderna società capitalista ad ogni tanto si lascerebbe sistemare da una combriccola di tre o quattro più o meno minorati uomini illustri; il rachitico Franklin Delano, il paranoico Winston, l'oggi svuotato maniaco di grandezza e di sangue Josif. E, alla rovescia, fino a ieri milioni di uomini sono stati lanciati ed immolati al successo consistente nel bruciare la carcassa del sadico Adolfo; nell'appendere per i piedi il buon miles gloriosus Benito. Marxismo questo, o fessi malati del culto dei fessi?

Ed è tanto facile che questi idoletti rovinino da tanto ingombranti e suffumigati altari? Disgraziati, udite.

Dopo trentatré anni Carlo Marx ristampò quel lavoruccio che abbiamo già citato - dopo la Comune di Parigi, che aveva ordinato abbattersi la colonna di Piazza Vendòme su cui ergevasi la bronzea statua del Primo Napoleone; e dopo che il Terzo e Piccolo era caduto. E poté scrivere:
«
La previsione, colla quale io concludevo, si è di già, intanto, avverata: se il manto imperiale cade sugli omeri di Luigi Bonaparte, ciò significa che la statua bronzea di Napoleone si appresta a venire precipitata dall'alto della colonna Vendòme».

Noi vedremo dunque cadere la grande statua di Djugasvili dagli spalti tanto fieramente contesi di Stalingrado. Forse sarà un minimo vantaggio - se è vero che la grande adunata di massa a chiusura del congresso è stata disdetta per non darle sapore di adulazione ai dirigenti eletti - non sentire e leggere più delle scene triviali in cui servili delegazioni di lavoratori recano doni di omaggio a pochi scafessi intavolati sotto una sciocca fila di testoni su fondo rosso.

Ma molto ancora più in alto sta il marxismo, di questo gioco fetentissimo sui grandi nomi, che ottunde, acceca e alcolizza la classe di avanguardia.

In quella stessa prefazione Marx scrisse queste parole sulla moda, che indignato vedeva venire, del Cesarismo.

«Io spero infine che questo mio scritto contribuirà a liberarci dalla frase scolastica del cosiddetto Cesarismo, il quale trionfa adesso specialmente in Germania (di te, Jerusalem, la parabola parla!), e per entro la cui superficiale ed implicita analogia vien messo in non cale il tratto saliente della questione, che cioè nell'antichità, specie in Roma, le lotte civili si svolgevano unicamente nel seno di una privilegiata minoranza, tra ricchi e poveri cittadini liberi, mentre la grande massa produttiva della popolazione, gli schiavi, costituivano il passivo piedistallo della lotta. È messa in non cale, dico, la profonda sentenza del Sismondi - il proletariato romano libero essere vissuto a spese della società, mentre la società odierna (siamo tentati di osare aggiungere: soprattutto nelle sue classi medie) vive a spese del proletariato».

Questi ridicoli signori che cianciano, pur liquidato Stalin, di un marxismo nuovo che creano tutte le mattine, sono a tanto di attribuire a questo linguaggio un senso, che non mancherebbero di dire banalmente popolare? Vedremo, citando loro, che mai no!

Non è questa l'epoca storica, insegna Marx, della direzione individuale della società, delle grandi lotte civili nel suo seno. E in altre parole equivalenti: la rivoluzione della classe operaia non può essere diretta da Personalità.

Molte volte abbiamo adoperato il termine di romanticismo per designare la condanna, che pesava sulla rivoluzione russa per la sua «faccia» antifeudale, e in tanto borghese, a ricalcare le linee delle Grandi Rivoluzioni occidentali. Come queste presero dall'antichità classica la dottrina giuridica (dimenticando la differenza, che lo jus latino giocava tra i soli liberi e lasciava la massa degli schiavi, che tutti manteneva, fuori delle sue garanzie, ossia la differenza basilare, qui sopra, di Marx e Sismondi), così ne presero politicamente quanto letterariamente (qui nous delivrera des Grecs et des Romains!) lo schema rigido della Repubblica che cede al Cesarismo imperiale.

Sui problemi tremendi della Rivoluzione di Mosca, che andavano ridotti alla trama veramente possente della marxista costruzione di Lenin, si proiettavano con forza di terribile suggestione le ombre di quella di Parigi. Si agitò contro l'ardente ed irruente, ma per nulla macchiato di personalismo, Trotzky, l'oltraggio di bonapartismo e la turpe invenzione storiografica della preparazione di un Termidoro, a lui, magnifico teorizzatore e capitano del più splendido Terrore proletario, e solo proletario.

Ma come la borghesia liberale aveva scioccamente e fuori tempo, e dopo il solo esempio del Grande Bonaparte (che può forse stare a Robespierre come Giulio Cesare stava a Bruto, e Alessandro il Grande a Leonida) spenta la sua collettiva forza rivoluzionaria nel cesarismo e nelle marionette in cui si cristallizzò nell'ottocento e nel primo novecento, stentati aborti della storia, così la magnifica Rivoluzione di Russia, che aveva una falange formidabile di capitani e di maestri, recitò con l'ubriacatura nel nome di Stalin, e i sanguinosi sacrifici alla sua grandezza, che nessuno, forse noi nemmeno, credette così caduca, la sua farsa d'obbligo, protagonista la Personalità.

Ovunque la Rivoluzione borghese ha divorato i propri figli e non per questo le gridammo mai di fermarsi, qualunque fosse - o sarà - la sua nazione e la sua razza. Ma la Rivoluzione che finalmente sarà proletaria, e solo proletaria, se certo taglierà le scorie da sé col ferro e col fuoco, una tale via non ricalcherà.

Dicemmo che la borghesia di Francia ha dato l'eccezione col grande Corso. Ma quanto anche di tale grandezza individuale non fu determinazione di forze storiche? Marx in quel testo ricorda che «il colonnello Charras aperse l'attacco contro il culto napoleonico nel suo libro sulla guerra del 1815, e da quel tempo, segnatamente negli ultimi anni, la letteratura francese ha con le armi della storia, e della critica, e della satira, sfatata la leggenda napoleonica», ed altre volte citammo in materia il saggio Engels. Oggi un giovane, quarantenne storiografo di Francia, Jean Savant, ha eretto nei suoi ben quindici lavori una teoria che svuota la persona del Bonaparte e legge nelle sue gesta famose l'opera di tre uomini di prima forza: l'agitatore politico Barras, il poliziotto Fouché, il grande capitalista Ouvrard. La scienza ufficiale si rode il fegato, ma a tappe frequenti si inchina alla potenza del marxismo.

Chiudiamo la disgressione e chiediamoci se siamo stati davanti ad un congresso di marxisti demolitori del culto della Personalità, o non piuttosto di professionali lustratori di stivali, che reagiscono alla disoccupazione costituendo una cooperativa di genii da dozzina.

 

 

Insanabile scoliosi

Non sono state dimenticate le frasi cortigiane del XIX congresso, e la cosa è troppo recente perché amici e nemici possano averlo fatto. Il più acceso, il più veemente degli iconoclasti, il più volte nominato Mikoyan, ha nel suo fascicolo personale note di questa posta: Stalin, il Grande Architetto del Comunismo! Ecco un'altra spiegazione della tempesta magnetica in corso: dal Sole hanno sentito costui tuonare per il marxismo-leninismo che non vuole adorazione dell'Uomo!

Sconcia romanticheria, qui, di tipo massonico, che scimmiotta il Grande Architetto dell'Universo: i borghesi erano troppo filistei per mettere Dio a riposo, e gli dettero un posto stipendiato. Il Comunismo non ha architetti! e se mai quel posto sarebbe occupato da secoli, dal tempo di Cabet, di Campanella, di Moro e perfino di Platone.

L'«Associated Press» non poteva non pagarsi la testa del nostro turibolario abiurante: vale la pena dì raccontarla, sebbene l'argomento della paternità di affermazioni cozzanti sia per noi di poco peso, appunto perché della saldezza della persona ne facciamo a meno su tutto il fronte, e riteniamo che possa la luce venire dal blasfemo come la tenebra dall'ortodosso, sol che un boccone vada lor di diritto o di traverso.

«Al XIX congresso del 1952 Mikoyan dichiarò che l'opera di Stalin 'illumina col genio di Lui tanto la grande, storica strada che noi abbiamo percorsa, quanto quella che conduce ad un sempre più tangibile futuro comunista'. Alla fine del suo discorso del 1952 Mikoyan levò il grido di 'Gloria al grande Stalin!'. Quella volta egli si riferì anche alle opere di Stalin come ad un 'tesoro di idee' e disse che nei suoi libri 'il compagno Stalin illumina la nostra vita con la sfolgorante luce della scienza'!».

Oggi per gente dotata di simili stomaci, come Tito da bandito a coltello fra i denti è passato a eroe rivoluzionario, Stalin viene ridotto ad una pezza da piedi. Ma Stalin fu un combattente, un cospiratore ed un organizzatore di primissima forza: i suoi lati negativi sono noti in modo pauroso, oggi che il libro di Trotzky sulla sua biografia resta pacificamente acquisito come non dovuto ad un «agente segreto»: teorico e scienziato, ecco quello che nessuno doveva crederlo, né oggi, ne ieri, ne ieri l'altro! Chi dunque crederà ad una ricostruzione dottrinale e scientifica, commessa a quella gente, che si fece reggere il massimo lume proprio da lui? Spegnete la lampada sotto la sua icona, gente, e andatevene a letto al buio. Non elogiate Lenin e Marx: potrebbero saltar fuori dalla tomba.

Citiamo la stampa borghese, eh, tovarisch Tecoppa? Giusta la consegna di dar mano agli archivi, data dal gran segretario, sfogliamo la collezione dell'«Unità».

Col XIX congresso si annunziava la stampa di un milione e mezzo di copie dei «Problemi del socialismo» di Stalin (nel seguito diremo dell'attuale demolizione di tale opera al XX congresso). Viene, nell' «Unità» del tempo, citato dalla «Pravda» che
«
si tratta della più grande fase di sviluppo dell'economia politica marxista-leninista..., che eserciterà un'enorme influenza sullo sviluppo della scienza sovietica avanzata», che «per la prima volta formula la legge economica fondamentale del socialismo» (era la legge del valore e quella della produzione crescente in ragione geometrica!), e tutto ciò «sviluppando in maniera creativa (ce la sbrigheremo pure con questa creatività, che si è anche oggi voluto far risalire a Lenin) gli insegnamenti di Marx, Engels e Lenin».

Malenkov chiuse così:
«
Sotto il vessillo dell'immortale Lenin (era già morto, buon per lui), sotto la saggia guida del grande Stalin, avanti, ecc.».

Molotov fu più sonoro:
«
Viva il partito di Lenin e Stalin! Possa il nostro grande Stalin vivere in buona salute per molti anni! Gloria al compagno Stalin, grande capo del partito e del popolo! Viva il caro Stalin!».

Kaganovitch (numero del 15 ottobre 1952) parlò a lungo del geniale capo Stalin, che arricchì di nuove scoperte la teoria di Marx, Engels e Lenin; di capo e maestro Stalin, di opera geniale teorica, e via. Quanto al discorso di Mikoyan lo si legge a pag. 3 del numero del 16 ottobre, con le smaccate espressioni già dette.

Tanto uso di retorica e di cortigianeria ributtante, per grande fortuna, è pernicioso anche per il successo del lavoro disfattista della preparazione rivoluzionaria della classe operaia: non aprirà essa gli occhi, in Italia e altrove, nemmeno a questo scandaloso svolto di oggi?

Noi attenderemo lo stesso gli effetti di quelli, marxisticamente indagabili, che si verificheranno domani, e che segneranno la lunga durissima via del risalire storico della rossa onda di marea.

E vedremo il legame tra il terremoto congressuale di oggi e le proclamazioni che la realtà storica imporrà domani, inevitabilmente, a quelli che oggi con impareggiabile audacia buttano via i giurati insegnamenti del maestro Stalin, il milione e mezzo di copie della nuova Economia che sostituivano a quella di Marx e Lenin, i volumi delle «Opere Complete» di Stalin in pubblicità fino ad oggi in Italia, e che da oggi si tolgono di bottega.

Come noi abbiamo già detto andiamo verso il Congresso della confessione. La forza dei fatti è una forza fisica, ed essa si impone agli uomini anche presentandosi come forza di una teoria, cui si può per interi cicli mentire, ma alla quale alla fine si è costretti a piegarsi.

Un grande svolto verrà quando dovrà dichiararsi che la struttura dell'economia sociale di Russia è struttura capitalista.

L'economia pseudo scientifica di Stalin sarebbe allora incomoda alla manovra. Farà anche comodo trarre dal marxismo autentico questa prova, sostenendo la storica necessità di questa situazione, per salvare la stabilità - di cui oltre diremo - del potere di Stato.

Converrà allora citare che questo Trotzky, Zinoviev e tanti di noi lo avevano detto, fino a che scese la saracinesca del 1926. E allora non sarà comodo aver diffuso che lo dicevano perché erano agenti segreti del Capitale.

Ecco la trama di una spiegazione marxista oggettiva del XX congresso, e della labilità ideologica paurosa di quanto in esso si è dovuto formulare.

 

 

Piombo nei deretani

Altra nostra trattazione che i lettori ricordano considerava la recente abiura di Molotov - che il suo «caro Stalin» aveva gratificato dell'epiteto di deretano di piombo - alla enunciazione, sfuggitagli per troppa fretta, per essersi forse un momento i diplomatici piombi scuciti, che in Russia non si erano edificate altro che «le basi» del socialismo, e non «il socialismo».

Per ora questa abiura Molotov l'avrebbe ripetuta, e con essa altre, come quella di avere sottovalutata la sollevazione dei popoli di Asia ed Africa contro il giogo coloniale bianco.

Ma noi avemmo il diritto di far collimare questa tesi evidentemente esatta, con quelle che erano state svolte nel contraddittorio all'Esecutivo allargato di agosto 1926 fra Stalin, Trotzky e Zinoviev, che fu in quell'occasione in modo particolare felice e completo, ben riscattando gli ondeggiamenti tattici di anni anteriori. Stalin resistette allora assai debolmente alla schiacciante prova storica e teorica che Lenin non aveva mai ammessa come possibile la trasformazione socialista (di costruzione non parlò mai, né può parlarne il marxismo) senza l'avvento della Rivoluzione operaia in occidente. Stalin stesso ripiegò allora sulla vittoria militare sulla borghesia interna e sulla edificazione delle basi del socialismo. La base del socialismo, come Lenin ha sempre spiegato, è il capitalismo monopolista e statizzato nell'industria, e un passo verso di esso è il più modesto gradino del capitalismo, qual che sia, al posto della piccola produzione rurale e del piccolo commercio. Questo uno Stato centralizzato può edificare, dove manca, e quindi costruire forme economiche capitaliste.

Il passaggio alle forme socialiste non è una edificazione, ma una demolizione di rapporti produttivi, possibile al di là di un certo livello quantitativo delle forze di produzione, che Bulganin ci confesserà, più oltre, di non poter raggiungere nemmeno nel 1960.

Legammo la giusta formula marxista, non sfuggita a caso ad un diplomatico del calibro di Molotov, alla sua forza come militante e studioso di scienza marxista, che risale ai primi tempi di Lenin e che male egli posponeva ai dubbi insegnamenti di Stalin nel 1952.

In questo congresso la questione non poteva non avere un'eco. Ma essa non è oggi matura: ne sentiremo parlare tra qualche anno tanto ampiamente, quanto oggi di quelle della storiografia distorta, della direzione collegiale e non personale, e delle altre che attendono noi e voi alla prossima giornata: le leggi economiche che spiegano l'economia russa attuale nell'industria pesante e leggera, nell'agricoltura e nel commercio - e la grande questione centrale su cui i disertori si spezzeranno da sé i denti e le reni: il trapasso internazionale del potere al proletariato, e le pretese nuove vie di esso. Abbiamo visto passare due generazioni di marxisti: cominciammo appena a ripetere la dottrina sulla via al socialismo, che già dovemmo darci di coltello con quelli che prefiggevano vie nuove (nel lontano 1910, il frontepopolarista Bonomi).

La consegna in questo congresso è di tenere duro sulla costruzione del socialismo in Russia affermata dal 1936, anche se negli altri paesi la «volontà popolare» regola i loro «affari interni» nel senso di restare capitalisti.

In un ulteriore stadio la tesi sulla «coesistenza», altra bestemmia anti-leninista, sarà disperatamente tenuta su, anzi «diventerà marxisticamente vera» perché sarà gettata fuori dei bordi, sul mucchio delle invendute opere di Josif, quella della «costruzione». Allora, racconterà un Molotov all'Occidente, noi coesistiamo perché edifichiamo la stessa cosa: il capitalismo quantitativamente crescente.

Ma si leverà allora, da tutto fuorché dai congressi di quel partito, la voce di Lenin: proprio per questo non coesisterete, perché i vari imperialismi non possono che andare verso lo scontro e la guerra.

Sul terreno oscillante il discorso di Krusciov ha pure avuto, tra le ombre, qualche colpo d'ala. Ad esempio quando ha descritto un asse di affari Washington-Bonn, che egli contrappone ad un asse Londra-Parigi. Forse l'inguaribile frontista ha visto il gioco di una crociata, comoda ancora, contro la Reichswehr dell'odiata Germania, che più formidabilmente del primo dopoguerra si sta oggi levando in piedi. Ma noi abbiamo rammentato che dal 1919, non ancora sopite le cannonate della prima guerra mondiale, Lenin indicava il conflitto imperiale tra Stati Uniti e Giappone, come se sentisse schiantarsi sulla pietra e l'acciaio le bombe tremende, se pur non atomiche, di Pearl Harbour.

La Rivoluzione ritornerà con la non vicina guerra generale. Ma Lenin nel tracciare questa lucente dottrina non legò tanto la disfatta militare, la ritardata rivoluzione borghese, e la scesa in lizza del proletariato su questo dramma, quanto il ritorno della situazione rovinata dai traditori del 1914, e che dovevano ancora poi rovinare quelli, carne della sua stessa carne, del 1939. Egli vide la rivoluzione che ferma la mobilitazione e la guerra e rovescia i poteri dei mostri imperiali belluini e sitibondi di sangue.

Difficile è la prospettiva della prossima guerra se i primi missili arriveranno a partire. Ma forse, in qualche eventualità non prossima della storia, essi non saranno fatti partire. Una di queste potrebbe riguardare l'asse Bonn-Washington, e specie se si avrà la temuta, dai due ministeri della guerra atomica del Cremino e del Pentagono, unificazione tedesca. Se risorgerà quel partito, di pochi uomini oltre Marx ed Engels, del ricordato lontanissimo 1852, che spingevano lo sguardo, ansioso e pieno delle grandi visioni del Quarantotto, sull'apparire dei nuovi bagliori di guerra nell'orizzonte di una pace idiota, potrà il dramma rivoluzionario, che nel primo mezzo novecento ha girato intorno alla Russia, girare nel secondo mezzo intorno alla Germania.

 

 

Cauti sguardi sulla rotta nuova

Le parole misurate del rapporto di Krusciov dirette alla tesi di Molotov hanno avuto per contrappeso un'affermazione che si è presentata agli osservatori di mestiere come diretta contro Malenkov, prima di Molotov, e più gravemente, censurato dal partito per avere intravisto un trapasso dall'economia di produzione a quella di consumo, un freno all'industria pesante a vantaggio della leggera, fase che evidentemente in dottrina si pone molto più oltre nel tempo, di quella dell'edificazione totale delle basi industriali.

Anche Malenkov non ha mancato di rettificare e ritirare formalmente: né Molotov né Malenkov sono stati o saranno ghigliottinati, nemmeno in effigie, come il giornalistume attendeva ed attenderà, e Bulganin tanto meno. Il caso di Beria non riguarda programmazioni economiche: esso è legato alla liquidazione del periodo staliniano, d'infamia e forca sull'ala sana rivoluzionaria del partito russo. Questa non avrebbe mai tollerato, portata tutta non su piani costruttivi, ma sulla rivoluzionaria distruzione del capitalismo di occidente, la vergogna dei patti militari di alleanza, degli amplessi di coesistenza, di un appoggio internazionale - che cedendo visibilmente ha smontato il risibile gioco - sul fecciume sociale delle classi medie, là ove la rivoluzione contro il feudalismo, la sola in cui possono servire da carne da cannone, era fatta e dimenticata. Ed è oggi Beria storiografato come agente imperialista.

Ma tra le stesse formule di Krusciov si legge, se ben si guarda l'altro revirement di domani, che ridarà ai Trotzky, agli Zinoviev, ai Bucharin non solo l'onore di militanti antesignani del comunismo, ma il riconoscimento della potente chiarezza teorica e scientifica di marxisti, mentre i loro assassini e pretesi critici andranno alla sorte che li attende, nell'amplesso colle braccia dentate di acciaio degli altri mostri imperiali.

Ci serviremo del testo dell'«Unità», nel riassunto e negli stralci dal resoconto che la «Tass» ha diffuso.

Nel confronto col potenziale dei paesi occidentali le cifre confermeranno che Krusciov ha avuto ragione di dire che la Russia è ancora di molto indietro - egli ha detto «la base industriale del sistema socialista divenne sempre più potente». Alla lettera la formula è marxista quanto quella molotoviana!

Krusciov ha decisamente più volte accennato ad un «fallimento» nel piano agricolo e nella scarsa resa della produzione colcosiana, lasciando intendere quanto ciò dilazioni un elevamento della produzione dei beni di consumo. Ma ciò va riservato alla parte economica. Anche in questo ha pencolato verso Molotov.

Anche la formula: consolidare la potenza economica del nostro paese socialista è attenuata rispetto a quella dell'avvenuta costruzione socialista: nella prima la Russia è socialista politicamente, nella seconda economicamente. Due falsi, ma teoricamente diversi.

«Progresso economico, elevamento del livello materiale e culturale dei lavoratori» non sono più formule che si attagliano ad una società socialista!

Contrasta per la sua freddezza la condanna di Molotov:
«
Pretendere che noi abbiamo gettato soltanto le fondamenta del socialismo significa trarre in inganno il partito e il popolo».
Vi è dunque ancora popolo quando il socialismo coi suoi «rapporti di produzione» è già «edificato», ossia quando nemmeno il proletariato dovrebbe più esistere?

Ma la botta dall'altra parte è molto più data a fondo:
«
Incontriamo un altro estremo nel modo di trattare la questione dello sviluppo socialista. Perché noi abbiamo alcuni funzionari dirigenti i quali interpretano la transizione graduale dal socialismo al comunismo come un segnale per l'attuazione dei principii della società comunista già nella fase attuale. Alcune teste calde hanno deciso che la costruzione del socialismo è già completata (insomma la costruzione è cominciata o completata? Ha le sole fondamenta o anche il tetto?) ed hanno cominciato a compilare una tabella minuziosa dei tempi per il passaggio al comunismo».

Questa seconda formula è straordinariamente timidista. Nello stesso capitalismo alcune funzioni economiche si fanno, in settori chiusi nel tempo e nello spazio sia pure, con principii di economia comunista, ossia senza remunerazione monetaria: lo spegnimento degli incendi, la lotta alle epidemie, alle inondazioni, ai terremoti (geologici!), al freddo persino. In un paese socialista non si farebbe nemmeno uno starnuto senza contropartite in dare ed avere, di denaro e di tempo-lavoro?

Qualche altra spintarella e ci siamo, Segretario cui - honny soit qui mal y pense - non si tributerà, né oggi né mai, culto alcuno.

 

 

 

Note:


 

 

1. veggasi oltre, «Dialogato coi morti», «Giornata Terza, Sera»: «Come hanno arricchito Marx». [back]

2. Vedasi, nel n, 4 del 1956 di Programma Comunista la ricapitolazione di tutto questo svolgimento nel cappello alla II° parte del resoconto delle nostre riunioni di Napoli e Genova: la trattazione è poi regolarmente continuata nei numeri successivi. [back]


 

 

Giornata seconda

 

  • Culto della cartaccia
  • Confessate svolte
  • Forze in urto nel mondo 1956
  • Prima lo scopo, poi i mezzi
  • Mezzi: la violenza
  • La pietra filosofale
  • L'essenziale in Marx-Lenin
  • Il dopo-conquista del potere
  • Leninisti kautskiani
  • La scena a tre
  • Ritiro delle concessioni
  • Note

 

Culto della cartaccia

Più volte avremo a ridurre ancora le posizioni del movimento di Mosca alla negazione, di controfacciata assoluta, dei cardini del comunismo. Basta ora vedere la cruda banalità della manovra cartacea con cui si pensa davvero di sormontare la tellurica scossa d'oggi tenendo tuttora in piedi, (e se questo avverrà sarà in grazia di ben altri e ben individuabili fattori) il mondiale baraccone.

Tutto il «materiale Stalin» si toglie di colpo di mezzo, e lo si rastrella indietro da tutti gli spacci di periferia. Al suo posto si rovescia di colpo, rigo a rigo, la letteratura di questo ventesimo congresso, più sconnessa ancora, nella sua filiazione da più padri, degli «scientifici» e davvero pietosi parti del mammone Stalin. La cestinatura del secolo, direbbe lo scribame; la più grande cestinata della storia, diremo noi: milioni e milioni di rubli, al solo valore di carta da macero. Miliardi di spese di stampa in tutte le lingue; rotative a ritmo degno di quest'epoca atomica, ed asina.

La stessa scolastica medioevale non è arrivata a tanto quando ha bruciato, insieme ai condannati autori, magari in sottana nera, i cumuli dei loro scritti, ha scomunicato chi li leggesse o toccasse in avvenire, ed ha imposto ai fedeli di recitare a milioni la preghiera di impetrato perdono per l'eresia, di riconsacrazione dei pulpiti violati e delle cattedre salite da Satana.

La scolastica, fase storica assai più rispettabile di questa che ne occupa, aveva la giustificazione di essere del tutto coerente alla propria organica dottrina sull'azione e la conoscenza umana. Per essa, le masse sono pilotate per la coscienza, e questa è pervia alle operazioni di «propaganda fide» quando l'organizzazione delegata dal supremo Ente esprime nelle sue formulazioni il dettato e la luce della Grazia.

Il moderno pensiero critico borghese, che ancora non sgombera malgrado le brutte figure a catena su tutti i fronti, rifiutò l'Ente, la Grazia, e l'investitura d'infallibilità, ma pretese sostituirvi un pilotaggio dell'azione umana non diverso, ossia prese gli uomini per la testa, delirò per la macchina da stampa, per l'alfabetismo e per il libro in grande tiratura, ed - ahi per lui - per l'inondazione delle gazzette; per il Maestro-fiaccola contro il Prete-spegnitoio.

Non sgarra chi traduce questa presa dell'uomo-cittadino per la testa, in reale presa per il dialettico, se pur scurrile, contrario.

Molto peccando, noi socialisti di passati tempi scambiammo il movimento nostro con una nuova propaganda fide, non intendendo che il militante marxista non è più uno che sa convincere e insegnare, ma uno che sa imparare dai fatti, che alla testa dell'uomo corrono avanti, mentre essa, vacillando, da millenni cerca inseguirli.

La più matura accezione del determinismo nulla ha a che fare col passivismo, ma chiarisce che l'uomo agisce prima di aver voluto agire, e vuole prima di sapere perché vuole, essendo la testa l'ultimo e meno sicuro dei suoi arti. Il migliore uso che un gruppo di uomini possa farne sarà di prevedere il momento storico in cui - altro che passivismo! - saranno catapultati, per la prima volta a testa avanti, in un turbine di azione e di battaglia.

I sapientoni delle inesauribili risorse e delle manovre escogitabili in qualunque stretta con furbesco successo, gli attivistissimi, stiamo da anni ed anni a vederli oscenamente procedere, il viso imperterrito, ma le-cul-le-premier.

Noi riconsultiamo in faccia a loro gualciti inarrivabili libelli che ci guidano da circa un secolo: quei signori danno un saggio del loro ritorno al marxismo cambiando da un giorno all'altro, ad un fischio del contromastro, tutto l'armamentario stampato, in critica storica, economica, politica, filosofica, certi che così cambieranno a lor modo la faccia del mondo.

Appunto perché non oggi certo abbiamo imparato a schivare il culto della personalità, compulseremo sempre che ci paia l'opera di Stalin; non quoteremo un soldo più alto di questa il lanciato Florilegio di congressuali coglionerie, che oggi trabocca.

 

Confessate svolte

Nella prima Giornata di questo Dialogato abbiamo preso in esame due aspetti delle cancellature e riscritture di dogmi operate in questo moderno Concilio, non di Nicea o di Trento, ma di Mosca. A noi soprattutto preme questo falso credo: «l'economia russa odierna è di struttura socialista», che non è fino ad ora stato gettato fuori bordo, e preme l'altro non meno folle di Stalin: «nella economia socialista vige la legge dello scambio tra equivalenti (mal detta legge del valore)» in merito al quale le cose sono tuttora allo stesso stato.

Sui punti economici che sono stati più da vicino trattati nel discorso Mikoyan ci fermeremo più avanti. Abbiamo finora preso atto di mutate posizioni che, già contenute nella relazione del segretario del partito, hanno avuto in altri discorsi ampio sviluppo, sulla storiografia e sulla personalità.

La prima mutazione consiste nel rimangiare come calunnie tutte le accuse di tradimento mosse ai bolscevichi anti-staliniani sterminati nelle oscene «purghe». Gli uccisi restano uccisi, e il loro massacro conserva la forma della distruzione dell'avanguardia rivoluzionaria operaia: l'errore di «storiografia» non si salva con una riabilitazione (da quella gente teniamo sommamente ad essere chiamati traditori e banditi fascisti, mentre avremmo sacro orrore di una riabilitazione da parte loro!). L'errore apparrà nella sua luce storica il giorno che risplenderà come esatta fosse la posizione marxista di quel poderoso movimento (si trattava di diecine di migliaia di provatissimi militanti ovunque selezionati e giustiziati nella controrivoluzione, da allora palese, come la vera storiografa marxista registrerà), ossia quando si dovrà dichiarare non socialista la trama economica della società russa. Questo non ancora si confessa appieno. Ma l'ora verrà.

La seconda mutazione fin qui esaminata è quella della condanna al culto della personalità, anch'essa effetto solo di una determinazione forzata, e del tutto inadeguata alla posizione marxista. Si liquida il culto di Stalin, colla bieca interpretazione che lo avesse fondato Stalin stesso, e l'asserzione che al posto del Capo unico va messo il «collegio» direttivo dello Stato e del partito. Anche qui la posizione nuova è inconsistente, e non vive in essa la giusta soluzione del rapporto tra classe e partito. Se fosse possibile ad un uomo costringere un'intera collettività al mito del suo potere personale, non si tratterebbe di errore di un cattivo marxista, bensì di una decisiva prova storica contro il marxismo.

Siccome il primo discorso diffuso è stato quello di Krusciov, più che le mutazioni (apparse poi clamorose) sui primi due punti detti, ha colpito la sua posizione in merito al compito dei partiti comunisti (ben pochi non hanno mutato tal nome; e meglio è dire dei partiti legati con Mosca) nei paesi «fuori cortina». In tutti i paesi - ha detto - il nostro programma resta l'avvento della società comunista; non vi abbiamo affatto rinunziato (questa confessione sarà ancora più lontana). Ma quanto al processo storico che conduce dalla società capitalistica al comunismo, non riteniamo che esso debba necessariamente passare per la guerra civile, l'uso della violenza, la dittatura proletaria, come Lenin sostenne nel 1917 (ha fatto anche su questo riserve Krusciov) e ammettiamo che possano esservi vie diverse da quella, e diverse da paese a paese. Ha sostenuto che possa esservi anche la via della conquista della maggioranza parlamentare, e che i partiti debbano utilizzare in questa lotta non il solo appoggio dei lavoratori salariati, ma l'alleanza con questi delle classi medie, il consenso del popolo e di tutti gli uomini colti e di buona volontà. Non ha però escluso che in date situazioni invece di prendere tale strada pacifica, o quando questa sia sbarrata dal capitalismo, si ricorra alla guerra civile.

Questa crassa dichiarazione è stata tutta originata dalla necessità di sostenere le note tesi di politica internazionale: coesistenza coi paesi capitalistici, evitabilità della guerra con essi.

Qui (in massima) non vi sono svolte rispetto alla posizione di Stalin, e quindi non si è trattato di una clamorosa mutazione, come sulla storia dei tradimenti e sulla direzione unipersonale. Si è trattato di abbassare la maschera e dire, proprio mentre per i primi punti si asseriva di ritornare, da quegli errori e sviamenti, all'ortodosso marxismo e leninismo, che si sarebbe condotta la stessa azione politica, nei paesi esteri, che hanno sempre condotta i partiti socialdemocratici e piccolo-borghesi.

Logico quindi che si rilevasse l'incontro del nuovo con l'antico opportunismo e la complicità di entrambi con la salvezza dell'ordine borghese. Ma non basta a noi marxisti dire che la prima ondata e la seconda ondata dell'opportunismo sono la stessa cosa, né si tratta di frettolosamente dedurne che il capitalismo di Occidente e quello di Oriente, indifferentemente, sono gli stessi. Le vie storiche dei due opportunismi sono diverse (il secondo è molto peggiore), e diversa la via con la quale il capitalismo nei due campi si è sviluppato, e la rivoluzione lo vincerà; diversa, ma in nessuno dei casi pacifica.

È poi forse medita questa confessione di Krusciov? Va guardata di nuovo, s'intende ripetendo quanto abbiam sempre detto, la questione della strada al potere, e del potere di classe.

 

 

Forze in urto nel mondo 1956

Se la società umana nella sua storia presenta una serie di urti e di conflitti, non sfugge certo a tal sorte il suo torbido quadro presente.

Non poteva sfuggire ad un tale esame questo congresso. E il problema della lotta sociale e politica in quei paesi che stanno fuori della frontiera dell'U.R.S.S. e della famosa «cortina», il problema della «politica interna» dei paesi «capitalistici», non è, nell'avviso di tutti, il solo. Vi è quello della politica russa a cui sappiamo come Krusciov e compagni rispondono: non vi sono classi e lotta di classe, vi è concordia intorno al governo socialista, del tutto unanime. A ciò si replica con tutto l'esame che andiamo svolgendo della struttura economica e sociale russa. Nella figurazione deforme dei convertiti da Stalin (a tutto, fuorché a Marx e Lenin), in Russia e nei paesi fratelli non vi sarebbe più urto tra Stato e Società, nel senso di Engels, ma vi sarebbe ciò solo nei paesi atlantici, ove vige lotta di classe (ed anche questo in un senso bastardo).

Divisi così gli Stati del mondo in due gruppi, sorge il problema dei rapporti di forze tra essi. Questo problema sorge in tre modi. Rapporti tra gli Stati di un gruppo e quelli dell'altro - rapporti tra gli Stati del gruppo est - rapporti tra gli Stati del gruppo ovest. Siamo qui in pieno ai problemi che trattammo nel «Dialogato con Stalin». In economia: mercato unico mondiale o doppio mercato? In politica: pace o guerra? Domanda che riguarda anche i due ultimi casi, nel seno di gruppi omogenei.

Le mutazioni qui ci sembrano queste. La coesistenza, nel senso di «non guerra» e di «ciascuno si fa i fatti di casa sua», era affermata al XIX e lo è al XX congresso. L'emulazione o competizione economica nel senso di discesa su un unico mercato (dimostrammo come fosse rigorosa la dimostrazione di un economista borghese che questo vale ammissione dell'analoga natura, mercantile e capitalistica, delle economie dai due lati), appare chiaramente accettata nel XX congresso, mentre era fortemente riservata sotto Stalin. Era questo congresso un'accademia marxista, come pretende, o non piuttosto ha fatto a pezzi l'idolo Stalin per soddisfare le richieste della Camera d'affari del Capitalismo mondiale?

Quanto ai rapporti tra Stati nel seno del gruppo est, si sottolinea l'impossibilità di loro contrasti, e le effusioni esterne sono caldissime. Ma chi crederà a questi calori tra animali a sangue freddo? Chi ci prenderà Gronchi e granchi? Tra i motivi tuttavia per i quali Stalin e la sua spoglia si tolgon di mezzo, sta quello forse di qualche callo pestato dalla parte dell'Asia, ove sembra che la parte di satellite si reciti meno corriva che dalla parte d'Europa.

Il problema terzo, degli urti tra Stati dell'ovest, tra quelli ove si tratta di Granchioni con vere tenaglie, sembra anche in mutazione. Ma, illustri venti-congressisti, qui era più leninista (gli dialogammo su questa pretesa il fatto suo) il ci-devant (ci puzzate a mille miglia di giacobinismo borghese!) astro di scienza Stalin! La guerra tra gli Stati dell'imperialismo capitalistico nel gruppo ovest restava inevitabile. E l'orifiamma della Rivoluzione Sociale, anche se già era ridotta allora a vano spauracchio, era ammainata solo a metà.

Abbiamo dato atto al Krusciov di una profezia robusta sui rapporti inter-occidentali, sebbene egli parlasse più di urti tra assi di affari, che tra assi di guerra. Ma indubbiamente questo messere ha preso altri terzaroli nelle vele della minaccia rivoluzionaria, in legame allo spettro di guerra, e la tela è stata ammainata per tre quarti.

Chi resterà a fare queste operazioni, di tali navigatori dalla precaria carriera, allorché senza mercede e senza pietà il vento della Grande Bufera riprenderà a soffiare? Giocate pure per qualche tempo, capi di una Russia neo-borghese, col vostro ciclone «Marianna», profumato di Coty.

Per ora dedichiamoci al problema classico del potere, in paese capitalista, e prendiamo con le molle le vostre «creatrici» teorie neonate: puzzano di putrefatto.

 

 

Prima lo scopo, poi i mezzi

Naturalmente il primo commento che ha fatto la stampa capitalista internazionale è stato quello di fingere stupore: come, tanta corsa alla distensione generale, e poi la prima cosa che Krusciov dice è che il suo movimento è sempre per il socialismo e il comunismo in ogni paese? Non più guerra né calda né fredda, ma sempre propaganda per la rivoluzione all'interno dei paesi, con i quali si mantengono relazioni di corretta amicizia? Questo gioco dalle due parti durerà ancora per molti e molti anni: deliziosi finti tonti.

Ma dove sei, Trotzky, che conclamavi che con la guerra polacca - sebbene nella tua capacità militare la temessi precipitata - si doveva portare la Rivoluzione proletaria nel cuore dell'Europa borghese? Il modo con cui Krusciov si è dichiarato sempre comunista è tutto speciale. Egli se l'è presa con i borghesi esteri che trovano contraddizione tra la dichiarata pacifica coesistenza e l'affermazione di aver per programma il comunismo dovunque. Secondo lui
«
gli ideologi borghesi confondono le questioni della lotta ideologica con quelle dei rapporti tra gli Stati» e invece «la grande dottrina marxista-leninista» afferma «che la instaurazione di un regime sociale in questo o quel paese è una questione interna dei popoli dei relativi paesi».

Tutto quello che ammette Krusciov è che i comunisti non sono sostenitori del capitalismo! Questo ai pennivendoli borghesi è sembrato linguaggio da Giove tonante? Ma egli ha aggiunto che i comunisti non si immischiano negli affari interni dei paesi con ordinamenti capitalistici. Neh, don Carlo Marx, di che ti immischiavi in quel lontano 1850? Russavi, in attesa che fondassero lo Stato di Israele, l'unico sugli affari del quale avresti avuto voce per pontificare? E allora, dove ha questo scita studiato la «grande dottrina», per le corna di Adamo?

Lasciamo queste perle.

Il discorso, nella nostra pochezza, lo leggiamo così: io segretario, in Russia sono comunista non solo ideologico ma costruttivo (bella parola dell'odierna moda che, come in cento altri casi, compete, in guanti gialli, con parallelo stile, dai due lati del sipario) ma all'estero sono un comunista «ideologico», e stop. Ormai con la coesistenza nasce il reciproco turismo: dirà il viaggiatore yankee, alla vista del conto dell'albergo (pare salato anzi che no): pagare? Ohibò, in casa vostra sono un capitalista, ma puramente ideologico.

Contentiamoci dunque del comunismo ideologico, ma guardiamolo un momento contro luce. Del socialismo ne sappiamo abbastanza dal colloquio con Baffone: è basato sulla legge dello scambio di mercato. Non resterà che aspettare il comunismo, quando i suoi «ideologi» lo avranno costruito, giusta la grande dottrina di... Fourier-Owen. Per ora l'ideologo segretario lo spiega così: il comunismo... sarà un regime sociale... in cui ogni uomo lavorerà con entusiasmo secondo le sue capacità e riceverà, IN CAMBIO DEL SUO LAVORO, secondo i suoi bisogni.

Ma questa è la grande dottrina del rigattiere e del salumiere al cantone! Sopravvive il cambio del lavoro contro il consumo, la società tiene il libretto contabile di ogni soggetto individuale, non si sogna di fare nemmeno quello che in settori ristretti fa la società attuale; raccogliere lavoro, e distribuire oggetti e servizi soddisfacenti i bisogni, anche quando chi ha bisogno non dia lavoro adeguato, non più perdendosi a scrivere l'equazione mercantile! Se lo scopo di Krusciov è ideologicamente così facile, allora forse le sue tortuose equivoche strade valgono per raggiungerlo!

 

 

Mezzi: la violenza

È giusta la frase: ai nostri nemici piace presentare noi leninisti come i partigiani della violenza, sempre e in ogni caso. L'elemento violenza non è per noi quello «discriminativo» tra il marxista rivoluzionario e chi non lo è. Non si può essere partigiani della violenza perché essa non è uno scopo, ma un mezzo, un passaggio. La società comunista sarà senza scambio e solo a tal patto senza violenza, alla fine. Perché solo allora sarà senza classi.

Può tuttavia - questo e il punto! - esservi il partigiano della non-violenza che dirà: ideologicamente voglio l'emancipazione del proletariato, ma se per averla occorre violenza, abbandono tale rivendicazione. Chi dice questo non e un marxista: ogni pacifista «immediato» si respinge dal marxismo. E Lenin respinse, sulla parola di Marx, chi è contro qualunque guerra, sempre e dovunque; lo spiegammo a lungo nella parte Prima della «Struttura della Russia» (3).

Ma il marxismo condanna egualmente anche queste vecchissime tesi: la violenza civile fu mezzo adatto all'emancipazione dei cittadini dal regime feudale e dispotico, e lo ridiventa se le conquiste della libertà personale e la democrazia sono minacciate; ma fin quando la democrazia sia rispettata la lotta politica deve essere pacifica.

Condanna non meno quest'altra: dal tempo della Comune di Parigi, o almeno della fondazione della Seconda Internazionale, la trasformazione della società borghese in socialista avverrà gradualmente e senza ricorso alla violenza, con misure realizzate dal proletariato con l'arma del suffragio, che condurrà il suo partito al potere.

Queste sono già tesi non morali o filosofiche o «ideologiche», ma strettamente storiche. Lo stesso Lenin ha chiarito i lungamente dibattuti dubbi sulle enunciazioni di Marx e di Engels, la versione che fino al 1865 pensassero possibile in Inghilterra una vittoria pacifica del proletariato, che alla sua morte Engels la considerasse possibile in Germania. In teoria può ammettersi che una borghesia in condizioni sfavorevoli abbandoni il potere politico a un partito di programma socialista: ma l'urto violento sorgerà subito dopo. Lenin nota come Marx (risposta dopo una conferenza in Olanda) negò la possibilità anche in Inghilterra di una «dimissione» della borghesia dal potere, e quanto ad Engels la sua tanto discussa prefazione suggerisce soltanto, nella Germania 1890, di lasciare al governo l'iniziativa del conflitto.

Quello che qui diciamo per il mezzo violenza, vale per il mezzo insurrezione, guerra civile. In teoria non sono, in tutti i casi, pensabili e desiderabili. Il loro impiego ha limiti storici.

Questo limite Lenin e tutti i marxisti radicali lo rinvennero, in un secondo ciclo europeo successivo a quello classico del 1848-1871, nell'inizio della fase imperialista del 1900, e lo dimostrarono varcato in tutti i paesi sviluppati alla data del primo conflitto mondiale.

Queste premesse storiche sarebbero mutate, secondo Krusciov, e quindi potrebbero apparire dei casi in cui la presa proletaria del potere possa farsi senza violenza e guerra civile.

Contestiamo anzitutto le circostanze di fatto invocate: Le forze del socialismo e della democrazia sono cresciute. Falso. Al momento in cui Lenin stabilì la teoria storica tutta l'Europa era parlamentare e i seguaci dei partiti socialisti numerosissimi in tutti i paesi. L'imperialismo economico, questo sì giusta Marx e Lenin, ha dopo generate le forme politiche totalitarie, battute nella guerra, ma non nel tipo sociale del capitalismo supersviluppato: perché si dichiara nelle stesse pagine il pericolo che minaccia la democrazia in America, Inghilterra, Francia, Germania, ecc., i cui governi, ieri alleati, sono dipinti spesso come briganti fascisti? O questo era musica Stalin?

L'inserzione, dopo il «periodo idilliaco» 1890-1910, di due feroci guerre, non conterà nulla?

«Il campo dei paesi del socialismo conta oltre 900 milioni di uomini».
Contestato il socialismo - e la democrazia, di cui poco ci cale - come nuova forma in tale campo. Una novità storica ha smosso questi 900 milioni di uomini, solo un cieco può contestarlo. Ma come? Grazie a vampate di violenza e di guerra civile. Basta uno dei due termini a escludere che, soffice soffice, il resto del mondo si volti sottosopra senza cannonate.

Quanto alla «forza di attrazione» e alle «idee che hanno conquistato le menti...» ne facciamo grazia... alla nuova filosofia marxista.

Comunque, ammesso, per un momento quanto contestato, concediamo pure, a fine dialettico, che in qualche paese il capitalismo lasci il timone per pudore dei vecchi trascorsi, per cristiana rassegnazione, per paralisi da idropisia, per fair play, per quello che accidenti vuole il segretarissimo; che lo lasci gridando: perdiana, mi avete emulato in una pacifica competizione, mi chiamo toccato, mi avete regolarmente surclassato: vi riconosco... più capitalisti di me!

 

 

La pietra filosofale

Dunque accettiamo per un istante l'ipotesi del potere politico preso dal proletariato, una volta tanto, sine effusione sanguinis, senza violenza, senza sommossa, senza putch, senza blanquismo, senza insurrezione. Tutti questi non sono elementi discriminativi abbia ragione Krusciov.

Ce n'è un altro, il SOLO, il GRANDE, l'INSOSTITUIBILE, il NON NOMINATO al XX congresso: LA DITTATURA DEL PROLETARIATO.

Qualcosa - nella grande dottrina di Marx e di Lenin - non è cambiato tra il 1848 e il 1917, sebbene nell'intervallo il mondo borghese abbia fatto un tuffo di un quarto di secolo nel lattemiele.

Sarebbe cambiato dopo? Nel tempo di due guerre che hanno incendiato il pianeta intero? Della più grande vittoria rivoluzionaria della storia, quella di Ottobre, più e più a lungo irta di armi di quella epica del 1793, che ha fatto riecheggiare più tonante il grido eroico della borghese Carmagnole: vive le son, vive le son, vive le son, du canon!? Dell'affogamento nel sangue non solo delle Comuni di Berlino, di Budapest, di Monaco - dopo la prima guerra - di Varsavia, di Berlino ancora, dopo la seconda? Della passata per i plotoni Comune di Lenin, di Trotzky, di Zinoviev, di Kamenev, di Bucharin, di Radek, di dieci e dieci altri maestri sommi, di cento e cento sergenti e veterani del bolscevismo, di mille e mille soldati di classe, figli della gloriosa guerra guerreggiata del proletariato di Russia? Della stessa sanguinosa se pur borghese maschera che la degenerazione pose sui volti dei proletari europei nella falsa riscossa partigiana contro le stragi della dittatura capitalista in Italia, Germania, Francia, Spagna, Balcani e dovunque? Di quarant'anni di lotte civili nella Cina, in cui armate sterminate si incalzarono alternatamente più volte dal nord estremo al sud? Di cento episodi di lotte coloniali in otto o dieci imperi, grondanti sangue, in cui le gesta degli europei più democratici fanno impallidire quelle dei regimi reazionari, nella inenarrabile serie che va dalle stragi belghe dei negri del Congo, di prima delle lacrime 1914 sul popolo martire, alla recente sinistra albionica deportazione del vescovo cipriota, con tutto il resto?

Tutto quanto passò sul quadro storico, tra le due date che collimarono i due colossi, il cui nome insozzano le citazioni del Kremlino, era romanzo per giovinette, se messo a confronto della cannibalesca vicenda che si svolge nel mondo, da quando il tremendo esempio della Dittatura di Ottobre lanciò al mondo mammonistico del Capitale una tale sfida, che ha solo per posta la Morte.

Sebbene in questo stesso congresso, nel vantare nuove avviature e sviature, e nel millantare scoperte a catena che allargano il marxismo, si sia più volte ammesso che vi sono taluni principii che non è dato toccare e mutare, ecco che si attenta al principio dei principii, tolto il quale noi, dall'ultimo al primo, noi, milioni di rivoluzionari di ieri, oggi e domani, cessiamo di esistere.

La nuova parola del Partito che leva contro il mondo il suo «Manifesto» nel convulso 1848, verte sul passaggio al socialismo, trattato al XX congresso in modo beota.
«
Tutte queste misure sociali (che sciolgono i nodi dell'oppressione borghese) hanno come premessa l'organizzazione del proletariato in classe dominante - dopo che in partito politico - e il DISPOTICO intervento in tutti i rapporti di produzione borghesi».
Dispotismo - o forza di persuasione, o messeri?!

Il «Manifesto» tace (nella citata pagina) sulla insurrezione a mano armata. Si tratta di più che di una rivolta di schiavi. Sono le impersonali forze produttive che si rivoltano, e l'espropriazione degli espropriatori nasce sciogliendo un'equazione scientifica. Non rimbomba, qui, nel «Manifesto» il cannone. Ma poggia il suo pugno di acciaio la Dittatura sul nemico, anche vinto, prigioniero, arreso.

Nell'epopea sulla disfatta del 1848 del proletariato di Parigi echeggia la parola e la Consegna: distruzione della borghesia! Dittatura della classe operaia! Echeggia perché, come altre cento volte è avvenuto ed avverrà, la classe media insorta contro la destra annega nel sangue, dopo l'ottenuta vittoria, l'avanzata fiduciosa, l'imbelle ingenua «competizione emulativa» del proletariato. Allora, contro questi agenti del sistema borghese condannati dalla inerzia storica a far da boia della rivoluzione socialista, come già nel '31, si leva il grido, che con eguale sfortunato eroismo si leverà nel '71: dittatura della classe operaia! Silenzio nella strozza di ogni altra sezione del popolo! Non solo dei patrons e dei banquiers, ma dei sozzi, strozzini épiciers delle strade di Parigi! Silenzio nella strozza di Jacques Bonhomme (il contadino francese) col suo bas de laine, la calza rigonfia d'oro borghese.

E il preteso antinsurrezionista Engels, tanti anni dopo, alla fine della persecuzione sui socialisti tedeschi, grida: chiedete, o filistei, che cosa sia mai la dittatura? La Comune di Parigi: questa era la dittatura del proletariato! Anche dunque per una borghesia abdicante (e perfino fosse nelle mani di un Krusciov!) ed inerme, saranno presi ostaggi, e il proletariato dittatore, nelle date condizioni, ne farà l'uso che nel 1871 a Parigi ne fece, rispondendone leoninamente, nei rantoli dei Federati, e nell'apologia che Carlo Marx ne fece sul viso dei boia, davanti alla storia.

 

L'essenziale in Marx - Lenin

Nella seconda edizione di «Stato e Rivoluzione» scritta da Lenin nel 1918, egli inserì i passi della lettera di Marx al compagno Weydemeyer, già da noi ricordato, perché ritenne che «esprimessero ciò che distingue sostanzialmente e radicalmente la dottrina di Marx da quella dei pensatori borghesi, e l'essenza della sua dottrina sullo Stato».

Abbiamo voluto concedere che l'essenziale non stia nell'uso della violenza, nella guerra civile, nell'insurrezione, ossia che vi possa essere un caso storico di scioglimento incruento della lotta delle classi. Ma l'originale, l'essenziale per la «grande dottrina di Marx e di Lenin» non è neppure la lotta delle classi, è la dittatura, ed è la distruzione dello Stato. Come dirlo meglio che Lenin stesso?

«Mehring pubblicava nel 1907 nella 'Neue Zeit' alcuni estratti della lettera di Marx a Weydemeyer, in data del 5 marzo 1852. Questa lettera contiene, tra le altre, la notevole osservazione che riferiamo qui appresso: 'Per quel che mi riguarda, non ho né il merito di avere scoperta l'esistenza delle classi nella società contemporanea, né quello di avere scoperta la lotta delle classi tra loro. Storici borghesi avevano esposto molto tempo prima di me lo sviluppo storico della lotta delle classi, e alcuni economisti borghesi l'anatomia economica delle classi (in cui scioccamente notiamo di passaggio noi, certi gruppetti recentissimi con errore vecchissimo, vogliono leggere tutto il comunismo). Ciò che io (Marx) ho fatto di nuovo e di aver dimostrato 1) Che l'esistenza delle classi si riferisce solo a certe fasi storiche dello sviluppo della produzione (tesi che concerne la non eternità delle classi: vi sono state e vi saranno forme di società umana senza classi); 2) Che la lotta delle classi conduce necessariamente alla dittatura del proletariato; 3) Che questa stessa dittatura non è se non la transizione alla soppressione di tutte le classi e alla società senza classi...'».

Lenin dopo aver detto di dottrina essenziale, sostanziale, e radicale, ne fa la «pietra d'assaggio» per la comprensione e il riconoscimento effettivo del marxismo. E aggiunge: non è marxista se non chi estende il riconoscimento della lotta di classe fino al riconoscimento della dittatura del proletariato.

È di cristallina evidenza che tutte le vie di preteso passaggio al socialismo che non estendono il riconoscimento della lotta di classe a quello della dittatura, caratterizzano l'opportunismo contro il quale si svolse la battaglia teorica e materiale di Lenin in quegli anni, e che questo è un principio base che vale per tutti i tempi e tutte le rivoluzioni. Tale scoperta originale del marxismo non è una «conquista creativa» dell'esperienza storica, su cui si è fatto tanto cianciare: Marx la stabilisce quando non si è ancora vista nella storia una dittatura proletaria, e tanto meno una soppressione delle classi. Lenin ne fa inderogabile principio (dopo che Engels aveva additato nella Comune di Parigi il primo esempio storico di dittatura proletaria), poco dopo che la prima dittatura stabile ha clamorosamente trionfato, ma si esercita tra violentissimi assalti nemici, e sempre molto prima che si veda uno storico esempio, lontano molto oggi ancora, di sparizione delle classi e dello Stato.

Può venire chi vuole a dire che la lezione della storia ha smentito Marx e dimostrato che nello sviluppo delle forme di produzione si avranno decorsi senza dittatura; ma quello che non può sussistere è il proclamare ritorno alla dottrina di Marx e di Lenin, che in questa pagina danno concordi a distanza di 70 anni il «carattere discriminativo» della comune teoria, il riconoscimento odierno da Mosca di una forma della lotta delle classi, che si sviluppa nel campo mondiale come coesistenza pacifica e gara emulativa, e in alcuni campi nazionali come «lotta ideologica» e come conquista parlamentare dello Stato.

Perché, ecco il gran punto, quando dite che con moti nel quadro costituzionale in taluni paesi (che sarebbero poi due soli in tutto il mondo, Francia e Italia) sperate di avere il potere (se pure non escludete, a rigore, il ricorso alla lotta armata ove, violando la Costituzione, non ve lo passeranno dopo una vittoria elettorale), non dite affatto, anzi negate in teoria e in pratica, che distruggerete l'apparato del vecchio Stato, e nemmeno che escluderete la perdita parlamentare del potere in fasi ulteriori, sopprimendo ogni diritto politico alle classi non lavoratrici: la dittatura è questo e non altro.

 

 

Il dopo-conquista del potere

Fatta un'altra concessione - non meno fittizia di quella dell'arrivo al potere senza lotta insurrezionale - ossia che tendiate, come in qualche passo è detto, ad uno stabile potere dopo la conquista «popolare», e che assumiate impegno a difendere con la forza una tale stabilità nel caso che la maggioranza elettorale vi venga a mancare, facile cosa è vedere che si tratta di impegno impossibile a mantenere, e quindi ad assumere.

Queste concessioni ed ipotesi storiche assurde ce le rimangiamo subito: non tema il lettore che noi minimamente crediamo di aver a che fare davvero con socialisti e comunisti «negli scopi», rei soltanto di prendere clamorose cantonate circa «i mezzi». Lo stesso titolo di «passaggio al socialismo» è bestialità. Il termine passaggio serve a ciò che l'elegante gergo moderno (dei giovani signori che Lenin schiaffeggia) chiama pomiciare: indietro, sporchi pomicioni della Rivoluzione! Essa è scontro, urto, esplosione, feconda sanguinosa breccia nella storia!

Abbiamo dunque supposto che un governo «socialista» sia pervenuto per la via «costituzionale» al potere
«
unendo attorno alla classe operaia i contadini lavoratori e gli intellettuali, tutte le forze patriottiche».
Potrà il governo fondato su una tale maggioranza conservarla - anzi: avrà mai potuto conseguirla? - se dice: non ammettiamo che successive elezioni ce la tolgano, e ci fermiamo stabilmente al potere, non facendo più elezioni, o facendole in quel modo che ormai da tutte le bande si è appreso: votate, elettori, liberamente, ma solo a favore del governo?

Che diranno i contadini, che diranno gli intellettuali, che diranno le forze patriottiche (leggi per fissare le idee in Italia i cattolici «di sinistra», anzi di centro-sinistra)? Evidentemente essi, imbevuti di costituzionalità a tutti i costi, potrebbero anche scendere in armi se la storia ripetesse la situazione di una dittatura di destra prima o dopo un'elezione a vittoria popolare, ma non lo faranno per una dittatura di proletari che sospenda le sacre garanzie in nome delle quali si sarà montata tutta la sbornia. Ma che diranno i proletari autentici essi stessi, dotati di spirito rivoluzionario e marxista? Non diranno nulla, perché non ve ne saranno, altrimenti all'ipotesi dell'elefantesco fronte popolare non si sarebbe neppure giunti.

Krusciov evita dunque accuratamente la scandalosa parola Dittatura. Egli parla in edizione purgata di «direzione politica della classe operaia con a capo la sua avanguardia». Echeggia i traduttori di Marx che invece di dittatura rivoluzionaria del proletariato scrissero critica del proletariato.

Egli infatti si spinge a dire che
«
dove il capitalismo dispone di un enorme apparato militare e poliziesco le forze reazionarie (?) opporranno una forte resistenza».
Qui, in questo paese di eccezione, si fa grazia che
«
il passaggio al socialismo avvenga attraverso un'aspra lotta di classe, rivoluzionaria».

Siamo dunque arrivati al riconoscimento della lotta di classe in qualche caso speciale, ma non al riconoscimento della dittatura dopo la conquista del potere. È quello che Lenin chiama aver ridotto Marx ad un volgare liberale. Anche il più conservatore giurista liberale ammette che i cittadini usino la forza quando si viola un loro diritto costituzionale. Ci permetteremo quindi di lottare aspramente contro le forze reazionarie solo dopo aver dimostrato loro che non hanno la maggioranza parlamentare!

Noi qui non stiamo né ripetendo la dimostrazione della impossibilità di usare il Parlamento a fini di classe, né spiegando ai Krusciov-Togliatti che il loro metodo li deluderà. Sappiamo bene che così devono parlare e perché così devono parlare. Sono canne di organo in cui soffia proprio la volontà di non fare arrivare il proletariato al potere, e se tra essi vi fosse qualcuno che lo fa senza esserne pienamente conscio, anche questo a noi non direbbe nulla.

Preme a noi un punto solo: questo rinnegamento strepitoso dello stalinismo può essere spiegato in ogni modo, con le deduzioni del caso dal gioco delle forze internazionali e sociali interne della Russia, e lo stiamo ben facendo, ma non può essere fatto passare anche per i più gonzi, con la bandiera del ritorno alla dottrina Marx e di Lenin.

Le inabili e sciatte formulazioni del ventesimo congresso, anche prese come «letteratura», contengono apertamente il rifiuto del punto centrale della invocata dottrina: «la dittatura come transizione alla soppressione delle classi» ossia la dittatura dopo la conquista del potere. La tesi che essi lo ottengano senza battaglia potrebbe anche essere vera, perché potrebbe il fatto essere del tutto comodo per l'ordine borghese.

 

 

Leninisti kautskiani

Si risponde facilmente a questa vantata nuova edizione del leninismo con la voce di Lenin stesso, così come egli potesse parlare dopo il XX congresso.

Citazioni di Lenin naturalmente ne hanno fatte molti di questi signori. Il brano su cui fa leva il discorso di Krusciov, secondo cui sarebbe falsa applicazione del materialismo storico dare uno schema generale di successione di fasi prestabilite che identicamente debbano presentarsi in tutti i paesi, è come al solito invocato avulso dall'integrale sviluppo dell'autore. Lenin scriveva in aperta polemica con i socialisti della destra che avevano in nome di Marx idiotamente stabilito che la Russia, e in essa il proletariato, il partito bolscevico, non si dovevano muovere perché il materialismo storico imponeva che la rivoluzione russa potesse essere proletaria solo dopo tutte le altre rivoluzioni europee; e doveva essere diretta dalla borghesia fino a che l'economia russa non si fosse potuta mettere all'altezza di quelle occidentali. Da quarant'anni anche noi conducemmo questa battaglia, contro la bestiale idea che la forma rivoluzionaria russa dovesse essere democratica e non dittatoriale, per motivi di «determinismo economico». Nel nostro studio sulla Russia stiamo analizzando nei successivi paragrafi gli scritti di Lenin che questa teoria della rivoluzione russa costruiscono con un vero capolavoro di continuità coerente fin dall'inizio del secolo. Lenin non si cita con due cifre: volume e pagina. Non lo diciamo noi a Krusciov, di cui siamo solo in metafora interlocutori: glielo dice Lenin, quando lo dice nel suo scritto «La dittatura del proletariato e il rinnegato Kautsky».

Kautsky disse che tutta la questione della dittatura viene da una «parolina» che una volta scrisse Marx. Con una serie ruffiana di citazioni egli tentò di svuotare il peso fondamentale di questo concetto in Marx, ridurlo ad una scelta infelice nel lessico. Per questo nell'altro mondo la faccia di questo teorico, che aveva lungamente difeso Marx contro i revisionisti di destra, e sulle cui pagine Lenin si era formato, quanto su quelle di Plekhanov, finito come lui, la faccia di questo spettro porta il segno indelebile dello sfregio della frustata di mano di Vladimiro, che a tanti allora parve ingiustamente sanguinosa.
«
Chiamare parolina questa celebre illazione di Marx, che costituisce la somma di tutta la sua dottrina rivoluzionaria, significa farsi beffe del marxismo, significa rinnegano completamente. Non si deve dimenticare che Kautsky conosce Marx quasi a memoria; che, a giudicare da tutte le sue pubblicazioni, egli ha nel suo scrittoio o nella sua testa tutto uno schedario nel quale gli scritti di Marx sono accuratamente classificati, nel modo più comodo per citarli. Kautsky non può non sapere che tanto Marx quanto Engels parlarono ripetutamente della dittatura del proletariato... che tale formula è l'esposizione più completa e scientificamente più esatta del compito del proletariato di spezzare la macchina statale borghese, del quale compito Marx ed Engels parlarono, tenendo conto delle rivoluzioni del 1848 e del 1871, dal 1852 al 1891, per ben quarant'anni».
«
Dall'inizio della guerra in poi Kautsky, con progressione sempre più rapida, ha raggiunto una grande virtuosità nell'arte di essere marxista a parole e lacchè della borghesia nei fatti».

Gli oratori del XX congresso disponevano di uno schedario delle Opere di Lenin migliore di quello di Kautsky per Marx, elettronico magari, a sfogo della sciocca invidia che affiora in ogni loro discorso per la spesso pagliaccia tecnica americana. Hanno quindi ben superato il primato di allora
«
di virtuosità nell'arte di essere marxista-leninista a parole e lacchè della borghesia nei fatti».

La parolina Kautsky la spiegava così: dittatura significa soppressione della democrazia. Lenin con una lunga analisi storica dimostra che si arriverà anche a sopprimere, alla fine, qualunque democrazia: sparite le classi e lo Stato la parola sarà senza senso, e il fatto ignoto da gran tempo.

Ma rettifica con scientifico rigore lo sporco «liberalismo» di Kautsky:
«
Dittatura non significa obbligatoriamente la soppressione della democrazia per la classe che esercita questa dittatura contro altre classi, ma significa obbligatoriamente soppressione della democrazia per quella classe, contro cui la dittatura è esercitata».

Questo è molto chiaro e vale per le due opposte dittature del tempo moderno: borghese e proletaria. Vi par di sentire Krusciov-Togliatti dire alla borghesia: noi eserciteremo la dittatura dopo che a mezzo della democrazia ti avremo rovesciata, ma se tu sopprimi la democrazia per noi quando siamo minoranza, sei una forza reazionaria?

 

 

La scena a tre

Tutti i passi di Lenin su cui si bara si riferiscono non al capitalismo dei moderni paesi occidentali, ma a quei luoghi e tempi ove lottano tre forze: feudalismo, borghesia e proletariato. È allora che vi sono multiple vie di passaggio al socialismo in un paese: quando la scena è solo a due il problema storico consiste ormai tutto nella vittoria della rivoluzione socialista nella società capitalista sviluppata. Il romanzo del paese nazionale isolato si deve invece necessariamente scrivere quando si esce dal feudalismo e sorgono i centri statali nazionali. Qui è un ponte di passaggio al socialismo, e qui, qui soltanto, sono multipli aspetti
«
con questa o quella forma di democrazia, con questa o quella varietà di dittatura del proletariato».

Nel testo che abbiamo richiamato, Lenin, dopo aver scientificamente definita la dittatura in generale, così passa a definire quella proletaria:
«
un potere conquistato e mantenuto dalla violenza del proletariato contro la borghesia, un potere non vincolato da nessuna legge».

Come vi sa questo forte agrume, intellettuali, patrioti, ed altri insetti?

Più oltre si riferisce l'autore alla scena a tre, ricordando che prima del 1905 in Russia tutti i marxisti definivano la rivoluzione come borghese: i menscevichi ne inferivano la politica di intesa colla borghesia, i bolscevichi prevedevano la lotta del proletariato alleato ai contadini prima contro il feudalismo, poi contro la borghesia. Kautsky invocava l'arretratezza sociale della Russia per affermare
«
questa idea nuova: che in una rivoluzione borghese non si possa andare più lontano della borghesia»,
dice con sarcasmo Lenin. E aggiunge:
«
E ciò, nonostante tutto quanto Marx ed Engels dissero mettendo a confronto la rivoluzione borghese del 1789-93 in Francia con la rivoluzione borghese del 1848 in Germania!».

Tra i leninisti del XX congresso, e il leninismo, corre questa differenza: Lenin e la storia provarono che il proletariato non può fare a meno della dittatura lungo il corso di una rivoluzione borghese, senza essere sconfitto. Questi di oggi affermano che ne deve fare a meno nelle rivoluzioni esclusivamente proletarie, in cui non è più questione di abbattere il feudalismo, ma il capitalismo!

Essi rendono l'insurrezione inessenziale, e la dittatura la sopprimono in qualunque caso, cancellano persino la «parolina». E sono leninisti? Parli, ancora, Lenin (sempre nel Kautsky, al principio).
«
Se Kautsky avesse voluto ragionare seriamente e onestamente avrebbe potuto chiedersi: vi sono leggi storiche sulla rivoluzione che non conoscono alcuna eccezione? La risposta sarebbe stata; no, non vi sono leggi di tal fatta. Tali leggi considerano solo il caso tipico, ciò che da Marx è stato una volta designato come 'ideale', nel senso di un capitalismo medio, normale, tipico».

(A margine del vecchio nostro esemplare del «Kautsky» avevamo qui segnato: trovare questo passo di Marx. Ne abbiamo indicati una serie nel testo, non stampato in esteso, del rapporto alla riunione di Milano sulla «invarianza» del marxismo e delle teorie di classe rivoluzionarie anche precedenti; e sono riportati a proposito della questione del «modello» di società borghese nella serie di tre anni fa sulla questione agraria).

La legge storica della dittatura è dunque inseparabile dallo insieme della dottrina. Contro la falsificazione Lenin così la formula:
«
La rivoluzione proletaria è impossibile senza la distruzione violenta della macchina statale borghese e la sua sostituzione con una nuova».

 

 

Ritiro delle concessioni

Smascherati i falsi teorici - peggiori di quelli che in economia si riscontravano nei testi di Stalin - possiamo «ritirare» le ipotesi storiche concessive, e proclamare i non meno clamorosi falsi storici.

Anche Kautsky, come Krusciov, tentò di speculare sul fatto che Marx ed Engels avrebbero fatta un'eccezione per l'Inghilterra e l'America, fino al decennio 1870-1880. La risposta di Lenin è fondamentale. La necessità della dittatura è soprattutto legata all'esistenza del militarismo e della burocrazia. Queste forme non esistevano in quei due paesi e in quel tempo.
«
Oggi invece (1918) esistono, tanto in Inghilterra quanto in America».

Ha il signor Krusciov notizia che tali forme siano nei due paesi scomparse dopo di allora? Avevano o no, lui ed i suoi e il loro maestro Stalin, tali forme mostruose bene negli occhi, sia quando li trattavano da fraterni alleati, che da nemici freddi?

Ma qui dobbiamo dare un altro colpo alla mirabolante descrizione di un mondo di oggi che sarebbe, in maggioranza o quasi, riboccante di democrazia e socialismo.

L'opportunismo, il denegamento della dittatura, il rinnegamento del marxismo, avevano da tempo usato questo argomento, che Kautsky incredibilmente copiava dal suo avversario di tanti anni Bernstein: siamo passati dall'era in cui il proletariato mirava al rivolgimento violento, a quella del possibile rivolgimento pacifico!

Quale diversa lettura storica ha adoperato nel 1956 Krusciov, e vari altri con lui, per sbalordire il mondo? Loro, armati dello schedario di Lenin come Kautsky di quello di Marx?

Si rispondano collo stesso schedario: e impari, il mondo dei balordi consumatori di novità pubblicitaria.

«Lo 'storiografo' Kautsky falsifica in modo così spudorato la storia da dimenticare l'essenziale: che il capitalismo premonopolistico - il quale raggiunse il suo apogeo appunto nel decennio 1870-1880 - si distingueva, in forza dei suoi tratti economici essenziali, manifestatisi in modo tipico particolarmente in Inghilterra e in America, per un amore della pace e della libertà relativamente grande. L'imperialismo invece, cioè il capitalismo monopolistico maturato definitivamente solo nel secolo ventesimo, si distingue, in forza dei suoi tratti economici essenziali, per il minimo amore della pace e della libertà e per il massimo e universale sviluppo del militarismo. Non notare questo, nell'esaminare fino a che punto sia verosimile o tipico un rivolgimento pacifico o un rivolgimento violento vuol dire scendere al livello del più volgare lacchè della borghesia».

Ne abbiamo a sufficienza per trarre sul risibile «passaggio al socialismo» dei paesi «in ordine sparso» le conclusioni finali.

La storiografia falsa era stata inventata ben prima di Stalin, ed è tutt'altro che morta dopo la sua espulsione dalla gloria.

Per Marx e per Lenin la dittatura è una legge generale. E con essa il terrore, altra peccaminosa parola messa fuori uso. Eppure la usò Engels nell'Almanacco repubblicano italiano, quest'altra parolettina, non meno dimenticata al XX congresso:
«
Il partito vittorioso, se non vuol aver combattuto invano, deve continuare il suo dominio con mezzi autoritari, col terrore che le sue armi ispirano ai controrivoluzionari»
(1874: si trattava allora di confutare gli anarchici, che smontano la forza armata un'ora dopo la vittoria).

Nel marxismo-leninismo legge fondamentale sulla conquista del potere politico è la necessità della dittatura dopo la conquista. Un'eccezione poteva forse avere questa legge proprio nelle condizioni della Russia. Il valore mondiale (aggettivo di Krusciov) di Ottobre sta nel fatto grandioso che proprio in Russia la dittatura si è storicamente imposta. Domani si imporrà, quindi, ovunque, senza altre eccezioni.

Nel venticongressismo la via democratica al potere diventa legge generale, come già per i socialdemocratici peggiori, vecchi e superstiti.

Si fa un'eccezione per il caso che il capitalismo disponga di un enorme apparato militare e poliziesco.

Si tratta di un'eccezione? Dove sono questi paesi moderni senza burocrazia, militarismo e apparato poliziesco? Nei due soli paesi moderni ove la regola della maggioranza parlamentare potrebbe aver verifica, Francia e Italia, si può chiedere notizie di tali apparati (a parte le leggi per la mandria dei burocrati statali sostenute a spada tratta dai compari del Kremlino) ai ribelli di Algeria e ai braccianti di Venosa e di Barletta. E più brevemente alla stessa stampa del cremlinismo.

Ma l'ottimismo che fa risorgere la kautskyana prospettiva del rivolgimento pacifico, da Lenin seppellita, si basa tutto sui paesi dell'est, della democrazia popolare, del socialismo.

È dunque da quella parte che non vi sono eserciti di funzionari, di armati e di poliziotti? Il segretario generale evidentemente ritiene che non si chiamino tali quei corpi, quando dipendono dalle ramificazioni della sua Centrale. E, conoscendo come al pubblico vada a genio la versione drammatica delle vicende politiche, spera di far credere che sono scomparsi da quando si è inflitta la morte civile al generalissimo Stalin, e la morte sulla forca al superboia Beria.

Potrà la storia scrivere degli attuali «capi dell'avanguardia» russa cose diverse e migliori, che di quei due personaggi? Sciogliere il nodo che li ha tanti anni legati alla stessa funzione?

 

 

Note:


3. «Struttura economico e sociale della Russia d'oggi». [back]


 

 

Giornata terza (antimeriggio)

  • Bilancio di tappa
  • Storia e storiografie
  • Parlamentarismo vale personalismo
  • Sovrastruttura e base economica
  • Le critiche di Mikoyan
  • Segni blu a Stalin
  • Le leggi somare di Stalin
  • Spegnemmo il lanciafiamme
  • Altro vano feticcio, la Tecnica
  • L'aborto-mummia del mercantilismo
  • La gara ad accumulare
  • L'età del capitalismo
  • Gli indici pro-capite
  • Coi vinti o coi vincitori?
  • Note

 

 

Bilancio di tappa

Al sorgere delle luci dell'alba sulla nuova fatica è norma del lavoratore rivedere l'opera svolta e guardare a quella che affronterà nel giorno nuovo. Ben vero nell'epoca capitalista né l'una né l'altra cosa lo concernono menomamente. Tanto fu solo in quella del comunismo primitivo, e tanto fu ancora in quella del libero individualismo produttivo, anche nei loro lati ammirabili da tempo scomparse, e, in quanto non lo siano del tutto, da aiutare a sparire. Nei mondi di oggi di est e di ovest, che si sforzano di contrapporsi, quella dolce gioia è vietata a tutti gli umani, ridotti sempre più a rotelline passive di una macchina immensa di produzione, il cui segreto sfugge loro del tutto.

Nel comunismo, non mercantile, sarà alla società possibile fare «un meraviglioso affare» dicendo, ogni mattina che il pianeta si sarà pigramente tutto rigirato su se stesso: annunzi chi vuole che oggi non aggiungerà nulla al prodotto sociale. Lo accetto, come accetto l'opera dì chi vorrà apportare decuplo impegno: entrambi siederanno allo stesso titolo alla mensa comune. Solo allora avremo finito di sentire da ambo i lati le nauseanti chitarrate all'idolo falsato di Libertà.

Nella Prima Giornata (tra le anticipazioni e i ribadimenti che sono ingredienti indispensabili per digerire pasti come questo) sbrigammo i punti della confessata falsità storiografica, e del rinnegato culto al Grande (da noi volgarmente da anni trattato come «teoria del Battilocchio»; il Battilocchio essendo un tipo disarticolato e longilineo, che sovrasta tutti perché tanto è lungo tanto è fesso). Nella Seconda abbiamo passato in giudicato quel «passaggio al socialismo» che ha millantato vie nuove, e in sostanza quella sola costituzionale, socialpacifica e parlamentare.

Dando di massima come piano per questa prima parte della Terza Giornata la questione dell'economia (teoria del capitalismo - teoria del socialismo), e per la successiva quella dell'imperialismo mondiale e della guerra, sostiamo un istante a far vedere come le pietre angolari della costruzione impostata al recente congresso di Mosca stanno tra loro di sghimbescio, e sbandano in direzioni arbitrarie, rendendo certo che su esse nulla si appoggerà di «stabile».

Lasciamo i borghesi di tutte le colorazioni a cercare il significato di così inattese proclamazioni, nell'indagine su quello che i comunisti (!) faranno nel prossimo futuro, nel campo mondiale e in quelli interni dei vari paesi. La nostra ricerca, evidentemente tanto oscura quanto unica, tende solo a trarre dallo stato di necessità che ha dettato quelle nuove enunciazioni, conferma ad una spiegazione del fatto storico in corso che smentisce in blocco le posizioni di quella gente, di ieri e di oggi, dal 1924 al 1956. La conclusione è tra l'altro che tutta la paura borghese per il tramare di Mosca non è soltanto inutile, ma totalmente mentita.

 

 

Storia e storiografie

È nello stesso tempo vero che la letteratura del XX congresso, e quella che dopo di esso viene incalzando come sviluppo, è prezioso materiale per un'indagine storica marxista di natura critica, sempre più efficiente nella demolizione della degenerazione stalinista, e della super-degenerazione post-stalinista; e che, considerata come sistema, come nuova piattaforma, manca di connessione e solidarietà delle parti, è un campo pieno di storcimenti, gobbe e fratture, è il risultato fallimentare di una serie di pietose rattoppature.

Chiudevamo lo scritto della precedente giornata col chiederci come possa la storia far distinzione tra Stalin e quelli che oggi così rumorosamente ne condannano l'opera, ne smascherano le sesquipedali menzogne, ne denunziano, dopo averlo per decenni chiamato «maestro di color che sanno», errori teorici degni - e questo era vero - della «class di asen».

Ed infatti solo fabbricando di colpo una «storiografia» non meno falsa della denunziata, può tanto essere sperato; facendo assegnamento su una macchina di divulgazione di carta e di parole che è della stessa strapotenza di quella che ha potuto far reggere le bugie di Stalin. Queste vengono però oggi, sotto gli occhi attoniti del mondo, stracciate dalla storia.

Quale maggior falso storiografico di quello di far credere che Marx e Lenin avessero considerato «ritirabile» il principio della dittatura proletaria in situazioni posteriori non solo al 1850, ma al 1900, di capitalismo avanzato verso la concentrazione ossia verso l'imperialismo?

Quale maggior falso che attribuire a Lenin la «teoria della costruzione del socialismo nella sola Russia», al momento in cui si ammette falso che Leone Trotzky e Gregorio Zinoviev fossero agenti dell'imperialismo straniero - allorché proprio questi due teorici, nel momento culminante del ciclo dottrinale e di uno e dell'altro, all'Esecutivo Allargato dell'autunno 1926, cacciando Stalin vivo, potente e giovane al banco degli asini, gli provarono che né Lenin né altri, e nemmeno lui Stalin, avevano detto questo prima del 1924?

E allorché proprio per guadagnare questa partita i due grandi compagni - già nella primavera del 1926, quando non si erano ancora riavvicinati dopo la lotta del 1924 in cui Zinoviev sorresse Stalin (come ancora nel 1926 lo sorresse l'altro morituro Bucharin), solo i delegati a Mosca della sinistra comunista italiana affermarono, tra lo stupore dello stesso ambiente bolscevico, che Trotzky, Zinoviev e Kamenev erano dalla stessa parte della barricata (o povera, povera formula della chiave personale per svelare la politica!) - i due, e tanti altri, vennero perseguiti e infine trucidati? Da Stalin? Oh no, oh no! Dalla causa della teoria della costruzione del socialismo in Russia, dalla banda della menzogna per cui quella società ancora si dichiara non capitalista.

E quale falsificazione più vasta di quella che ascrive a Lenin, nelle parole di Mikoyan e degli altri, la paternità della più fetida teoria di Stalin, quella della coesistenza? Sciagurata teoria, che nell'edizione varata al XX congresso degenera ulteriormente, a vergognosa aberrazione.

Non si è dunque uccisa una fase di falsa storiografia, che per aprirne una nuova, e, come l'avvenire dirà, ben peggiore.

 

 

Parlamentarismo vale personalismo

Il corpus, costruito sul compatto meccanismo staliniano, del ventesimo congresso, si sarebbe spogliato di colpo dall'abito infame del servilismo personale: ma in che modo? A detta di un giornale qualunque tutti sorsero in piedi plaudendo quando nella sala già occupata dai 1350 delegati entrò il Presidium. Ma ad alta voce Krusciov pregò di non applaudire: ci troviamo tra comunisti: i veri e propri padroni siete voi, compagni delegati! Se la frase è vera, è bassamente demo-americana; l'eletto che è il servitore del cittadino qualunque!

Tra comunisti, non vi sarebbero padroni né servitori. Comunque, quel corpus in equilibrio su ben dubbie basi avrebbe storta la bocca davanti al mito della Persona. Come mai, nota il non tanto fesso giornalista, nel resoconto ufficiale il rapporto di Krusciov è accolto da 23 riprese di «applausi», 6 di «applausi impetuosi», 35 di «applausi prolungati» e dal finale «impetuoso e prolungato, che diviene vera ovazione»?

Ma quello stesso corpus, con pari unanime decisione ed entusiasmo, ha proclamato che la via al socialismo, nel figurino 1956, è quella parlamentare. Questa, nella versione «gourmande» dell'analfabeta Nenni,
«
implica il rispetto della legalità democratica qual'è sancita dalla Costituzione, quando si è opposizione e quando si è maggioranza».
Marx nella tomba, Marx che rese equivalenti («Il 18 brumaio») i due gridi: Vive la Constitution! e À bas la Révolution!

Nenni e Togliatti, coerenti nell'essere entrambi analfabeti di marxismo, anche se il secondo non lo è di tutto, si godono a dire che tuttavia il proletariato si riserva l'azione di piazza se fosse in pericolo la democrazia. La graziosa formula del primo è
«
contro la minaccia che il capitalismo sospende sulla vita e le istituzioni democratiche».
Questa gente dunque, essendo certa che la democrazia è eterna, assicura eternità al capitalismo, mentre le due eternità sono allo stesso titolo bestemmia e tradimento. Ambo, con quelli del XX, giurano però che questo non è il riformismo. Ma il riformismo differisce da questa roba per un motivo solo: era una cosa seria. Quanto alla dichiarazione che lesa la libertà democratica avrebbero preso il fucile, la sentimmo dai Bissolati e dai Turati - gente credibile - nei tempi in cui Togliatti era a scuola di filosofia borghese e Nenni a soldo di giornalista dell'Agraria.

Dunque il parlamentarismo è il «principio», e la violenza una disperata uscita cui si ricorre solo per salvarlo, se taluno lo minaccia. Sta bene! Si può tuttavia evitare l'«ernia di fesseria» di aggiungere che chi minaccia di mangiarselo, a proletariato castrato, sia il capitalismo che lo figliò. E che si lotta per salvare il Parlamento, non per abbattere il Capitale!

Non vogliamo tornare su tal punto, solo notare la contraddizione stridente tra la mossa che mette giù il personalismo, e quella che leva in alto l'elettoralismo, come altra prova del dissesto del sottosuolo tra i piedi dei 1350, che tremano quando le mani battono. Come si pigliano voti - e quella gente avrà da pigliarne ancora - se non si usa il mezzo base del tifo per l'uomo politico? Come si conserverebbero le ondate di simpatia per i simboli del fronte popolare o dell'unità del lavoro (si chiama così o in che altra maniera?) se non con la frenesia per le gesta del men che mediocre materiale umano, di leva nazionale, provinciale o paesana, suscitata coi soliti mezzi nelle masse, amorfizzate e diluite nel gregge degli «onesti», dei buonvolontisti e simili?

Quindi non meno apocrifa della rinunzia all'arma del falso storico è la rinunzia al mezzo principe dell'infatuazione per le persone, lanciata da un'apposita macchina pubblicitaria, soffiettante fessi listati.

Una sola rinunzia non è apocrifa, e non è nuova: la rinunzia alla Rivoluzione. Occorreva per far questo rinunziare alla tradizione di Stalin? È per questo che i marchiani sbagli di economia di costui sono stati segnati in azzurro? E lo sono forse stati? E comunque, in che direzione?

 

 

Sovrastruttura e base economica

È ovvio che per la stampa ed i partiti dell'ordine tutta la questione sta nel trovare con che regola si provvede alla «successione» nei regimi post-rivoluzionari. È di norma l'avvento del «cesarismo», termine idiota che sollevò la giusta ira di Carlo Marx, come nella Prima Giornata citammo. Di quel cesarismo che dopo i campioni ottocenteschi, alla testa dei quali il nomignolato Boustrafa, Scapin, Badinguet (Napoleone III), ci ha in questo novecento data una magnifica collezione che cerca il suo Plutarco: Hitler, Mussolini, Franco, Tito, Peron, Pavelich, Horthy, e altri dimenticati: su tutti Stalin, il cui precipizio dallo zenith al nadir memorialesco appare veramente abissale... Uccisore di compagni nella vita e nell'onore, bestia nel tener cattedra di scienza, generalissimo solo di sconfitte, non tarderà a citarsi anche lui per dispregiativi, di tipo bagnasciuga.

Tutta questa gente, e non meno di loro i Notissimi che hanno carte in regola col bigottismo democratico, non fanno per noi la storia; e il peso della loro soggettiva volontà di potere, che acceca altrui, è per noi marxisti trascurabile: questi splendori e queste eclissi che tutti devono oggi ammettere, stanno per la nostra visione: in bene o in male non è in costoro la causa degli eventi, essi non ne sono che un portato passivo.

La chiave che noi impieghiamo è palesemente altrove: nel procedere dei fatti della base economica, dei rapporti sociali di produzione. È lo sviluppo di questi che deve spiegarci, una volta ancora, i colpi di teatro del XX congresso.

La sottostruttura materiale ha fatto parlare il XX congresso così come ha parlato; in essa agiscono forze che hanno costretto a dire quello che si è detto: ma i rapporti reali della sottostruttura sono ben altri, da quelli che nei testi del Congresso sono stati teorizzati e dichiarati.

Particolarmente suggestivo era comunque vedere che cosa, in materia economica, il congresso ha dovuto «cambiare» rispetto alle costruzioni di Stalin, che fino a un mese addietro passavano per valide per il partito comunista russo, per il governo russo, per tutti i partiti esteri solidali coi due.

Dobbiamo ricordare il nostro commento allo scritto di Stalin sui «Problemi economici del Socialismo nell'U.R.S.S.» (4).Ne indicammo gli errori economici tanto per le leggi che si pretendevano applicabili all'economia russa, quanto per quelle che si applicavano all'economia occidentale.

Va subito chiarito che tali errori marchiani sono oggi denunziati in modo soltanto sommario, e senza ordine logico, nello stesso discorso di Mikoyan, che maggiormente se n'è occupato, ma che tuttavia, come prevedemmo, non è dato dai giornali italiani nel testo completo. Non è poi di quelli accusati indicata la rettifica, né detto, proprio per nulla, che la stessa consista nel ritornare alle formule, quelle si classiche, di Marx, Engels, Lenin.

Quanto alle deduzioni non strettamente economiche, circa il corso del capitalismo in occidente, il mercato mondiale, l'imperialismo e la guerra, tutte le rettifiche alle tesi staliniane sono ULTERIORI PASSI CONTRORIVOLUZIONARI, e si pongono di gran lunga più distanti da Marx e da Lenin.

Dialogammo nel 1953 col vivente Stalin e lo convincemmo di bestemmiato marxismo.

Nel 1956 il XX congresso butta il testo di Stalin a mare, a Stalin morto, e ne precipita la statua dal piedestallo. La formula filistea è che si tratta di sanare l'insulto al marxismo-leninismo. La prova, all'opposto, che si trae dallo svolto teorico e politico, è che si colpisce Stalin per non aver abbastanza bestemmiato. L'autorità di Stalin, già da tempo per noi caduta, è oggi distrutta. Ma l'autorità di Marx-Lenin sarà rimessa in piedi, solo quando saranno travolti gli attuali biechi, sfrontati restauratori.

Suo malgrado contribuì a tanto allora Stalin; oggi lo fanno essi stessi, coi materiali che abbiamo diritto e volontà di adoperare.

 

Le critiche di Mikoyan

Non risulta in maniera diretta da quanto è stato detto in materia economica - e nemmeno in maniera indiretta - che vi sia nulla di «ritirato» quanto alle tesi di Stalin sull'economia russa, e principalmente a quelle da noi battute in breccia: l'economia russa è quella di una società socialista - nella società socialista persiste la riproduzione delle merci e la legge del valore.

Già anzi sappiamo che è stato da Krusciov ribadito il rigetto della tesi, in sostanza accettabile, di Molotov: in Russia si attua la costruzione delle basi del socialismo.

Faremo un'altra interposizione, rilevando che il mutamento da «costruzione delle basi (industriali)» a «costruzione del socialismo» corrisponde, circa la sottostruttura economica, al non meno subdolo mutamento da «passi verso il socialismo» (Lenin) a «passaggio al socialismo» (Krusciov).

Stiamo dacumentalmente svolgendo l'esposizione delle straordinariamente organiche posizioni di Lenin lungo il corso della Rivoluzione, esposte dallo stesso Mikoyan in maniera insidiosa: Lenin mutava ogni paio di mesi, a dir di costui, la prospettiva del corso rivoluzionario; ma ebbe sempre ragione! Noi rispondiamo, nella nostra lunga analisi, che nessuno, né Lenin né Jehova, ha sempre ragione; ma che Lenin ebbe tremendamente ragione appunto in quanto non mutò mai, fra le più tragiche situazioni successive, l'incomparabile dottrina del corso della rivoluzione in Russia.

L'espressione rigorosa di passi al socialismo, non meno che quella di lavoro alle basi industriali del socialismo, stanno al loro posto scientifico in bocca di Lenin fino che visse, come di Trotzky e di Zinoviev fino che non vennero strangolati.

Nella rivoluzione antifeudale il compito del proletariato è di compiere una serie di passi verso il socialismo, che la borghesia e gli opportunisti temono. Una prima serie di passi il Proletariato li compie assieme ai contadini poveri, passando dalla democrazia parlamentare borghese alla dittatura democratica del proletariato e dei contadini. Compie ulteriori passi, organizzando l'industria capitalista dì Stato (ultimo gradino), proseguendo nella dittatura del solo partito proletario, contro ogni altro partito e classe. Il socialismo in Russia non è questo ancora: esso verrà dopo la rivoluzione socialista internazionale (la quale è oltre forme intermedie tra democrazia e dittatura).

Allora in Europa (o America) e Russia si tratterà più di costruire ma demolire. Tutti gli appelli ardenti di Lenin al lavoro di registrare, organizzare, elevare rendimenti, e potenza produttiva, furono possenti spinte rivoluzionarie per i passi al socialismo, per attrezzare le basi del socialismo. Non si trattava né di costrizione del socialismo, formula economica spuria, né di passaggio al socialismo, formula storica difettosa.

Arrivano al socialismo due potenti forze di demolizione, che sono una sola: la Rivoluzione e la Dittatura. Quando queste terranno nella loro stretta di acciaio i paesi dell'industrialismo avanzato, e quando avranno abbastanza saputo distruggere e sradicare, il Socialismo passerà da sé, si leverà da sé.

Perfettamente eterodossa al marxismo, prettamente stalinista e sub-stalinista è questa conclusione del Mikoyan:
«
È importante rilevare che, secondo Lenin, anche nei casi in cui il proletariato è costretto a ricorrere alla violenza, il carattere fondamentale e permanente della rivoluzione, la premessa delle sue vittorie è il lavoro di organizzazione, di educazione e non quello di distruzione».

Un simile concetto della rivoluzione, storicamente inconsistente e vuoto, sta ben più lontano dal marxismo di quanto non ne stiano i riformisti classici. Esso sarebbe stato respinto dai Turati e dai Bebel, dai Bernstein non meno, con gli argomenti con cui essi demolivano le costruzioni dei Mazzini, dei Webbs, dei Malon, dei De Amicis.

 

 

Segni blu a Stalin

In che di sostanziale ha dato fastidio l'economia di Stalin? Il punto che ha sollevato lo sdegno di Mikoyan riguarda la dottrina sul corso del capitalismo contemporaneo. Per il resto è a nostra disposizione una frase assai generica: «Bisogna a questo proposito notare che alcune altre tesi dei Problemi Economici, se sottoposte ad un attento esame, richiedono dai nostri economisti un'analisi approfondita, e una revisione critica alla luce del marxismo-leninismo». Quali sono queste altre tesi? E in quale senso vanno corrette, secondo il marxismo-leninismo, e non secondo nuovi strafalcioni, che al dire ostentato di questi guastatori Marx e Lenin avrebbero autorizzato a fare quelli che fossero stati in presenza dei ricchi, fecondi, imprevedibili nuovi dati delle nuove situazioni future? È qui la bestemmia delle bestemmie, ed è sempre quella che da mezzo secolo e più, con parole più o meno variate, ogni opportunismo accampa.

Questo non ce lo dice Mikoyan, né il XX congresso. E lo leggeremo quando sarà stata adempiuta la richiesta dell'oratore:
«
Sarebbe sbagliato non dire che i capitoli del 'Manuale di Economia politica' sull'attuale fase di sviluppo del capitalismo, e in particolare il problema del carattere e della periodicità delle crisi cicliche, nonché i problemi dell'economia politica del socialismo, debbano essere studiati più a fondo e rielaborati».

Sull'economia del socialismo possiamo dunque dialogare col morto Stalin soltanto, e vi accenneremo; sul corso del capitalismo possiamo sentire in che Mikoyan rettifica Stalin, e se lo fa nel senso in cui lo facemmo noi.

«La teoria del ristagno assoluto del capitalismo è estranea al marxismo-leninismo. Non si può pensare che la crisi generale del capitalismo determini un ristagno assoluto della produzione e del progresso tecnico nei paesi capitalistici».

Questa recisa condanna segue la domanda:
«
È possibile oggi o domani un progresso tecnico e un incremento della produzione nei paesi capitalistici?».

E ad essa segue la censura a Stalin più specifica:
«
Può forse, nell'analisi della situazione economica del capitalismo contemporaneo, aiutarci, ed è forse giusta, la nota tesi formulata da Stalin nei 'Problemi' in rapporto agli Stati Uniti, all'Inghilterra e alla Francia, secondo la quale dopo la divisione del mercato mondiale 'il volume della produzione in quei paesi si ridurrà?'. Questa affermazione non spiega i fenomeni complessi e contraddittori del capitalismo contemporaneo, non spiega l'aumento della produzione capitalistica avvenuto in molti paesi dopo la guerra».

Dunque la colpa di Stalin sarebbe questa. Egli scriveva nell'anno 1952, in cui l'economia statunitense aveva segnato un ripiegamento rispetto al massimo degli indici avutosi durante gli anni di grazia della guerra di Corea. Egli vide prossimo il momento, ancora lontano anche giusta i dati del XX congresso e le previsioni trattate da Bulganin del Sesto Piano quinquennale che va al 1960, in cui il potenziale produttivo sovietico avrebbe potuto raggiungere quello dei più forti paesi industriali; nel frattempo è partita in gara la Germania occidentale e pare ci arriverà prima lei. E negli anni dopo morto Stalin gli indici americani della produzione e del reddito nazionale hanno ripreso a salire toccando nel 1955 il massimo assoluto. E ora come la mettiamo?

 

Le leggi somare di Stalin

 

In effetti Stalin aveva dedotto dalla rottura in due del mercato mondiale dopo la guerra, e dalla perdita di sbocchi asiatici, africani, europei per i grandi Stati capitalistici, il peggioramento delle condizioni di sbocco sui mercati e la riduzione della produzione delle aziende. E aveva aggiunto: in questo consiste propriamente l'approfondirsi della crisi generale del sistema capitalistico mondiale per quanto riguarda la disgregazione del mercato mondiale.

In quello scritto come in molti altri colpevolmente superficiali, ad esempio quelli sul materialismo, Stalin sì mostra davvero convinto che la dottrina del partito evolve nella storia, e alcune delle sue parti vanno gettate via e sostituite con altre (e qui quelli del XX congresso peccano come lui e molto più di lui); a questa correzione e mutazione di principii presiede un pontefice massimo e questo era lui (il XX congresso vorrebbe ritirare questo secondo punto, per grave smarrimento davanti a una vera bancarotta scientifica, ma i rimedi al lavoro ideologico che si vedono proposti sono proprio piccini piccini).

Quindi Stalin in quell'occasione prende la scure e taglia giù interi capitoli di Lenin, di Marx, e... (questa era divertente davvero) in parallelo, di Stalin.

Infatti egli dichiara infondata una sua teoria «enunciata prima della seconda guerra mondiale, sulla relativa stabilità dei mercati nel periodo della crisi generale del capitalismo». Poiché questa curiosa ed inutile tesi viene tolta di mezzo dall'autore, e poiché non significa nulla e al solito pone noti e solidi termini fuori di posto, inutile perderci tempo.

La tesi fatta insieme cadere era di Lenin, enunciata nella primavera del 1916, che, nonostante la putrefazione del capitalismo,
«
nel suo insieme (rilevi il lettore le parole: nel suo insieme) il capitalismo cresce con un ritmo incomparabilmente più rapido di prima».

Ora questa tesi costituisce il centro stesso del marxismo, ed era pura follia pensare che se ne potesse estirpare. Il concetto marxista della caduta del capitalismo non è quello che esso per una fase storica accumula, e in un altra si affloscia e si svuota per conto suo. Questa era la tesi dei revisionisti pacifisti. Per Marx il capitalismo cresce senza posa al di la di ogni limite, la curva del potenziale mondiale capitalista non ha una dolce salita che poi rallenta e conduce ad un dolce declino; al contrario essa sale fino ad una brusca immensa esplosione che spezza ogni regola di andamento del «diagramma storico» e chiude l'epoca della forma capitalista di produzione. In questo svolto rivoluzionario è la macchina politica dello Stato capitalista che va in frantumi, e se ne forma un'altra proletaria, che nel corso dello sviluppo si affloscerà e estinguerà. Stalin, come cacciò di arbitrio dal marxismo (tutte imposizioni della necessita il suo Stato si enfiava e non si svuotava, perché Stato capitalista!) la legge del deperimento dello Stato, vi cacciò dentro, per giustificare la rinunzia del suo partito alla rivoluzione civile e alla guerra rivoluzionaria, l'inconcludente tesi del «deperimento del capitalismo». Questo si guardò bene dal mettersi a deperire.

A questo punto venne dato di frego, dal Pontefice e dalla sua scorta sacerdotale, ad un'altra dottrina, e stavolta di Marx. Si tratta dello stesso errore e tutto fa credere che se Mikoyan dialogasse con noi prenderebbe atto di quanto abbiamo nel primo Dialogato contestato al Morto. La legge di sviluppo del capitalismo si dice sia quella della diminuzione del saggio medio del profitto; ma non è vero. Così sentenzia Stalin, e cambia la legge in quella, veramente stupefacente, della realizzazione del profitto massimo.

 

 

Spegnemmo il lanciafiamme

Giunti a tal punto noi - ci duole non di citarci, ma di dover rinviare al «Dialogato con Stalin» per tutta la dimostrazione economica che abbozzammo, si capisce in sede di polemica, e nella veste sempre di difensori di leggi note vecchie e intangibili, non di coniatori di nuove dottrine e di stenditori di trattatesca o manualesca scienza - non ci trattenemmo dallo scrivere;
«
Se va un poco più oltre il lanciafiamme in libreria, non restano neanche i baffi dell'operatore».

Allora di Baffone tremavano tutti. Forse non avremmo scritto la frase irridente oggi, che si vedono i ritratti baffuti dati ovunque al fuoco da purificatori spregevoli, cinici, e recidivi nell'indegno commercio dei principii, bollato da Carlo Marx nella sua spietata esegesi del «Programma di Gotha».

Noi mostrammo come la legge di Marx era quella della «discesa generale del saggio del profitto»; come anzitutto essa non fosse che confermata in tutto lo storico decorso della forma capitalista di produzione, anche nella moderna tappa monopolistica, imperialistica, nel primo e secondo dopoguerra; e come rettamente intesa ed applicata ai dati dell'economia mondiale essa si conciliasse: coll'aumento del saggio del plusvalore (saggio di sottrazione di lavoro alla classe operaia), coll'aumento incessante della massa del prodotto, della massa del plusvalore, e della massa del profitto, poiché la massa del capitale investito nella produzione ed accumulato cresce in modo così travolgente che, a tasso progressivamente minore, il volume del profitto totale è sempre ingigantito.

A Stalin serviva la posticcia legge del «profitto massimo» per dimostrare che il proletariato si impoverisce per il troppo profittare dei capitalisti (che in Russia si pretende non esserci). Dovemmo ancora una volta rimettere a posto la legge marxista della crescente miseria, con argomenti che vanno ben oltre quello timido di Stalin sulla massa disoccupata (esercito di riserva) - sempre per vantare che in Russia si assume non esista -; e stabilire che essa non toglie che il reddito nazionale, il reddito pro-capite, ed il tenore di vita non solo del cittadino medio ma dell'operaio medio crescono lungo il corso del capitalismo.

Ciò nonostante le dottrine originali e immutate del marxismo, messi a tacere non solo i Pontefici, ma anche i Concilii, sulle crisi e sulla catastrofe finale, restano in piedi perché sono fuse in altro bronzo che non le caduche statue dei dittatori, in altro acciaio che non le casseforti dell'accumulazione.

Nella nostra conclusione, compito della rivoluzione socialista non era continuare ad organizzare la corsa all'aumento della produzione, ma la linea rovesciata; poggiare sulla tecnica e la produttività del lavoro più alte, non più l'esaltazione della produzione ma la drastica riduzione dello sforzo di lavoro, del suo tempo, del suo tormento.

Mostrammo che davanti alle vanterie della scienza economica americana circa la corsa al benessere fondata sulla esasperazione del consumo che ne fa gli indici proporzionali all'inflazione del volume del prodotto, poco si reggerebbe la polemica marxista, se ripiegasse sulle fesserie di Stalin in materia di partizione del prodotto tra consumo e reinvestimento.

 

 

Altro vano feticcio: la tecnica

Vorremmo domandarci in quale migliore situazione, in tale polemica sopra i monti e i mari, si troveranno quelli del XX congresso, tutti ravvolti nella loro goffa ideologia, di confronto, di concorso, di gara emulativa, di ineffabile decisione persuasiva e di preferenza tra il modo capitalista e quello «socialista» di organizzare la produzione, che paese per paese saranno prescelti dopo compulsati i cattedratici e le facoltà universitarie, sentiti gli esperti, mobilitati i tecnici a forza di corsi accelerati, missioni all'estero e simili. Dopo essersi posti su questo terreno pietoso, è risibile misurare tra i discorsini degli ometti di Mosca il balordo complesso d'inferiorità rispetto ai disinvolti sbronzati cafoni di oltre Atlantico.

A sentire Mikoyan, appo i Russi nulla funziona: scienziati, università, laboratori, istituti di ricerca, servizi statistici. Tutto è da rifare e da ricominciare in affannosa gara con le meraviglie d'America. Questo stato d'animo disfattista fa il paio colla stupefazione con cui il pubblico italiano si va esaltando per il trapianto sgangherato, sugli schermi televisivi, dei giochi americani su premi in dollari alla cultura del pubblico imbonito.

Stalin aveva in tal materia scritto cose scandalose, sempre sulla base della sua dottrina del massimo profitto, sostenendo che il capitalismo tendeva a diventare non solo più improduttivo nella massa ma anche nella qualità, e a ripristinare le forme schiaviste del lavoro delle prime aziende a salario, se ciò (e non vedeva l'assurdo dell'ipotesi economica) gli avesse dato maggiori «profitti». Aveva scritto questo:
«
Il capitalismo è per la nuova tecnica quando questa gli promette i maggiori profitti. Il capitalismo è contro la nuova tecnica e per il passaggio al lavoro a mano (?!) quando la nuova tecnica non gli promette (o permette?) i maggiori profitti».
Allora verrebbe «l'arresto tecnico del capitalismo». Questa banale concezione del capitalismo personificato che fa i suoi calcoli e di sua volontà deforma le leggi economiche non è piaciuta più, non perché si ponesse il marxismo sotto i piedi, ma perché lascia senza argomenti davanti alla elefantiasi meccanica e macchinista, ai fastigi dell'«automation» americana, e al lancio incessante al mercato del mondo di manufatti sempre più raffinati di tecnici lenocinii.

Tutti gli oratori hanno quindi invocato che i metodi di preparazione e perfezionamento tecnico dell'occidente siano in ogni campo presi a modello ed imitati, perché sono in ogni caso l'optimum, e non è permesso nemmeno pensare che in qualche settore, per motivi di classe o per effetto di leggi economiche, non si debba imparare da essi. Dunque nella impostata gara emulativa tra Russia ed America questa avrebbe in partenza già vinto, e solo seguendola si può far bene.

Ma questo è vero, non perché era aberrazione di Stalin disistimare la tecnica capitalista soggiogata dal profitto, ma perché nei due campi lo scopo è lo stesso: costruire capitalismo industriale, accelerare l'accumulazione, aumentare il volume della produzione; e la via che si segue all'est, come ad ogni passo dicevamo nel Dialogato, è la stessa di quella seguita all'ovest con anticipo di quasi un secolo.

Quindi i russi sono arrivati alla stessa formula: gettare in vendita merci più allettanti per il compratore, indurre a più alto livello di consumo, perché anche lì vige la formula borghese: il consumo è il mezzo, la produzione il fine.

 

 

L'aborto - mummia del mercantilismo

Dunque la critica del Congresso all'economia stalinista si è limitata alla parte che descrive il capitalismo, e in un certo senso ad una difesa del capitalismo dall'accusa di trascurare per ragioni di alto profitto le risorse della scienza e la più alta efficacia della tecnica della produzione.

Ma oltre al rivoluzionare le leggi marxiste dell'economia capitalista, Stalin nel libro incriminato aveva fatto aspro governo anche delle leggi dell'economia socialista, e questo fu il primo e più grave contraddittorio del «Dialogato» (5) con lui.

Avremmo atteso che su questi punti scottanti facesse luce il XX congresso coi suoi discorsi-fiume. Nulla. Ma neanche nulla che possa far credere che il pericoloso «mercantilismo» da noi denunziato in Stalin, sia menomamente corretto. All'opposto, in molte altre enunciazioni date nel descrivere i progressi economici della Russia e nel presentare nuovi programmi e piani, il carattere commerciale dell'economia russa viene sottolineato ad oltranza. E siccome non si cambia nemmeno il tono delle formule fatte staliniane sulla società socialista, il paese socialista, e la compiuta costruzione del socialismo, si deve ritenere che stia del tutto in piedi la tesi favorita dell'economia di Stalin: nell'economia socialista i prodotti sono merci, e i consumi si acquistano e pagano in moneta.

Stalin indica che nell'economia socialista vige, anzitutto, la legge dello scambio di equivalenti - e non dobbiamo ripetere la profluvie di citazioni di Marx, Engels e Lenin con cui mostrammo che il socialismo anche di grado inferiore non è mercantilismo, e finché si consumano e producono merci si è nei precisi confini sociali e storici del capitalismo: che ogni volta che si paga salario in moneta è merce anche la forza lavoro, e nulla vale a negarlo l'argomentazione sofistica di Stalin che il salariatore è lo Stato del proletariato. La tesi retta è che lo Stato è del proletariato quando il suo intervento nell'economia vale a ridurre e infine sopprimere la forma salario, non a diffonderla. Esiste tuttavia uno stadio storico nelle società come la russa, partite dal pre-capitalismo, in cui lo Stato del proletariato costruisce aziende a salario (passi verso il socialismo): ma allora questo Stato, come nel 1926 chiesero Trotzky e Zinoviev, non gabella per socialismo quello che è capitalismo, e chiama le forme col loro nome.

Silenzio al Congresso su questo. Ma sotto il silenzio, è chiaro, stalinismo deteriore!

Altra legge che Stalin applica al socialismo è quella della progressione del volume dei prodotti in proporzione geometrica. Noi sostenemmo che questa era legge del capitalismo, era la stessa legge dell'accumulazione, ed era in controsenso al solo piano socialista: fermare l'aumento di prodotto e fare scendere il tempo di lavoro. La tessitura del nuovo piano quinquennale esposto al congresso, come dei precedenti, basta anche qui a mostrare che si è stalinisti incancreniti, in economia.

E nella sua conclusione Stalin, dopo aver emessa la nuova sua legge del capitalismo del profitto massimo, stabilisce la «legge fondamentale dell'economia socialista» in questi termini:
«
assicurazione del massimo soddisfacimento delle sempre crescenti esigenze materiali e culturali di tutta la società, mediante l'aumento ininterrotto e il perfezionamento della produzione socialista sulla base di una tecnica superiore».

Questa legge, che Stalin contrappone grossolanamente a quella da lui inventata del massimo tasso del profitto, tace della riduzione dello sforzo di lavoro. Il XX congresso non ha detto se anche questa parte delle formule economiche nei «Problemi» sarà riformata, e non ha detto se lo sarà nella direzione del marxismo-leninismo. Su tali punti non si possono trovare lumi se non nella presentazione del piano quinquennale, e negli indici che lo stesso si ripromette di modificare nell'economia russa, fino al 1960.

In nulla dunque può trovarsi che gli errori madornali di Stalin nel campo della scienza economica siano stati eliminati nel senso marxista o che lo saranno in seguito, nei nuovi studi economici. Questi sarebbero da rifare dalla base: Mikoyan non ha capito come sia enorme dire che le ricerche statistiche del possente apparato amministrativo statale restano indietro a quelle che al loro tempo fecero Marx e Lenin, coi loro mezzi di studiosi personali che lavoravano nella più dura miseria, e tuttavia raggiunsero risultati maggiori. Quale più grave vergogna per uno Stato socialista?

Anche qui resta dunque acquisito che quanto avviene, e lo smacco teorico inflitto a Stalin, non possono essere presi come il ritorno al marxismo-leninismo ad ogni passo citato; che si dà un colpo di barra sulla rotta di Stalin, solo per storcere maggiormente il cammino, in tutti i campi, da quello segnato dai grandi maestri della dottrina rivoluzionaria!

In sostanza ecco la serie storica, e i suoi traguardi.

Lenin pone in primo piano la lotta generale del proletariato di tutti i paesi per abbattere il capitalismo, che morrà.

Stalin - primo tempo - la costruzione dello Stato russo, senza rinunziare alla guerra guerreggiata con l'Occidente, che sarà travolto.

Stalin - secondo tempo - il superamento produttivo, tecnico e culturale dell'Occidente, che decadrà, soccombendo.

I demolitori di Stalin - la marcia in pacifica gara col capitalismo di Occidente, cui si riconosce superiorità, e diritto alla vita.

 

 

La gara ad accumulare

Non il divampare della lotta di classe e del contrasto tra forze produttive e rapporti sociali dovrebbe decidere del capitalismo, ma la persuasione di Sua Evanescenza l'Opinione Pubblica Nazionale di ciascun paese del mondo in base al «confronto» tra i dati e i ritmi dell'Occidente e dell'Oriente. E quindi tutto si basa su cifre di paragone.

Mentre Bulganin nel presentare il programma del prossimo quinquennio ha dato i termini della situazione quale sarebbe al 1960, Krusciov nel suo rapporto di apertura ha fatto il confronto, coi dati 1955, tra le varie nazioni. Egli non ha dato né indici della produzione industriale assoluta, né indici di essa pro-capite, ossia ottenuti dividendo i primi per il numero degli abitanti di ciascun Stato.

Ha soltanto indicato quale sia la produzione odierna in rapporto a quella del 1929, ossia dopo 25 anni, nel tempo dei cinque piani quinquennali russi, ponendo in ogni paese uguale a cento la produzione 1929. Impressiona allora vedere che mentre in Russia l'indice odierno è circa duemila, ossia l'industrializzazione è circa 20 volte maggiore, nei paesi occidentali l'indice è dieci volte più piccolo; circa 200, ossia solo del doppio.

Qui tutto il discorso gravita sulla mirabolante legge di Stalin della proporzione geometrica, pretesa legge «del socialismo», mentre non è che quella del capitalismo ad accumulazione integrale, la legge attuariale di ogni ragioniere borghese, che si trova nelle tabelle dell'interesse composto.

Se io voglio raddoppiare il capitale (ossia il reddito, ossia il prodotto) in 25 anni, basta che ne accantoni ed aggiunga ogni anno non il 4 per cento, come parrebbe colla divisione aritmetica, ma il tre per cento circa. Non mi trovo dopo 25 anni 175, ma, per il gioco dell'interesse composto, 200.

Per avere in 25 anni non il doppio, ma venti volte la cifra di partenza, occorre salire ogni anno del 13 % (non, come parrebbe col conto ingenuo, del 76 %). Tutto il risultato è dunque che il «ritmo» di accumulazione è in Russia tre o quattro volte tanto che nei paesi capitalisti più sviluppati presi insieme.

Il risibile demagogico effetto che si cerca è di dare ad intendere che «il socialismo» accelera la produzione tre volte di più che il capitalismo, e dunque triplica il benessere e la felicità umana. E allora non resta che, per libera elezione dei liberi popoli e dei liberi cittadini - di tutte le classi - applicarlo dovunque senza resistenza.

Ma questa sarebbe tale bestialità economica e marxista che non l'avrebbe scritta nemmeno Giuseppe Stalin.

 

L'età del capitalismo

Il capitalismo nascente accumula a ritmo rapido, quello maturo a ritmo lento. Storicamente il «ritmo di accumulazione» decresce (come il saggio medio di profitto) - e tuttavia aumenta la massa del prodotto, del capitale, del reddito e del profitto e, come sopra detto con Lenin, della potenza mondiale del Capitale. Col socialismo il ritmo scende al minimo, e in teoria, se non a zero, allo stesso ritmo dell'aumento annuo delle popolazioni (nei paesi più prolifici circa l'uno per cento). Ecco le conclusioni marxiste.

Nella Russia è vero che il capitalismo era nato ben prima del 1929. Ma in tale anno, dopo la prima guerra mondiale e gli anni della guerra civile, l'industrializzazione viene ripresa dal potere sovietico con l'iniziativa statale.

Al momento della Costituzione del 1936 si dichiarò che l'industria era sette volte più forte che prima della guerra, nel 1913. Poiché nelle cifre date oggi al XX congresso l'indice del 1937, ponendo di 100 quello del 1929, è 429, risulta che l'industria russa del 1929 era poco più forte che nel 1914, circa una volta e mezza.

Se allora per tutti i paesi partiamo dal 1913 il periodo diviene di 42 anni e il ritmo dei paesi capitalistici si può considerare circa lo stesso, ossia il 4 per cento, mentre quello russo scende al 7,5 per cento medio: probabilmente era già il ritmo al quale procedeva... lo zar (vedi più oltre, in fine)!

Se potessimo prendere i 40 anni del capitalismo iniziale, poniamo in Inghilterra, o in Francia (XVII e XVIII secolo, verso la fine), troveremmo non meno del 7,5 per cento russo, e anche del 13 per cento dei piani (si veda come sopra).

Dunque la regola è che un paese appena uscito dal feudalismo ed entrato nel capitalismo ha un ritmo di industrializzazione più alto, di un paese da tempo capitalista. Se il ritmo di industrializzazione fosse proporzionale al benessere (in effetti lo è allo sfruttamento e al tormento dei salariati) la gara emulativa di cui si blatera non sarebbe solo vinta dal sistema capitalista, ma addirittura da quello feudale: e non è questo un paradosso economico ne storico, per chi non dipenda dai nostri indigeni analfabeti.

Quindi non solo storicamente ma economicamente possiamo verificare che la Russia è poco industrializzata, e corre per questo, per emulare i paesi occidentali, non per l'onore del socialismo, ma per la normale concorrenza tra i capitalismi nazionali che successivamente scendono nell'agone imperialista.

 

 

Gli indici pro capite

Supponiamo di essere giunti al 1960 col ritmo di prosperità che il 1955 ha dato per la Russia; e supponiamo pure che quella stessa presente congiuntura buona per l'America e l'Occidente di Europa si fermi, fingendo di credere che qui vi è capitalismo e vengono le «crisi», mentre in Russia sono state abolite dal «socialismo» costruitovi.

La Russia produrrà allora, sulla parola di Bulganin, 593 milioni di tonnellate di carbone fossile, contro 222 dell'Inghilterra e 465 degli Stati Uniti. Sarà dunque al primo posto. Ciò per la cifra assoluta.

Ma, hanno avvertito i pianificatori super-capitalisti di Mosca, dobbiamo gareggiare fino a battere l'Ovest nelle cifre «pro-capite». Ed allora consideriamo per la Russia i 220 milioni di abitanti (di oggi), per l'Inghilterra i 50, e per l'America i 160. Gli indici si pongono in quest'ordine: Inghilterra 4,4 tonnellate per abitante, Stati Uniti 3 tonnellate per abitante, Russia 2,7 tonnellate per abitante. La Russia sarà - a meno della formula Stalin! - sempre in coda, nel 1960.

Il confronto ad oggi è invece: Inghilterra 4,4; Stati Uniti 3; Russia 1,8.

Corri dunque, Russia industriale capitalista!

Prendiamo l'energia elettrica: 1960, Stati Uniti 612 miliardi di Kilowattore, Russia 320, Inghilterra 77. Per abitante 3,8; 1,54; 1,45 in ordine decrescente, ossia U.S.A., Inghilterra, Russia. Dunque inferiorità assoluta, e relativa. Ma allo stato odierno 3,8; 1,54; 0,77. Corri, dunque, Russia!

Un indice più probante è l'acciaio, Sua Maestà l'Acciaio che domina la Guerra e la Pace, l'Industria pesante e leggera, la Casa come costruzione e arredamento; anche se non si mangia.

Col piano 1960: Russia 68 milioni di tonnellate (45 prodotti nel 1955); Inghilterra 20, Stati Uniti 106. Indici per abitante: America 0,66; Inghilterra 0,40; Russia 0,31, mentre oggi è solo 0,20. Corri dunque, Russia, mangia meno, produci di più.

In tutto questo abbiamo supposto, con la buona opinione che della Russia hanno Bulganin-Krusciov, ma colla cattiva che dell'Occidente aveva Stalin (corretto a favore dell'industria capitalista al XX congresso!), che ad Ovest si fermi la produzione, in Russia la popolazione, nel quinquennio che ci aspetta.

Krusciov ci ha mostrato che sulla scena è un nuovo personaggio, la Germania di Bonn, che ha ricostruito industria a ritmo robusto, e con tecnica e cultura a cui i russi e americani possono pur far di cappello. Popolazione 52 milioni (8 vi sono accorsi dall'est e dall'estero). Venti milioni o quasi di tonnellate di acciaio prodotto nel 1955; indice, come l'Inghilterra, circa 0,40. Ritmo di progressione pari non a quello basso inglese, ma a quello alto russo! Cifre di prima grandezza, assolute e relative, in massa e in velocità.

Un asse industriale America-Germania supera oggi, e al 1960, un asse Russia-Inghìlterra-Francia, Dopo questi campioni segue il Giappone.

 

 

Coi vinti o coi vincitori?

Un'altra legge è che gli Stati industriali battuti nella guerra si mettono a loro volta a correre, i vincitori vanno piano.

La gigantesca piovra capitalista, ove le siano recisi alcuni tentacoli, li rigenera con giovanile forza riproduttiva.

Prendiamo dalla tabella di Krusciov il ritmo di progressione della produzione industriale, come media annua nell'ultimo quinquennio.

L'America produce calma col 4,3 per cento annuo. L'Inghilterra più ancora col 3,5. La Francia, bellicamente ben maltrattata, va al 6; vinto-vincitore.

La vinta Italia, paese mal dotato industrialmente, sta già al 9,3 per cento. Lo stravinto Giappone e la stravinta Germania avanzano al passo della Russia, ossia col ritmo impressionante del 15 e 12,5 % all'anno. Col ritmo del 15 % nel quinquennio si guadagna non il 75 % (conto ingenuo), ma il 100 per cento. Infatti in tabella Krusciov la Russia è andata da 1082 a 2049 (da 100 a 190), la Germania da 117 a 213 (da 100 a 182), il Giappone da 115 a 239 (da 100 a 207!). Sono forse miracoli del socialismo?! Propone e attende tali miracoli Bulganin dal prossimo piano, col suo aumento del 65 per cento, da 100 a 165, e quindi col ritmo modesto dell'11 e mezzo per cento? Nei piani antebellici tale ritmo oscillava tra il 10,5 e il 13 per cento (6).

Il senso di un tale freno agli investimenti nell'industria, in rapporto colla condanna, di Stalin, potrebbe sembrare essere, a parte le balle propagandistiche, un senso socialista, ove fosse diretto ad ottenere un miglioramento del disastroso tenore di vita, campo in cui il paragone cogli indici occidentali è disfattista. Ma nella realtà si tratta solo di dover cedere alla pressione proletaria da un lato, e accusare l'inferiorità militare dall'altro rispetto all'Ovest imperiale.

Bisogna sul primo punto dire qualcosa, nella successiva parte della Giornata, dell'agricoltura e del consumo. E sottolineare, nei discorsi economici del XX congresso, che sotto la parola di ritorno all'economia marxista, vi è un invidioso omaggio all'economia americana, al moderno Keynes, e (come può dimostrarsi) al trogloditicamente premarxista Malthus.

Le leggi del materialismo storico, non più semplici giocattoli sulla scrivania di lavoro dei Battilocchi, piegano l'ideologia ad adagiarsi, invano recalcitrante tra le sue formulazioni editoriali fabbricate in serie per gli spacci del mondo intero, sulla trama della struttura sociale di base. È questa la Confessione; non quelle che si divulgarono ottenute dagli imputati ai processi delle purghe e di cui oggi luridamente si ritratta la bestiale estorsione! Società borghese, attitudini congressuali di stile borghese, scienza economica borghese. Non, ben inteso, nel senso classico, bensì in quello volgare, neo-volgare, super-volgare dell'espressione, che Marx usava con insorpassabile disprezzo.

 

 

 

Note:


 

4. «Dialogato con Stalin». [back]
5. «Dialogato con Stalin». [back]

6. Le dette cifre per il quinquennio 1950-55 differiscano di non molto da quelle, di cui più oltre, per novennio 1946-55. [back]

 


 

 

Giornata terza (basso meriggio)

  • Agricoltura: passo ridotto
  • La scottante questione agraria
  • Società rurale russa
  • Un annunzio americano
  • La «forbice» dei prezzi
  • L'insolubile antitesi
  • Rivoluzione asinesca
  • Che ne pensava Stalin?
  • «Emulazione» antimarxista
  • Lenin e Bucharin
  • A voi, «leninisti»
  • Dalla produzione al consumo
  • Sfida folle e perduta
  • Risparmi e godimenti
  • Consumo «popolare»
  • Il moderno forzato
  • Danza di magro delle calorie
  • Cifre e pacifismo
  • Note

 

 

Agricoltura: passo ridotto

Le cifre gloriose dei piani industriali, sia per il trascorso quinquennio che per quello che si inizia (più modesto del precedente: promette il 65 per cento e non il 70, sebbene pel 1951-55 si affermi aver mantenuto di più: l'85; perché dunque segnare il passo?) cedono il posto a toni di imbarazzo e a palesi reticenze (7), quando si passa all'agricoltura.

Al solito sono messi innanzi non i dati assoluti, ma quelli relativi all'anno di partenza dei piani. Nei decorsi cinque anni se ne sono avuti tre di stazionamento, e anche di rinculo (specie nelle posizioni chiave: cereali e tessili), e gli ultimi due, specie l'ultimo, di una certa ripresa che si vanta dovuta a sapienti misure, mentre è noto che si è trattato ovunque di stagioni favorevoli, e l'ultima addirittura eccezionale.

Comunque nel quinquennio non si può vantare che il 29 per cento nei cereali, il 9 per cento nel cotone, il 49 per cento nel lino in fibra. Ci risparmiamo di ironizzare sul 107 per cento nel girasole: noi non siamo nello stile dei pasteggiatori di cadaveri; questa nostra terza giornata, fra tanto suggestivo materiale, ci obbliga a pregare la lucerna del mondo dì rivolgersi più adagio.

Quelle cifre di progresso, ridotte a ritmo annuo, sono ben più modeste di quella esaltata per l'industria, in cui si ottenne il 13,1 per cento (contro il promesso 12; mentre oggi si promette solo, come dicemmo nell'antimeriggio, il più moderato 11,5 per cento). Infatti per i cereali il ritmo annuo risulta del 5 per cento appena, per il lino l'8 per cento, per il cotone l'1,8.

Né va dimenticato che al contempo cresce la popolazione con un ritmo ben maggiore dell'1 per cento, sicché di tanto è lecito ribattere le cifre di cui sopra.

Così Krusciov relata; e che frattanto profetizza Bulganin?

Le cifre non sono del tutto esplicite. Non sono forniti i ritmi della progressione scontata per il periodo 1956-1960. Viene però data una cifra impressionante al punto, che non si può esitare a dirla puramente impressionistica: si vuole potenziare la produzione globale agraria del 70 per cento nel quinquennio, ossia col ritmo medio del 12 per cento annuo!

Se fosse vero che il proletariato russo ha tante calorie oggi a disposizione quante l'Inghilterra e l'America (corsivo nell'«Unità» del 28 marzo, che abbiamo già azzittato sul punto industriale nel capitolo precedente), nel 1960 si dovrebbe giungere all'indigestione e ad un'epidemia di epatiti (primato nelle proteine): ma di ciò in tema di economia dei consumi.

Nel 1960 il raccolto globale dei cereali - questo il dato centrale - deve essere portato a 11 miliardi di pudi (8), cifra che tra l'altro
«
permetterà di soddisfare la crescente domanda di pane da parte della popolazione».
Non vi pare di sentire la storica frase: qui'i1s mangent de la brioche?
(9).

Poiché si conta portare quasi al doppio la produzione zootecnica (che nel quinquennio decorso ha segnato il passo come statistica dei capi da allevamento e dei prodotti, dopo i primi anni di indietreggiamento; non scherzeremo sulle cifre, incoraggianti solo per i suini) si parla di gran dissodamento di terre vergini ai fini di produrre più mangime per gli animali, specie granoturco, che prenderebbe 4 di quegli 11 miliardi di pudi (seicento su 1.800 milioni di quintali circa). Ma il fatto grave è che tale traguardo era lo stesso del V piano quinquennale, mancato in pieno! Se dunque nel 1960 il promesso 70 per cento fosse mantenuto, si avrebbe sempre il diritto di riferire la marcia a dieci e non a cinque anni: il ritmo scenderebbe al solo 5 e mezzo per cento. Ma non si arrischia se si prevede che all'invito «corri!» la campagna russa resterà sorda.

I piani anteguerra si erano tenuti al modesto 1,4 per cento. Il V piano promise l'8,5 per cento! Autentico bluff.

 

 

La scottante questione agraria

Tutta la nostra scuola ha sempre presentato la teoria della questione agraria come la vera chiave di volta della geniale costruzione marxista: noi abbiamo molto fatto per dimostrare come in essa siamo, alla lettera, fedeli alla formulazione classica di Marx, e come la stessa fosse ritenuta a base della visione storica e sociale in Russia, tesi per tesi, con gigantesca ortodossia, - zero innovazioni - da Lenin, in tutte le fasi.

Questo superbo sforzo scientifico ha per coronamento una tesi storica di prima linea: la forma capitalista di produzione attuò l'immensa conquista di render facile all'uomo il consumo dei più vari prodotti manufatti, ma gli rese relativamente più difficile il consumo dei generi alimentari ed agrari.

Nella moderna civiltà mercantile borghese gli uomini hanno molto ferro e scarso pane: da cui il grido del grande agitatore Blanqui, che invitava i proletari a capovolgere questa condanna: chi ha del ferro, ha del pane! Solo, dunque, che lasci di adoperare il magico metallo nell'officina, e sappia impugnarlo nella guerra di classe. Il che Marx e Lenin non rinnegarono, ma elevarono, da generoso spirito di disperata rivolta, a scienza della Rivoluzione e della Dittatura di classe.

Gli stessi dati degli oratori del XX congresso, letti secondo quel marxismo che essi hanno per sempre scordato, li classificano nel confine della civiltà borghese.

Marx sviluppa la luminosa teoria costruendo quel modello ternario della società borghese (che non è diclassista!) da Lenin adottato e rivendicato ad ogni passo; e solo i fessi entrano in imbarazzo, considerando che la scoperta di Marx fu fatta nell'esame della società inglese del mezzo ottocento, che sembrava per sempre libera da feudali, rigurgitate forme spurie rurali; e la più che geniale applicazione di Lenin si fa nella Russia del primo novecento ove ci si muove ad ogni passo tra le pastoie di un prolungato medioevo.

Il proprietario fondiario ha il monopolio legale dell'accesso alla terra, riscuote la rendita. L'imprenditore capitalista ha quello dei mezzi di produzione (scorte, capitale d'esercizio) nell'industria agraria (proprio come nella manifatturiera): riscuote il profitto. Il lavoratore salariato (nell'agricoltura quanto nell'industria), privo di terra e di capitale, non ha che la sua forza di lavoro, e riceve il salario.

Tutti i moderni paesi borghesi sono pieni di forme spurie della società che sfuggono ai tre tipi del modello. Il colono e il mezzadro sono ibridi tra il secondo e il terzo tipo: danno capitale di esercizio e lavoro personale, ricevono in natura o in moneta quanto cumula profitto e salario. Il contadino proprietario è ibrido fra i tre tipi: ha la proprietà della terra, il capitale d'esercizio, e la forza lavoro: dovrebbe ricevere rendita, profitto e salario. I conti di queste forme equivoche mostrano che alla fine i loro soggetti stanno più sotto, e non più su del salariato.

Questo li sovrasta da un'altezza di mille cubiti nella piena società borghese, perché solo ha il potenziale magico, che Marx gli scoprì, di far saltare l'involucro di essa; e gli spurii sono senza speranza inchiodati alla conservazione oggi, alla controrivoluzione domani. Marx e Lenin sapevano, senza che ciò menomamente intorbidasse la magnifica costruzione dottrinale e programmatica del Partito comunista, che nelle società preborghesi e nelle transizioni al capitalismo - ma non oltre - quei ceti agrari recitano alte parti rivoluzionarie.

 

 

Società rurale russa

Descriviamo secondo questi incrollabili connotati la società agraria odierna russa, in due parole (rinviando per una più estesa ripetizione delle vedute di scuola e di partito ai nostri studi, apparsi in Programma Comunista, sulla «questione agraria», e sulla Russia e la sua rivoluzione).

Il compito del proprietario fondiario sarebbe passato allo Stato. Lo stesso si dichiara per il compito dell'imprenditore capitalista. Sarebbe allora tutta la popolazione agraria costituita da lavoratori salariati?

Ciò può al massimo riferirsi ad una sua minoranza, ancora piccola, che lavora nei sovcos, o aziende agrarie collettive dì gestione governativa.

Una piccola (?) minoranza resta distribuita nelle vecchie spurie forme piccolo-borghesi contadine, a parte altre sopravvivenze di forme anche più antiche, tali da evadere dalle statistiche, per motivi che è lungo trattare.

Il grosso sta nei colcos. Il colcosiano ha una doppia figura: in quanto opera nell'azienda collettiva del colcos, di grande estensione, e in quanto opera nella piccola sua azienda familiare.

Confrontiamo i due momenti col classico modello ternario.

La proprietà della terra è dello Stato. Quindi il colcosiano non sarebbe proprietario, né in figura collettiva, né in figura personale. Va tuttavia notato che, come svolto nella Riunione di Genova del nostro movimento, il distinguere tra proprietà e godimento in concreta sede economica non ha senso. Il colcos come azienda collettiva è il vero padrone della terra in grande: vende allo Stato i prodotti, non gli paga un affitto agrario. Il colcosiano è il padrone del suo campo: mangia o vende i prodotti e non paga affitto né al colcos né allo Stato. Ma, anche rinunziando a tale posizione formale, vediamo oggi che prima e dopo il XX congresso la casa di abitazione della famiglia colcosiana (fondata sulla trasmissione ereditaria) è data in vera proprietà. Vedere Stalin nei «Problemi economici», in risposta a Notkin, e richiamo alla costituzione 1936 dell'U.R.S.S.: e vedere le promesse degli oratori recenti di aumento delle costruzioni per i rurali, con concessione di mutui fondiari simili in ciò a quelli occidentali, al sistema massiccio dei mortgages statunitensi. Prevediamo che, per effetto della gara emulativa, vedremo tra poco questo sistema esteso alle città, e ai salariati industriali, preconizzati padroni di casa. Indiscutibile dunque l'aspetto di fondiario del colcosiano.

Secondo: aspetto di capitalista. Non vediamo che al XX congresso abbiano smentito Stalin su questi punti. Il colcos ha un capitale di utensili e materie varie, che è aziendale e non statale. Solo le grandi macchine sono dello Stato, e il colcos ne paga un noleggio. Quanto al colcosiano individuale, il capitale scorte (animali, attrezzi, sementi) gli appartiene in proprietà (1). Proprietario di capitale agricolo di esercizio, vuol dire imprenditore, e goditore di profitto, come il colono occidentale.

Terzo aspetto: di salariato. Il colcosiano è tale quando lascia il suo campicello e fa giornate e ore di lavoro per il colcos, che gliele annota e accredita per il momento in cui l'azienda generale ripartisce con date regole il suo prodotto lordo.

Perché dunque il colcosiano, ossia l'agricoltore russo (compensiamo per brevità quelli dei sovcos con gli altri delle terre non ancora a colcos) dovrebbe differire dal contadino degli altri paesi, piccolo-borghese per la pelle? Che senso ha parlare, per la proprietà del colcos come insieme, e per quella della famiglia colcosiana, di proprietà socialista? Ancora minor senso che per le fabbriche industriali dello Stato: nell'industria la nostra obiezione verte sulla forma salario per la produzione e sulla forma mercato per la distribuzione, e l'espressione marxista è capitalismo di Stato. Nell'agricoltura siamo al «gradino» capitalismo di Stato solo per i sovcos: la forma del colcos è semi-capitalista, perché l'aspetto cooperativo solo è capitalista ma in quanto associato, non ancora statale; quello familiare è misto di capitalismo privato e di «forma spuria» tra rendita terriera, profitto di capitale scorte, e lavoro individuale.

In questo quadro, che ha avuto da dire il XX congresso? Ha anche qui annullate le posizioni di Stalin?

Confrontare ancora: «Costituzione 1936»; «Scritti economici» di Stalin.

 

 

Un annunzio americano

L'«Associated Press» in data 21 marzo (il 25 febbraio si era chiuso il XX congresso) diramava da Mosca un comunicato, che non troviamo modo di confermare con fonti sovietiche, ma che diamo tradotto parola a parola.

«I Rossi somministrano un'amara pillola ai contadini.

- Il Kremlino ha ora lanciata la fase decisiva della sua guerra di 29 anni contro il contadino sovietico.
L'obiettivo è di trasformare l'intera popolazione agricola sovietica in lavoratori senza terra che siano salariati dallo Stato.
Il governo sovietico ha pubblicato una nuova raccolta di direttive alle fattorie collettive. I punti più importanti consistevano in istruzioni per ridurre severamente le dimensioni dei campi e case private appartenenti ai contadini colcosiani; e per limitare - ed eventualmente abolire - i diritti dei contadini a possedere una scorta privata.
I contadini dei colcos formano la grande maggioranza della popolazione agraria sovietica, con le loro famiglie: costituiscono circa la metà della popolazione totale.
Al presente la più gran parte del paese è coltivata collettivamente dai colcosiani. La distribuzione dei prodotti delle terre colcosiane è strettamente controllata dallo Stato.
Una forte percentuale dei contadini colcosiani non potrebbe vivere con ciò che ad essi spetta per il lavoro nelle terre collettive, e vive coltivando piccoli lotti privati di terra, e di una piccola scorta privata che spesso consiste in una vacca, un maiale e alcuni polli.
Le nuove direttive comuniste tendono a ridurre drasticamente l'entità di quei lotti e ad eliminare la scorta privata. Lo scopo è di costringere i contadini o a lavorare esclusivamente sulle terre comuni ed essere totalmente alle dipendenze dello Stato, ovvero ad abbandonare le campagne e lavorare nelle fabbriche.
Questa è una pillola amara per i contadini sovietici.
In ultima analisi il Kremlino può tenersi preparato ad usare la forza bruta per condurre a termine il suo piano, come già una volta fece sotto Giuseppe Stalin quando le piccole fattorie vennero collettivizzate, e milioni di contadini il cui grano era stato confiscato languirono nella fame, fino a che l'intera classe contadina non fu sottomessa.
Probabilmente il governo non avrà questa volta bisogno di usare la forza
».

Questa notizia lascia adito a due domande difficili. La collettivizzazione generale statale della coltura agraria è nei piani del governo sovietico? E, se lo fosse, avrebbe un simile piano probabilità di successo? Dopo queste due ne verrebbe una terza, nella dubbia duplice affermativa: sarebbe questa una trasformazione economica di contenuto socialista? Noi, come è evidente, siamo per la triplice negativa.

 

 

La «forbice» dei prezzi

Indubbiamente si è detto al XX congresso abbastanza per stabilire che la questione del rapporto tra industria e agricoltura è tormentosa, e il suo avvenire molto oscuro.

Pur deplorando molti oratori del congresso che i costi di produzione industriale siano troppo alti, rispetto ai paesi borghesi, indubbiamente il prezzo dei manufatti di consumo - di anormale altezza quando nel 1924 Trotzky ebbe a deplorare il grave disordine e il basso rendimento della produzione industriale - si abbassa, ed è questo che autorizza ad affermare, tra palesi esagerazioni, che il medio tenore di vita, e quello degli operai urbani, è in un certo aumento.

Ma il costo al minuto dei generi alimentari venduti dai magazzini di Stato ha potuto essere tenuto basso solo a condizione di un grave sacrificio del bilancio statale.

Oggi quindi si vedono affiorare due proposte: finirla con la riduzione dei prezzi di smercio al dettaglio; aumentare, come si è già fatto, i prezzi di ammasso con cui lo Stato compra all'ingrosso i prodotti delle aziende colcosiane. Nello stesso tempo si dà l'allarme perché i prodotti diretti della rete dei sovcos statali sono di costo troppo alto, e si stabilisce che il terzo tipo di istituto agrario, le Stazioni statali di motorizzazione, abbiano a diventare autonome economicamente, cioè debbano vivere sui noleggi che i colcos pagano per le grosse macchine agricole in dotazione stagionale.

Evidentemente tutto ciò non può che ricadere sull'economia di Stato e su tutti i dipendenti dello Stato, salariati della città e della campagna, e mal si concilia con la prospettata salita del medio salario reale.

Chi in queste strette può in generale uscirne bene come consumatore - e risparmiatore: forse accumulatore: (muore l'accumulazione solo quando si sopprime il diritto al risparmio e solo con ciò il socialismo nasce!) - e il membro del colcos che integra la sua parte di premio da lavoro con il consumo diretto familiare, dell'aziendina privata.

Al congresso tuttavia non si sono sentite minacce verso i colcosiani e tali da ferire il loro crescente attaccamento al possesso rurale. Oltre che delle case di campagna si e parlato con insistenza di migliorare, e non ridurre - come nella notizia americana - la dotazione dì bestiame ed altre scorte. I colcos come insieme sono stati vivamente stimolati a migliorare rendimenti e prodotti totali, nel campo agrario e in quello zootecnico, citando i soliti esempi buoni, tanto emulativi, quanto sporadici.

Quindi il drastico passaggio di tutti i colcos a sovcos non parrebbe preventivato in sede ufficiale. Troviamo solo la notizia che i sovcos si sono assai sviluppati, e coltivano 24,5 milioni di ettari nel 1955 contro 14,5 milioni di due anni prima. Non può però dirsi che tale terra sia stata perduta dai colcos, data l'ancora maggiore superficie che si afferma di aver posta a nuova coltura, e la mancanza, tra tante cifre, di una vera statistica della popolazione e della ripartizione della terra, note con dati contraddittori, la cui analisi non può ora svilupparsi.

Le dette cifre sono di superficie a semina. I sovcos si svilupparono molto nei due primi piani quinquennali: poi ebbero molto maggiore sviluppo i colcos. Nel 1935 la superficie seminata dei sovcos era già di 10 milioni di ettari, e quindi non molto minore che nel 1953, venti anni dopo. Nel 1938 era però, da altra fonte sovietica, 8 milioni e mezzo.

La forma del colcos ha quindi trionfato in Russia. Tuttavia è notevole il balzo dei sovcos annunciato per il biennio 1953-55. Perché si tace sul traguardo, al 1960, dell'estensione di essi? Si vuole o meno andare verso un capitalismo agrario di Stato? Certo che nel 1938 i colcos avevano già oltre 500 milioni di ettari, di cui quasi duecento seminati, e l'economia agraria di Stato era di gran lunga minoritaria. Secondo dati della FAO, nel 1947 la superficie coltivata russa sarebbe stata di 225 milioni di ettari: oggi è molto maggiore, ma il sistema del colcos vi predomina decisamente, questo è il dato fondamentale.

Nella campagna 1938-39 lo Stato industriale comprò grano per l'88 per cento dai colcos, per l'11 per cento dai suoi sovcos, e per lo 0,2 per cento da aziende individuali. Tale insieme globale, era, secondo Stalin, il 40 per cento della produzione complessiva.

Dati storici della superficie seminata: 1913, milioni di ettari 105; 1941, milioni di ettari 137. Su questi, i cereali rappresentarono da 94 a 102 milioni di ettari. Ammette Krusciov che la superficie nel 1950 era la stessa: 102,9; portata nel 1955 a 126,4.

Col miglioramento del rendimento il raccolto totale di cereali, da 800 milioni di quintali nel 1913 raggiunse 1200 milioni nel 1937 (10).

Una volta e mezza in 24 anni vuoi dire appena l'uno e mezzo per cento annuo medio. L'ordine di grandezza dell'aumento di popolazione!

Se al 1960 saremo ai 1.800 milioni di quintali di cereali annunziati ciò vuol dire che oggi non siamo che ai 1050 circa: dov'è mai l'avanzata?

Ricordiamo pure che il «Traguardo di Stalin» prima che la guerra devastasse i «granai» russi, era 8 miliardi di pudi (1.300 milioni di quintali circa) di cereali. Siamo in aperto regresso!

Il lavoratore russo mangia oggi in virtù di un solo fatto storico - metà da rivoluzione borghese, metà sotto-borghese - e lo lasceremo dire al Pawlowsky, autore dei citati scritti.
«
L'industrializzazione ha fatto sì che l'agricoltura dell'Unione Sovietica non è più costretta dalla mancanza di domanda interna a vendere i suoi prodotti sul mercato mondiale, realizzando prezzi bassissimi al produttore».
L'industrializzazione, e il sipario di ferro!

L'operaio russo ha fatto la rivoluzione, ma paga il pane più caro del capitalista straniero.

Tuttavia («Dialogato con Stalin») formare, nelle economie asiatico-feudali, i mercati nazionali, è rivoluzione autentica!

 

L'insolubile antitesi

 

L'incertezza se la direzione che prenderà la «politica agraria» del regime di Mosca sia nel senso del grande capitalismo o del piccolo sotto-capitalismo, esprime per noi l'impossibilità per una forma sociale decisamente mercantile e borghese di uscire dalla stretta del contrasto tra agricoltura e manifattura. Nella presentazione risoluta del Mikoyan sembra prevalere il rimedio piccolo-borghese e non quello audace e «ricardiano» che risponde alla notizia dell'«Associated Press»: totalitarismo di intrapresa a salario nella campagna. Ricardo voleva allora che lo Stato capitalista confiscasse tutta la rendita fondiaria riducendo a binaria la società-tipo borghese: imprenditori e salariati. Marx dimostrò profeticamente che questa, mentre non era una vittoria per i proletari su cui sarebbe sempre caduto tutto il peso della nuova società, era un'utopia, entro i limiti del capitalismo mercantile: nessun codice borghese ha intatti abolito il diritto di proprietà sulla terra. Quello sovietico neppure lo ha fatto. In base alla stessa dottrina, esso non potrà uscire dalla forma colcosiana in cui parte notevole della terra resta frammentata, e con essa il capitale ivi investito.

Ecco le parole di Mikoyan.
«
Il compito principale (leggi dopo morto Stalin) consisteva nel liquidare il ritardo nell'agricoltura, nell'eliminare lo squilibrio tra lo sviluppo dell'industria e quello dell'agricoltura, squilibrio particolarmente pericoloso per il nostro paese, il cui ulteriore accentuarsi sarebbe stato di serio ostacolo al nostro sviluppo».
E come fare?
«
Questo compito è stato assolto con una serie di provvedimenti, come l'elevamento dell'interesse materiale de colcosiani, la conquista all'agricoltura delle terre vergini e incolte. In due anni sono stati messi a coltura 33 milioni di ettari di nuove terre. Potevamo forse in passato sognare qualcosa del genere?».

Quello che questi signori non possono sognare è di mantenere tra industria e terra il legame mercantile, e insieme risolvere l'insolubile contraddizione tra i due campi dell'economia.

Mikoyan si conforta con il confronto con l'America, ove il governo non risolve dissodando nuove terre, ma togliendo dalla coltura 10 milioni di ettari, perché si producono troppe derrate. Ne induce che sono ivi in colpa le contraddizioni del capitalismo insanabili. Ma questa spiegazione vale marxisticamente anche per la Russia: la gara emulativa si svolgerà a chi semina di più, o a chi semina di meno? Non è pura retorica, quando anche Mikoyan spezza la sua lancia per la causa emulativa, nella forma più spinta:
«
A noi cittadini sovietici e al popolo americano questa emulazione è di pieno gradimento»?

 

Rivoluzione asinesca

 

Una notizia dell'appello ai colcos è data dall'«Unità» del 10 aprile sotto forma di invito a raddoppiare (sic!) la produzione agraria in tre e persino in due anni, e per l'Ucraina, fertile fin che si vuole, addirittura uno.

Questa è scienza della pianificazione, dopo una sbronza di emulativo whisky. Quale è la previsione sul passo da tenere, che in pratica abbiamo visto inchiodato al massimo di 1,5 per cento l'anno? Si è dopo ampi calcoli preventivato, invece del 70 per cento in cinque anni, il raddoppiamento in tre anni? Allora si è calcolata l'andatura media del 26 per cento annuo. Se si tratta di due anni si accelera al 42 per cento! Se poi di uno, è chiaro, del cento per cento. Se programmi esistono, come può un «appello» quadruplicarne perfino il preventivo ritmo? Moltiplicare per dodici quello del macchinoso VI piano?

Sarebbe poi sicuro che nel 1956 sarà doppia la produzione della carne. Si può solo dedurne che si è quadruplicato il consumo del whisky (sarebbe poco emulativo parlare della volgare vodka). Se si vuole doppia carne, occorre raddoppiare il patrimonio zootecnico nazionale. Questo piano può farsi per i conigli, o per i topi: nemmeno per i maiali. Quanto ai bovini, tra i capi vi sono, oltre alle fattrici, tori, buoi, vitelli e vitelle. Ogni vacca mette quasi un anno a fare un figlio, ed è per quasi altrettanto produttrice di latte. Chi voglia in un anno avere maggiore numero di capi, anche sognando, non può andare al di là dì questi limiti. La stessa tecnica della fecondazione artificiale non può far guadagnare molto. Per non seccare con computi diremo che il più valente zootecnico ha un solo modo per produrre doppia carne: o comprare all'estero bestie, o mangiarsi l'allevamento e... vedere ridurre la dotazione bestiame del cento per cento!

Un paese allevatore di prima forza è l'Olanda. Nel 1939 aveva 2 milioni 817.000 capi bovini: i tedeschi se ne papparono buona parte e nel 1948 erano solo 2.222.000. Al 1953 li avevano portati di nuovo a 2 milioni 930.000. Crediamo che sia un «passo» tecnicamente insorpassabile: risulta il 31 per cento in quattro anni; ritmo medio sette per cento all'anno.

Come spiegare le enormi balle del 26, 42, 100 per cento, che decollano a velocità supersonica dalle colonne dell'Unità? È tuttavia possibile; senza scherzare sul miracolo del raddoppiamento in un anno degli asini... in Italia, verso cui cammina quella stampaccia, mentre ciancia che si è avuta in Moscovia una rivoluzione colturale!! Da (si capisce) emulare, in degna gara col somarame yankee.

Potrebbe l'appello ai colcosiani essere di tono che ricorda la notizia lanciata dall'Associated Press. Animali ve ne sono in Russia in quantità non molto inferiore a quella olandese e vi sono in campagna le famose proteine dell'Unità. Si tratta forse di minacciare i contadini perché non si mangino, nella borghesissima santità del domicilio, la carne, che non arriva al proletariato delle fabbriche. Allora diventa plausibile che tra un anno l'operaio, che non ha alcun «livestock» o riserva alimentare, ne riceva il doppio. Che dedurre da questo? Conclusioni immense!

La proprietà individuale contadina nella ibrida forma del colcos, genera, giusta Stalin e contro Jaroscenko, rapporti dì produzione e quindi di classe. Il proletariato a salario, delle officine come dei sovcos - cui si apprende sarebbe stata estesa la concessione di piccoli orti privati - è la classe sfruttata, oltre che dal capitalismo statale, da un contadiname privilegiato. Mentre esso fa fame, come sappiamo, non di carne, ma di pane, non può più avviare nelle campagne le storiche gloriose squadre armate di approvvigionamento degli anni grandi - anche di Stalin!

Questo sarebbe oggi scandalo, oggi che si rinnega la dittatura, e non potrebbe un Nenni asinare che si tratta di liquidare «il comunismo di guerra», per introdurre una democrazia costituzionale e sovrapporre allo Stato, e più al partito, una magistratura togata!

Quella che quindi si accampa davanti all'emulazione mondiale e una bassa, vile, pidocchia e beota democrazia rurale, che si esibisce serva al grande capitalismo internazionale, e gli vende la pelle dell'eroica classe operaia russa e del mondo, pugnalata nella schiena, peggio che nel 1914, dai dirigenti sindacali ed elettorali, foraggiantisi sulla sua demoralizzazione. La carriera di tale truppa non è ancora giunta l'ora di affogarla nel fango in cui si crogiuola: questa gioia spetta alla nascente generazione.

 

Che ne pensava Stalin?

 

Stalin era decisamente per la conservazione della forma colcosiana agraria, e nel suo scritto respinse tutte le proposte di «riforma» in questo sistema. I compagni Sanina e Vengser avevano chiesto che «si espropriasse il colcos» ossia si dichiarasse la proprietà colcosiana proprietà «di tutto il popolo», e ciò «sull'esempio di quanto a suo tempo è stato fatto per la proprietà capitalistica (leggi industria)». Stalin è deciso: questa proposta è assolutamente sbagliata, indiscutibilmente inaccettabile!

Questa proposta sarebbe quella della notizia dell'«Associated Press», ma dobbiamo ripetere che non risulta affatto che il XX congresso abbia dato ragione a quei due compagni, contro il quos ego di Stalin.

Ineffabili sono però gli argomenti di questi: La proprietà colcosiana è una proprietà socialista (vedi sopra), e noi non possiamo in nessun modo procedere nei suoi confronti come con la proprietà capitalista. E aggiunge: dal fatto che la proprietà colcosiana non sia proprietà di tutto il popolo, non deriva in nessun modo che la proprietà colcosiana non sia proprietà socialista. Evidentemente, siamo nel regime del Gran Sacerdote che, ove voglia toccare, rende tutto stampigliato per «socialista». Là fabbrica proprietà dello Stato, il territorio del colcos e i suoi attrezzi, le zonette dei contadini e le poche loro scorte sono proprietà sì, ma col timbro «socialista». E noi, che abbiamo sempre creduto che socialismo significa proprietà di nessuno, sistema della non-proprietà!

Quindi Stalin, per battere l'idea di statizzare il colcos, pontifica, permettendosi di citare Engels, che il passaggio della proprietà di gruppi e persone allo Stato non è la migliore forma di socializzazione! E osa spiegarlo col motivo che lo Stato si estinguerà! Nel primo «Dialogato» (11) mostrammo che colla stessa critica di Engels alle statizzazioni (allora quella di Bismarck sulle ferrovie) si prova che non hanno nulla a che fare col programma socialista le formule di passaggio alla proprietà della Nazione, del Popolo, e nemmeno quella (che sarebbe migliore) di proprietà della Società. Marxisticamente si sarebbe potuto dire di una «proprietà» dello Stato di classe, del Proletariato dominante e dittante. Ma moriranno insieme: Classi divise - Stato politico e Dittatura - Proprietà, quale che sia.

Secondo il XX congresso, vanno bene quelle formule di Stalin? Senza dubbio; e al più saranno date formule ancora meglio filo-capitaliste.

 

«Emulazione» anti-marxista

 

Uno dei più lunghi capitoli di Stalin nei «Problemi», e dei più aspri, fu dedicato a L. D. Jaroscenko. La stampa non sovietica racconta ora che questo stesso Jaroscenko avrebbe dopo il XX congresso rialzata la testa (egli si era offerto di compilare il trattato di Economia politica; e Stalin aveva negato il consenso nella solita forma villana). La «Pravda» avrebbe ora ammonito che non basta oggi far coro agli insulti a Stalin per riscuotere applausi, e avrebbe chiamato quelle dichiarazioni antimarxiste, «provocatorie e dirette contro il partito»; e ricorda che allora Stalin accusava Jaroscenko di avere seguito le idee economiche di Bucharin, condannate da Lenin.

Non prenderemmo come arbitro o probiviro né Stalin, né il redattore della «Pravda» di ieri o di oggi. Ogni lodo emesso, almeno quattro falsificazioni.

La condanna dì Lenin a Bucharin in merito alla teoria sulla economia russa e al programma nuovo del partito bolscevico è del 1919; sta in uno scritto di straordinario interesse, che nella relazione sulla Russia in corso di pubblicazione in testo esteso utilizzeremo a fondo. Stalin uccise Bucharin dopo, nel 1938; sta bene. Ma tra il 1919 e il 1938 Bucharin fu «il grande economista» di Stalin, quando si trattò, morto Lenin, dì sgarrottare coi soliti metodi Trotzky, Zinoviev, Kamenev ed altri valorosi economisti marxisti. Quando il non meno valoroso Bucharin aperse gli occhi sulla rovina teoretica e politica, fu anche lui ammazzato, e svergognato come marxista.

Il nome di Bucharin non chiude dunque la bocca a nessuno; cadaveri e viventi si sciacquino la propria, come in un detto popolare meridionale, prima di usare quel nome come titolo di degenere dottrina. La torta tra Stalin e Jaroscenko va altrimenti spartita, come, se le notizie son quelle, tra «Pravda» stile XX congresso e Jaroscenko.

Che pretendeva costui? Convinto quanto Stalin che la società russa fosse la pura immagine del socialismo, assumeva che non si dovesse parlare più di economia politica, anche marxista, perché vi è un'economia politica sola, quella applicabile al capitalismo! Oggi, diceva Jaroscenko, occorre solo una scienza della «pianificazione razionale», o qualcosa di simile. E proseguendo di tal passo sosteneva che non vi era più da parlare in Russia di forze produttive che vengono in contrasto coi rapporti di produzione, o forme di proprietà, e che si trattava solo dell'esistenza e presenza delle prime, senza più i secondi!

Stalin ribatteva a giusto titolo che in Russia vi sono tuttora rapporti di produzione «tra gli uomini», e non solo problemi di «cose», in quanto questo avverrà solo dopo la sparizione totale delle classi sociali: solo allora gli uomini non saranno schiavi della forza delle leggi economiche e controlleranno la produzione e l'assegnazione in forme razionali. I rapporti di produzione sono le forme della proprietà; in Russia sono tali la proprietà statale delle fabbriche, e appunto la proprietà dei colcos e dei colcosiani.

Era una grossa asinità di Jaroscenko non vedere un «rapporto di produzione» nella paga data al lavoratore industriale contro tempo di lavoro, o nella compera della vacca da parte del colcosiano, contro i prodotti del suo suolo o la quota salario nel colcos.

Ma Stalin aveva torto nel dire che, in una società socialista, le leggi dell'economia politica marxista, che descrivono il capitalismo mercantile e il sistema salariale, avrebbero tuttavia avuto concreta esistenza.

È facile risolvere il verboso dibattito. Avevano torto entrambi, solo che si metta a posto la vera tesi marxista: la società russa è una società di classi, mercantile e capitalista, e in essa valgono le leggi dell'economia marxista relative al modo di produzione capitalista, e che Marx per il primo dimostrò «non eterne come le leggi della natura fisica, e destinate a cadere». Allora si identificano bene in Russia, con le forze produttive, e con esse in fiero contrasto, i rapporti di produzione, o forme di proprietà. Non vi si identifica più la pretesa avvenuta «costruzione» di socialismo, in cui credono entrambi, Stalin e Jaroscenko.

Stalin, costretto dal suo subcosciente marxista, si sforza in questo strano dibattito dì sostenere che la stessa borghesia nella sua rivoluzione, cosciente delle leggi economiche, costruiva il capitalismo industriale, ancora più contribuendo (e perfino nel sostenere contro Jaroscenko una giusta tesi concreta) a quel pauroso disordine della dottrina, che peserà sul suo ricordo più della serie degli assassinii, e che mai i superstiti della sua corte potranno strapparsi di dosso.

 

Lenin e Bucharin

 

Lenin fu più volte con Bucharin feroce, e i momenti erano egualmente tragici per la Russia e il Partito, ma si era in altra atmosfera, tra marxisti provati; quelle discussioni hanno lasciato una traccia valida e ancora oggi preziosa, e per quanto ora urge, usando la parola antipatica, «attuale».

Bucharin aveva preparato per l'VIII congresso del Partito Comunista bolscevico del 19 marzo 1919 il rapporto sul programma. Lenin, che era insieme con lui relatore, per la commissione, criticò il progetto Bucharin.

Questi, suggestionato dai due grandiosi fatti contemporanei: la diffusione nel mondo della fase imperialistica del capitalismo, e l'avvento in Russia della piena dittatura del proletariato, aveva presentata tutta la lotta che costituiva il compito del partito proletario come lotta contro quella forma di capitalismo, e descritto la struttura, il processo storico, e la caduta del capitalismo secondo i soli caratteri del tempo monopolista, tacendo del tutto la parte relativa al «vecchio capitalismo» concorrentista e liberale

La messa in linea teoretica di Lenin in quell'occasione è un vero gioiello di dottrina e di realismo vigoroso.

Non correre troppo, Bucharin! - dove ammonire il Maestro. Perciò il parassita ideologico Stalin, tanti anni dopo, dà del buchariniano a Jaroscenko, corso a ragionamenti di pieno comunismo laddove si è solo al socialismo (a suo dire): non correre, Jaroscenko!

Prima di tutto Lenin chiariva una cosa a cui tanto teniamo: il capitalismo è sempre quello; l'imperialismo non è una nuova forma sociale tipica, ma solo una soprastruttura del capitalismo.

Interpretate: l'imperialismo è una nuova forma politica, basata sull'aggressione e la guerra, dell'unico modo di produzione: il capitalismo, che resta immutato.

Poi, quanto alla Russia, spiega a Bucharin che in Russia non si era ancora al capitalismo pienamente monopolista ed imperialista, ma si trattava di papparsi ancora capitalismo minimo e concorrenziale, anzi di augurarselo. Ma quale vigore rivoluzionario in questa diagnosi, che più spietata sarà nel discorso fondamentale del 1921 sull'imposta in natura, altra pietra miliare del grande corso e del nostro studio! Quando Stalin scimmiotta, e dice a Jaroscenko, non che finalmente si è giunti, almeno per l'industria, alla soprastruttura imperialista del capitalismo, che Bucharin vedeva già 35 anni prima, ma che siamo nel pieno socialismo, fanno vomire entrambi.

Abbiamo già rinviato questa compiuta analisi al suo luogo: ma talune citazioni hanno tale forza, sugli spudorati che hanno definito ritorno a Lenin il loro sporco atteggiarsi del XX congresso, che riescono qui inevitabili.

«In nessun luogo del mondo il capitalismo monopolistico non è esistito e non esisterà mai, senza che, in parecchie branche, esista la libera concorrenza».
«
Noi diciamo di essere giunti alla dittatura. Ciò è comprensibile. Ma bisogna tuttavia sapere come vi siamo giunti. Il passato ci tiene, ci afferra colle sue migliaia di braccia e ci impedisce di fare un passo avanti, o ci costringe a muovere questi passi così male, come li muoviamo... Il capitalismo, nelle sue forme primordiali dell'economia mercantile, ci ha condotti e ci conduce».

Torniamo a dire che non qui diamo l'analisi di questo svolto possente, in cui è ancora una volta messo in linea Bucharin sulla questione dell'autodecisione dei popoli, ove, spiega Lenin, si deve proprio dire popolo e non classe proletaria! No, cari tanti amici di sinistra che non offenderà certo essere paragonati al formidabile marxista Bucharin: il marxismo non è mai semplice!

 

A voi, «leninisti»!

 

Lenin va nelle sue dimostrazioni diritto al fine. Siamo indietro anche nell'avanzatissima Germania! Perché?

«Prendete per esempio la Germania (1919) modello di paese capitalista avanzato, la quale per ciò che concerne l'organizzazione del capitalismo, del capitalismo finanziario, era superiore all'America. Un modello, si sarebbe detto. Orbene, che avviene anche colà? Il proletariato tedesco si è differenziato dalla borghesia? No! in fatti solo in alcune grandi città si è annunciato che la maggioranza degli operai è contraria ai fautori di Scheidemann (socialdemocratico di destra, scannatore di Liebknecht e Luxemburg)».

Come è potuto accadere? grida Lenin, intento a frenare l'estremismo dell'incandescente Bucharin. Queste parole cadano sulla faccia schifosa di quelli che saldano alla bestemmia del ritorno a Lenin il melmoso invito ai fronti popolari, alle maggioranze di sinistra:
«
Grazie all'alleanza degli Spartachiani con i tre volte maledetti menscevichi indipendenti tedeschi che tutto imbrogliano, e vogliono unire in connubio il sistema dei soviet con l'assemblea costituente!».

Lenin teorico classifica la Russia sotto lo stadio capitalista primordiale. Lenin rivoluzionario nello stesso momento staffila il contatto con gli indipendenti di sinistra, debitamente poi pestati nel mortaio del II congresso mondiale. Oggi vorrebbero pagare colla profanazione di un più che imbiancato sepolcro il diritto di levare il nome di Lenin, quando al tempo stesso affermano col linguaggio di quel cadavere, che l'economia russa è socialismo pieno, e stendono in Europa il mostruoso amplesso ancora più oltre degli Scheidemann odierni, sputtanando la Dittatura proletaria nella losca accucciata sotto la Costituzione borghese.

A suo tempo ci servirà un altro scritto, dell'ottobre 1919: Economia e Politica nell'epoca della dittatura del proletariato. Ma anche qui non è possibile non scrivere alcune parole di Lenin, che andrebbero tatuate con punta di fuoco sul grifo dei «ritornatori a Lenin da Stalin»:
«
Se mettiamo a confronto tutte le forze e le classi essenziali e i loro rapporti reciproci (leninista, si capisce, bestemmia di essere anche Jaroscenko, devancier degli asini calcianti il Leone!...) mutati dalla dittatura del proletariato, vediamo quale assurdità storica, quale ottusità, rappresenti la concezione corrente piccolo-borghese sul pas-sag-gio al so-cia-li-smo 'at-tra-ver-so la de-mocra-zia' in generale, concezione che riscontriamo in tutti i rappresentanti della seconda internazionale».

I trattini sono nostri, ma le virgolette alle parole attraverso la democrazia, sono dell'originale, o assurdi, ottusi, necrofori leninisti!

Non è dunque per nulla strano che nel campo dei rinnegati si sia devoti al feticcio mercantile in Russia, a quello liberale fuori. Queste, che andiamo offrendo, sono le chiavi marxiste della storia; e non lo stupore fesso dei giornalisti che qui si esaltino le elezioni e i legalismi, mentre lassù si tratterebbe solo di trovare chi destramente riafferri lo stesso potere, che consentì a Baffone, come nella «Domenica del Corriere», di far fare a Krusciov i funghi in corpo, gridandogli sghignazzante: «balla, khokhòl, balla dunque la ghopak!».

Rantolate ancora sotto un'ultima citazione:
«
Le frasi generiche sulla libertà, l'eguaglianza, la democrazia equivalgono di fatto a una ripetizione cieca di condizioni che sono un CALCO preso dai rapporti della produzione mercantile».

Questi messi da Mosca si dedichino pure alle elezioni. Voti ne prenderanno, lo sappiano tutti quelli che, da qualunque lato, ci vogliano speculare. Più porcate si fanno, più ghopak si ballano, più voti si pigliano.

A noi basta sapere da quale origine viene il calco, apposto alla loro ripugnante livrea, e ce lo dice la stretta magia del determinismo marxista: dai rapporti di produzione che non solo vigono in Russia, a dispetto di Jaroscenko, ma sono rapporti mercantili per cui è facile merce, da acquistare per poco, e con cifre più basse dei premi Stalin, la vanità sgualdrina di un gregge di candidati.

 

Dalla produzione al consumo

 

Quando Stalin vuole convincere Jaroscenko che anche in un sistema socialista va applicato un calcolo economico, cita la dimostrazione di Marx nella celebre lettera sul programma di Gotha, nella quale Marx spiega come nella produzione sociale vanno sempre detratte varie quote del prodotto totale per soddisfare, prima di provvedere al consumo dei lavoratori, una serie di necessità generali e pubbliche, e tra l'altro una quota per l'ammortamento dei mezzi di produzione logorati. Ma Marx nel dire questo non intese concedere che tali computi, dopo i quali si attribuiranno ai consumatori le loro quote, si faranno col meccanismo mercantile e monetario, e su bilanci aziendali e individuali. Egli volle solo mostrare vana la formula lassalliana e piccolo-borghese del «frutto indiminuito del lavoro», che dovrebbe spettare ad ogni partecipe alla forza produttiva, mostrando che anche in un'economia non borghese, sul «frutto» e prodotto - non più individuale né aziendale, ma sociale - andranno eseguiti dati concreti accantonamenti, prima di passare quanto resta al consumo globale sociale.

Svolgendo nel «Dialogato con Stalin» e altrove questa abissale distinzione tra la meccanica economica borghese e quella socialista, dicemmo che non si tratta di porre a zero il plusvalore lasciato da ogni operaio, pareggiando il lavoro necessario, remunerato, col totale lavoro prestato: questa è una falsa espressione del socialismo, ed è solo una versione insostenibile dell'economia individualistica. E ci esprimemmo con la formula cruda che il socialismo non sopprime affatto il plusvalore, ma tende ad abbassare proprio le ore di lavoro necessario, pagato, al minimo possibile, e infine a zero.

L'analisi economica quantitativa mostra che il problema socialista non verte su una diversa partizione del reddito, ma sulla globale socializzazione di tutto il lavoro e il prodotto, per una soddisfazione sociale della massa dei consumi: diritto e contabilità borghesi, dopo avere sopravvissuto in una fase di passaggio, restano soppressi.

Questo ovvio risultato - non capito da 95 socialisti su cento - si lega alle affermazioni di Marx nel «Capitale»: più alta è la ricchezza nazionale (tema su cui Adamo Smith eresse la poderosa costruzione della scienza economica capitalista) e quindi il reddito nazionale, più la classe lavoratrice è battuta, e inchiodata alla servitù del capitale, più l'aumento generale di prodotto a pari sforzo di lavoro, che assicurano la scienza e la tecnica, viene, non tanto assorbito dalla collegiata personale dei capitalisti in massima parte, e in minima dalla classe operaia, ma per la più gran parte dilapidato nel disordine e nell'assurdo della gestione mercantile individuale dei rapporti.

Dato che in Russia la collegiata borghese e lo Stato sono la stessa cosa, quale senso daranno nel «Manuale» alla teoria del reddito nazionale, nel capitolo reclamato da Stalin e dal XX congresso? Come questa dottrina presenterà lo smistamento del reddito tra consumo e nuovo investimento, per riprodurre il capitale e per allargarne l'accumulazione?

Evidentemente tale capitolo non sarà scritto col linguaggio di Marx nella lettera di Gotha, ma con lo stile dei Keynes e degli economisti del «benessere» e della «prosperity». La formula dell'emulazione mondiale, vertice della vacillante costruzione del XX congresso, significa, in economia, solo questo, che in entrambi i campi la corsa al reddito, totale o «pro-capite», e al margine di reinvestimento produttivo, con ritmo che scavalca quello dell'aumento di popolazione (ecco il legame col decrepito Malthus!) si impianta in senso opposto all'interesse immediato e storico del proletariato, alla realizzazione rivoluzionaria del socialismo mondiale, alla liquidazione della servitù di classe.

 

Sfida folle e perduta

 

La sfida che il VI Piano quinquennale vuole portare all'Occidente non è solo disfattista per il socialismo perché sposta gli antagonismi di classe a rivalità nazionali, e perché ostenta il passaggio da uno scontro di forze militari ad un pacifico confronto economico, ma perché su questo terreno la partita è perduta prima di venire giocata. Per tre ragioni, dunque.

Bulganin ci annunzia che il «reddito nazionale» russo salirà nel quinquennio che va al 1960 del 60 per cento, pari all'11 per cento annuo. Le previsioni degli euforisti dell'altra parte di Atlantico sono assai più misurate, sebbene una rigorosa analisi marxista abbia l'impegno di provare che corre sui trampoli anche l'ottimismo di costoro.

Un'ipotesi come quella di Bulganin dipende da tre punti: adeguato aumento del prodotto lordo industriale - adeguato aumento del prodotto lordo agrario - partizione del prodotto netto tra consumo e reinvestimento.

Il fatto solo che il reinvestimento in impianti produttivi si chiami, anche negli schemi russi, risparmio sul reddito, è altra prova della comune natura delle due economie. Nel capitalismo di Stato il reddito di intrapresa dovrebbe pervenire tutto non a singoli ma allo Stato-padrone, ed abbiamo quindi la strana figura economica dello Stato, non assorbitore dei risparmi dei cittadini sui loro redditi, ma egli stesso risparmiatore. Non si tratta di altro che di un risparmio forzato, e non del socialistico veto ad ogni possibilità privata - e alla fine anche pubblica - di accumulazione.

 

Risparmi e godimenti

 

I concetti sono ardui, le cifre concrete forse meno. Ecco come si parte nella gara.

Sappiamo che industrialmente la prima condizione può reggere. Il ritmo americano è il 5 per cento annuo circa, quello russo l'11 per cento. Quanto ne viene consumato? Una notizia della solita «Associated Press» sulla fortunata annata 1955 - in Russia, nei paesi satelliti, nell'ovest Europa - ci dà questo confronto del consumo del prodotto tipico, l'acciaio, dopo aver confermato le favorevoli cifre dell'aumento della produzione. Negli Stati Uniti e nell'ovest Europa il 40 per cento sarebbe adoperato per articoli di consumo e costruzioni edili, il resto per nuove macchine industriali e usi militari.

In Russia solo 9 milioni di tonnellate sulle 45 note, del 1955, andrebbero ai consumi, e il resto (80 per cento) all'industria e alla guerra.

Bulganin può qui rispondere che andando nel 1960 ai noti 68, si ripartirà diversamente l'aumento di 23 milioni di tonnellate. Vi è una sola via: il disarmo.

Circa la produzione agraria il caso è diverso. Il ritmo degli Stati Uniti di aumento è minimo: 0,5 per cento, come da un prospetto del «Manchester Guardian», che conferma la critica dì Krusciov. Ma la stessa Russia nei Piani antebellici era moderata: ottenne non più dell'1,4 per cento. Vecchio Marx, tu l'hai detto; sotto il capitalismo l'agricoltura non corre, sì l'industria. Teorema inverso: ove tanto dice la statistica, ivi capitalismo alligna!

Quindi il progettato 12 per cento per cinque anni, come abbiamo detto, non si potrà verificare. E senza il pianificato 70 per cento nel quinquennio agricolo, mancata la seconda condizione, l'ascesa del 60 per cento nel reddito resterà illusione.

Non possono dunque farsi previsioni rosee circa l'aumento del consumo medio e dei tenore di vita.

Gli economisti occidentali sembrano aver ragione nello stabilire che la percentuale di accantonamento per investimenti di capitale è molto più alta in Russia che non in Occidente. Fino al 1950 essa si è aggirata in Gran Bretagna e negli Stati Uniti intorno al quinto, in Russia quasi al doppio (il 38 per cento). In Italia, se si seguisse il «Piano Vanoni», si dovrebbe avere un ritmo elevato, ma non al grado di quello russo.

Non si tratta qui di confronto tra capitalismo e socialismo (nel quale caso il secondo sarebbe fregato) ma tra capitalismo di paesi maturi e - maledetti loro - vincitori di tutte le guerre egemoniche, e capitalismo di paesi principianti, o che risorgono dopo la devastazione delle sconfitte.

 

Consumo «popolare»

 

Il lato equivoco delle teorie euforiche è che danno la caccia all'indice medio, e se compulsate circa gli indici estremi assumono che migliori il livellamento nazionale del reddito e del consumo. Americani e russi sono qui molto sospetti entrambi. Comunque, per un vero marxista l'ingiustizia distributiva è l'ultima delle nequizie del capitalismo, e chi tanto ha capito può per ora lasciare libero corso all'emulazione nel mentire.

Secondo Bulganin - e facendo fede sul 70 per cento quinquennale di maggior prodotto della terra - dato il maggior reddito del 60 per cento sarà possibile migliorare i salari reali del 30 per cento, mentre le entrate dei colcosiani lo saranno del 40 per cento. Saremmo dunque sempre nel taglio della forbice capitalista, in quanto chi fa gli abbondanti manufatti riceve meno, e chi i radi prodotti alimentari riceve più. Ove, anche in senso immediato, la funzione di guida della classe operaia su quelle piccolo-borghesi?

A detta di Krusciov il V piano quinquennale avrebbe visto salire il reddito globale del 68 per cento, i salari operai del 39 per cento e i guadagni rurali del 50 per cento. Il rapporto è lo stesso. Dunque nessuna «svolta» in questa economia di capitalismo industriale avaro con gli operai, e di relativa grassa piccolo-borghese contadina.

Krusciov asserì che del reddito tre quarti servono a soddisfare le esigenze della popolazione, e dunque contrappone un 25 per cento al 38 per cento dedotto dagli economisti di Oxford. Ma si può, accantonando, con un ingranaggio burocratico e dispendioso (come dalle stesse critiche recenti), solo il quarto del prodotto netto di un anno, ottenere che nell'anno successivo il prodotto lordo scatti del 12 per cento, il che viene a dire che bisogna aggiungere altrettanto a tutto il valore capitale dei mezzi di produzione, o poco meno, per cresciuta produttività tecnica? Dovrebbe il prodotto totale raggiungere metà del capitale (inteso nel senso borghese), e ciò, specie in Russia, è assurdo. La follia che ivi imperversa è di sublimare l'investimento, calpestare il consumo.

 

Il moderno forzato

 

Se dunque vanno prese con beneficio d'inventario le cifre sul miglioramento dei consumi, non deve altro pensarsi delle promesse di riduzione degli orari di lavoro.

Si dovrebbe attendere il 1957 per arrivare a sei giornate di sette ore, ossia 42 ore la settimana, ovvero cinque di otto ore, ossia 40? A parte il forte dubbio sulle ipotesi di calcolo, si tratta di un traguardo già noto, ad esempio, all'industria italiana e non basta a superare la pochezza di tali risultati la considerazione dell'«assenza di disoccupazione». Le delizie della civiltà moderna mercantile e le premure assistenziali e creditizie - altro campo in cui si annunzia un vasto scimmiottare dell'Occidente - consistono nel fare oscillare, tra paurosi incerti, l'armata umana di lavoro tra gli estremi della piena libertà di crepare di fame, e la forma schiavista dell'occupazione, che in tanto è totale in quanto è forzata, e che tende, in questo mondo divenuto a detta di quei signori conquistabile per «persuasione», sempre più a dilagare dall'atmosfera di guerra, in cui sorse terrorizzando, a quella di pace. Della orribile loro pace.

L'antico schiavo e il servo della gleba cominciano a poter guardare dall'alto il lavoratore moderno. Essi, è vero, non si potevano spostare dal luogo d'impiego; ma non erano, nemmeno, tenuti ad andare in guerra. Il moderno sta sotto l'incubo della guerra, e l'alta probabilità di morte, lesione, prigionia e lavoro forzato. Mentre la guerra antica, inoltre, camminava al passo verso il civile, la moderna vola. E affama migliaia di miglia avanti ai fronti ogni non combattente (mentre il militare sotto dati moderni profili se la spassa perfino). In pace lo ingozzano di prosperità statistica e di libertà commerciale: vediamo che anche qui al Kremlino si sogna una vera orgia emulativa: empori senza code, merci varie e ruffiane, titillamento delle mode, e dei gusti, dritti e rovesci. Presto si arriverà al capolavoro d'America: il consumo a credito. Con questo sistema il lavoratore, illuso magari di essere partecipe del capitale di azienda, è non più padrone, ma debitore dell'arredamento della sua casa, e se possiede anche la casa, del valore di essa. Praticamente è come lo schiavo, che era debitore del valore netto della sua persona, dopo nutrito.

Già è stato definito feudalismo industriale questo sistema americano del credito, che lega il lavoratore al suo luogo dì lavoro, e di debito. Un ulteriore passo della «crescente miseria», che significa perdita di ogni «riserva» economica. Il proletario classico è a riserva zero, il moderno ha una riserva negativa: deve pagare una forte somma per potersene andare nudo dove voglia. Come pagare, se non come a Shylock, con una fetta di natica?

La collana dell'alto tenore di vita e del benessere, ideali comuni ai due mondi in gara della contemporanea civiltà «quantitativa», vale il filo spinato dei campi di concentramento, vegliati da tutte le bandiere.

 

Danza di magro delle calorie

 

Dicevamo che giusta l'«Unità» oggi, e non al 1960, il consumo alimentare del popolo russo sarebbe al livello di 3020 calorie, contro le 2340 italiane, mentre solo America e Inghilterra sono poco più sopra, 3100. Il russo avrebbe 92 grammi di proteine giornaliere, contro 75 dell'italiano; sarebbe battuto solo dal francese con 99.

Al XX congresso non hanno dato cifre dei consumi alimentari, se non per asserire che nel quinquennio si sono raddoppiati, non i quantitativi del consumo, ma quelli dello smercio traverso le reti statali e cooperative, cosa ben diversa.

La statistica sta a mostrare che ogni popolo poco alimentato, come l'italiano, mentre è dotato mediamente di cereali e zuccheri, sta in difetto per carne, latte e grassi. Stanno al di sopra Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Australia, Nuova Zelanda, Paesi Scandinavi, e anche Francia, specie in quanto hanno forti dotazioni zootecniche. I paesi ad alimentazione prevalentemente vegetale stanno sotto le 2500 calorie.

La dotazione di carni dipende, specie per economie chiuse, da quella di capi bovini, suini, ecc., rispetto alla popolazione.

Limitiamoci ad un confronto tra Stati Uniti e Russia, e... Italia.

Bovini: Stati Uniti capi per abitante 0,66. Russia 0,25. Italia 0,20. Suini: Stati Uniti 0,34. Russia 0,13. Italia 0,10.

Possiamo fare un confronto dei cereali; accettati per la Russia i 1.800 milioni di quintali di Bulganin, nel 1960, sono oggi - come già detto - 1050 milioni, che fanno 4,7 quintali per abitante. Stati Uniti 1400 milioni di quintali, 9 per abitante. Italia 160 milioni, 3,5 per abitante.

Ce n'è abbastanza per stabilire che, se in Russia la dotazione è superiore a quella italiana, certo essa sta enormemente al di sotto dell'America (e paesi affini) ed è pura invenzione che le calorie alimentari stiano al livello americano di oltre tremila: esse non possono essere, date le 2.340 italiane, che al massimo 2500, deliberatamente esagerando.

È noto come questi indici varino in Italia tra il Nord e il Sud. Ne è stata recentemente ancora una volta riferita la causa alla spettacolosa prolificità del Sud. Abitanti in più 891.000 nel quinquennio, su 12 milioni: 7,5 per cento!

Krusciov ha detto che nei cinque anni del V piano la popolazione russa (intendiamo sempre tutta l'U.R.S.S.) è aumentata di ben 16 milioni e 300 mila.

Ammesso che nel 1950 fosse di 202 milioni, l'aumento è dell'8 per cento in cinque anni, ossia di circa l'uno e mezzo per cento all'anno (12).

Krusciov conchiude che ciò prova che i russi mangiano molto! Anche qui, a questo banale livello, si parla da antimarxisti! Dove si figlia molto, ivi si mangia poco. Vuole Krusciov gli indici di Inghilterra, America, Nuova Zelanda e Scandinavia, in tatto di prole? In Russia non solo si mangia poco, ma si migliora poco la razione, perché la produzione agraria cresce appena collo stesso ritmo (nelle realizzazioni, non nelle vanterie) della popolazione.

La fame russa è dello stesso livello di quella (che i signori dell'«Unità» condiscono in ben diversa, ma sempre farisaica, letteratura) di Partinico, di Venosa, di Barletta.

L'emulazione condurrebbe, ancora una volta, a fare di cappello ai paesi più ignobilmente, crassamente borghesi e anti-rivoluzionari del mondo.

E a tanto, rapidamente, condurrà

 

Cifre e pacifismo!

 

Una dura argomentazione, a cui non ci risulta sia stata data una risposta sovietica, accoglie da parte americana l'annunzio russo, successivo al XX congresso, di una riduzione di effettivi delle forze armate russe per milioni di uomini.

Negli ultimi otto anni la popolazione russa cresce con un ritmo prepotente, come prima dell'ultima guerra. Ma la natalità e l'aumento si fermarono bruscamente nel 1942, 1943 e 1944 per le terribili ecatombi nella lotta coi tedeschi. Quelle «classi» giungono ora all'età della leva militare. La curva della diminuzione dei maschi sedicenni disponibili dal 1956 al 1960 sarà paurosa.

Non avalliamo le cifre, ma esse sono queste («Rome Daily American», 29 maggio 1956). I maschi nati in Russia in un anno salirono dal 1934 al 1939, da 1.300.000 a 2.400.000 (ci pare aumento troppo forzato). Scendono nel 1940 a 2.100.000, nel 1941 a 1.800.000, nel 1942 a 800.000, nel 1943 a 300.000, nel 1944 a 300.000. Non solo la prospettiva 1960 è quindi, dicono gli americani, di pochi soldati, ma anche di scarsi lavoratori.

Quali che siano le cifre vere, un fatto è sicuro. La Russia è uno Stato capitalista perché ha immolato milioni di vite di proletari, che costituirono un pagamento di plusvalore in masse enormi, al capitale di Occidente. Questo allora risparmiò milioni e milioni di vite, oggi tradotte a suo beneficio di bilioni e bilioni di dollari. Lo stesso truculento Stalin, qui fu truffato. Solo una lega mondiale degli operai può capovolgere questo sanguinoso conto attivo dell'infamia capilista internazionale.

La Russia d'oggi è popolata, ma soprattutto di anziani e di fanciulli. Può molto consumare, meno produrre, meno combattere.

Offre pace a quelli, cui si deve offrire guerra sociale, nel cuore del loro cuore.


Note:



7. Si veda in fine di questo capitolo. [back]
8. 1 pudo Kg. 16,32. [back]
9. Nella recente rivolta di Poznan le fotografie mostrano i lavoratori coi cartelli: «Chiediamo pane!». Non libertà... [back]
10. «La Coltura Sovietica», Einaudi, n. 1 del luglio 1945. [back]
11. «Dialogato con Stalin». [back]
12. Se - come da recente annunzio - la popolazione dell'U.R.S.S. fosse di soli 200 milioni, oggi è chiaro che il ritmo di incremento annuo sarebbe ancor più forte. [back]




Giornata terza (vespro)

  • Questioni di principio
  • Coesistenza senza guerra
  • La svolta del 1926
  • Fiamme della vigilia
  • Testamento di Stalin
  • Viva Stalin allora?
  • Concorrenza ed emulazione
  • Mercati e commerci
  • Scambio di capitali
  • Si, la guerra e evitabile
  • Squallido utopismo
  • Nascita del contro-ottobre
  • Note

 

 

Questioni di principio

Siamo all'abbordo delle grandi questioni della vivente storia: la politica mondiale degli Stati, la pace e la guerra.

Krusciov, echeggiato da tutti gli altri, ha detto di dover sistemare, nel XX congresso, «alcune questioni di principio». È grazia che si dia atto ancora che esistono questioni di principio: già da tanti anni lo slogan radicato in tutto il mostruoso apparato che ha il vertice al Kremlino è:
«
Basta col portare questioni di teoria tra le masse!».
Tra le masse non si portano che situazioni di passaggio, problemi «concreti», e si ha il diritto, quando sia utile al successo del momento, di mobilitare «principii», magari da Marx, Engels e Lenin, ma egualmente da Robespierre o da Cristo, da... Cavour e Garibaldi o dal Papa; la sola condizione è che espedienti del genere trovino quota e voga nell'andazzo delle Opinioni, nel favore popolare...

Quelle questioni di principio si è ostentato di porle su un piano nuovo rispetto al precedente periodo, al XIX congresso, a Stalin; e questo potrebbe anche ammettersi in parte. Quello che invece stiamo qui smantellando è che il «nuovo corso» (formula, per legge sperimentale, sospetta cento volte su cento) sia nella direzione dei principii che seguivano storicamente Marx, Lenin, il bolscevismo, l'Internazionale Comunista.

Questo nuovo corso non fa che stracciare alcune ultime carte di principii che «sotto Stalin» non si era ancora deciso di rinnegare: qui la nostra netta valutazione del XX congresso.

Crediamo avere dato questa prova circa la questione terza di Krusciov: Le forme di passaggio dei vari paesi al socialismo. Non una pagina del marxismo-leninismo si è qui salvata. Anche se non si è osato dire (lo dirà il XXI congresso) che la forma violenta e dittatoriale del passaggio è ormai «proibita», si è senz'altro stabilito che quella «attraverso la democrazia» è la regola in tutti gli Stati di oggi, con cui Mosca ha un dibattito diplomatico aperto.

Il corollario a questo passo è stato poi dato con la sfrenata abiura - dichiarazione di liquidazione del Cominform. Quando si distrusse l'opera storica di Lenin contro la vergognosa adesione alle guerre «democratiche» del 1914, abbracciando la politica social-patriottica per la guerra del 1942, si liquidò l'Internazionale Comunista, da lui fondata. Oggi si rimangia del pari tutta l'opera della «scissione» nel primo dopoguerra tra socialdemocrazia e comunismo mondiale, e si rimpiange l'unità sullo sfondo della peggiore II Internazionale, quella della collaborazione di classe a scala mondiale. Si indica infatti come conseguenza «delle modificazioni avvenute nella situazione internazionale» anche «il compito del superamento della scissione del movimento operaio, e del rafforzamento dell'unità della classe operaia per dare successo alla lotta per la pace ed il socialismo». Ma questo nuovo traguardo non è - come sembrerebbe in apparenza - un partito solo della classe operaia, ma è la sommersione di questa in un ben più largo fronte delle classi medie pacifiste, nazionalmente e socialmente. Soggezione del movimento comunista ad un fronte delle classi popolari è, ripetiamo, formula storica che può avere un solo contenuto: soggezione di tutta la società all'alto capitalismo.

Sia inteso: ben può da taluno, da uno qualunque, sostenersi che le «modificazioni della situazione storica mondiale» tra il 1919 e il 1956 inducono a conclusioni e prospettive opposte a quelle che determinarono e indirizzarono allora la lotta internazionale comunista.

Non ora e qui ci estendiamo a dimostrare che invece, come è nostro fermo avviso, non se ne possono trarre che drastiche conferme.

Ma dimostriamo per intanto il non diritto ad esistere - che in un dato avvenire si dimostrerà non con parole ma con atti di forza - di chi voglia legare le dette modificazioni della situazione a questo nuovo indirizzo, e non dichiari al tempo stesso fallita e caduta, non per quarant'anni ma per sempre, la costruzione storica a cui Marx e Lenin sono legati.

 

Coesistenza senza guerra

Restano, a parte quella del passaggio, altre due grandi questioni, che Krusciov intesta:
«
La coesistenza pacifica dei due sistemi» e: «La possibilità di evitare le guerre nell'epoca attuale».
Occorre vedere se su detti punti vi è stato del nuovo, ed in quale senso. Quello che vi è stato di nuovo lo diciamo presto: oltre a rinnegare Marx e Lenin, si è rinnegato perfino Stalin.

Abbiamo riportata la posizione del congresso circa il «non ingerimento» dello Stato sovietico negli «affari politici interni» degli altri paesi; e quindi il non ingerimento del partito, seduto in congresso a Mosca; e la strana pretesa che Stato, partito e congresso seguitino a prevedere che il socialismo sostituisca in tutti quei paesi il capitalismo, e a desiderarlo, «a mani nette». Purtroppo questa attitudine follemente disfattista seguita a trovare credito nelle masse operaie del mondo, in quanto tutta l'opinione e la propaganda borghese la accreditano, continuando ad arte a confondere il proprio reale terrore del comunismo con la campagna di agitazione contro la politica di Mosca. La fine di ciò è ancora lontana: occorrendo a un chiarimento dei rapporti non già altri congressi come questo, ma nuovi schieramenti originali e diversi degli interessi e dei fronti di conflitto dell'imperialismo; come, tra tanti esempi, emerge dalle parole recenti del semi-accidentato presidente d'America.

Qui bisogna indicare lo svolgersi storico di questa questione della coesistenza, o addirittura convivenza (nessuno è tanto cieco da affermare che i due gruppi di Stati possano andare avanti «ignorandosi»).

Ed infatti la coesistenza oggi disegnata non vuol dire solo: astensione dalla guerra di classi e di Stati, pace internazionale, disarmo rivoluzionario e perfino partigiano, vuole chiaramente dire: collaborazione economica, sociale, politica.

Storicamente questa questione nasce da un'altra che oggi viene taciuta, che si simula di ritenere pacifica: mentre è la sola, vera che noi poniamo sul tappeto, in una cerchia di silenzio, ma in attesa che tra qualche altro triennio sia dai due lati chiassosamente, clamorosamente disputata. È la questione del socialismo in un solo paese.

Prima infatti di prendere posizione sul curioso quesito: un paese a sistema socialista e uno a sistema capitalista devono farsi necessariamente la guerra? bisogna chiedersi se una tale situazione storica può determinarsi, e se si è già oggi determinata.

Di questa grande questione vediamo tre tappe: 1926, all'Esecutivo Allargato di dicembre dell'Internazionale di Mosca (Settima Sessione) - 1939, al XVIII congresso del Partito Comunista russo, alla vigilia della seconda guerra - 1952, al XIX congresso, e prima della morte di Stalin.

 

La svolta del 1926

Quella prima discussione riflette un momento decisivo. La grande organizzazione che in Russia teneva solidamente lo Stato, abbandona lo sforzo per provocare la rivoluzione proletaria mondiale, e si pone due compiti: la propria difesa interna ed esterna con la forza armata - una direzione dell'economia sociale, che i fautori della tesi vincente chiamano «edificazione del socialismo».

Due tesi erano allora giuste, e la storia le ha confermate: la rivoluzione nei paesi capitalistici era «rinviata» - l'assalto armato alla Russia di essi era possibile, e probabile.

La tesi di Stalin, e allora anche di Bucharin, fu che (anche prolungandosi a lungo quella situazione: proletariato internazionale passivo, Stati capitalisti attivi) si poteva in Russia, conservando il potere, attuare la trasformazione dell'economia in «sistema socialista».

Particolarmente vigorosa fu la contro-dimostrazione di Trotzky, Zinoviev e Kamenev, che ripetiamo ancora degna di attentissimo studio, oggi. Essi chiarirono in modo incontrovertibile la dottrina di Marx e Lenin su quei punti: la ricordiamo senz'altro.

1. Il capitalismo appare e si sviluppa nel mondo con tempi e in ritmi disuguali.
2. Ne segue altrettanto per la formazione della classe proletaria e la sua forza politica e rivoluzionaria.
3. La conquista del potere politico da parte del proletariato può avvenire non solo in un paese unico ma anche in uno meno sviluppato di altri, che restino al potere capitalista.
4. La presenza nel mondo di paesi ove la rivoluzione politica proletaria è già avvenuta accelera al massimo la lotta rivoluzionaria in tutti gli altri.
5. In fase ascendente di questa lotta rivoluzionaria è possibile che intervengano in difesa e in offesa le forze armate degli Stati proletari.
6. Ove le guerre civili e statali sostino, un solo paese può compiere solo i passi consentiti dallo sviluppo economico che in esso è stato raggiunto «nella direzione» del socialismo.
7. Se si trattasse di uno dei grandi paesi più avanzati, prima della sua piena trasformazione economica socialista, in dottrina non impossibile, avverrebbe la guerra civile e statale generale.
8. Se si tratta, come per la Russia, di un paese appena uscito dal feudalismo, questo con la vittoria politica proletaria non potrà fare altri passi che il realizzare le «basi» del socialismo, cioè una progressiva forte industrializzazione; e definirà il suo programma come attesa e lavoro per la rivoluzione politica estera, e come una costruzione economica di capitalismo di Stato a base mercantile.
Senza la rivoluzione mondiale, in Russia il socialismo era allora, ed è, impossibile.

Abbiamo volutamente riassunta in modo crudo la posizione. La cosa più notevole in quel 1926 fu la prova che nessuno era stato fino al 1924 di altra opinione; fu sventata la falsa interpretazione di uno o due passi di Lenin (vedi la nostra serie sulla Russia e la Rivoluzione, Prima parte) e fu dimostrato che gli stessi Stalin e Bucharin avevano parlato e scritto sempre in quel senso.

Ai fini dello sviluppo che ora seguiamo non torniamo sulla parte economica. Oggi è molto più facile di allora dimostrare che la società russa è capitalista. Sarà solo un poco più lungo sentirlo confessare.

Mentre oggi Krusciov parla di «leninista» teoria della coesistenza pacifica, non solo noi stabiliamo che non fu mai teoria leninista quella dell'edificazione del socialismo nella sola Russia, ma che quella del pacifismo tra i due sistemi, al 1926, non era nemmeno teoria stalinista, o buchariniana.

Nei deboli discorsi di Stalin, freddo, e del caldo Bucharin, questo si vede in modo indubbio. Un solo passo di Bucharin: «La esistenza perpetua di organizzazioni proletarie e di stati capitalistici è una utopia. Una tale esistenza simultanea è un fenomeno temporaneo. Pertanto, forzatamente, nella nostra prospettiva noi prevediamo una lotta armata tra i capitalisti e noi. Dichiaro categoricamente che la vittoria definitiva del socialismo è la vittoria della rivoluzione mondiale, almeno la vittoria del proletariato in tutti i centri decisivi del capitalismo» Questo nel 1926; oggi si amoreggia con il «non decisivo», il trascurabile capitalista Uncle Sam!

Queste parole di Bucharin erano marxiste. Egli era solo troppo ardente, quando non voleva aspettare oltre a vedere attuato il socialismo nell'immensa Russia, e da così totale potere. Riscattò poi con la stessa vita il diritto ad essere chiamato un grande, vero comunista rivoluzionario.

Perfino Stalin deve in parte ringraziare di qualcosa, se è vero che lo hanno fatto morire. Subito lo vedremo.

 

Fiamme della vigilia

Il 10 maggio 1939 Stalin svolge il suo rapporto a Mosca al XVIII Congresso del Partito russo. Nella lotta tra il 1926 e il 1939 in Russia gli assertori dell'edificato socialismo hanno sanguinosamente vinto. Non solo Zinoviev e Kamenev ma lo stesso Bucharin sono stati uccisi, Trotzky profugo avrà poco da vivere. Nel suo stile fatto di retorica ripetizione il loro nemico, uomo non ottuso ma testardo, che perdette una grande occasione di provare come la testardaggine sia una qualità da rivoluzionario, si mostra sicuro che non parleranno più dai loro sepolcri, chiusi o tuttora aperti:
«
la epurazione del pugno di spie, assassini e sabotatori del genere di Trotzky, Zinoviev, Kamenev, Jakir, Tucacewsky, Rosengolz, Bucharin e altri mostri, che strisciavano davanti allo straniero...».
Ma che dunque pensa allora Stalin della coesistenza e della guerra? Ebbene, in quel discorso di Stalin la guerra è certa, vicina, inevitabile.

Si insiste dal pugno di vili adulatori di allora, intenti oggi alla demolizione della figura di Stalin, sul fatto che egli non avrebbe vista, a poche ore, l'offensiva tedesca del 1942. Fu poi quello del 1939 un fiducioso abbraccio russo-germanico, e fu proprio solo tedesco il colpo basso all'amico? Questi mestieranti riducono la dialettica storica ad uno straccio puzzolente. Non si muovono così immense forze per mosse tramate nell'ombra una sera prima! Noi dobbiamo stare al documento in cui Stalin dimostra, sei mesi prima dell'invasione hitleriana della Polonia, una visione sicura. È stranissima la leggerezza impudente con cui oggi lo squalificano proprio quelli che su tale prospettiva hanno edificata la condotta politica di tutta la guerra e il dopoguerra!

Stalin descrive il gioco dell'imperialismo mondiale come sicuramente diretto allo scioglimento di guerra. Le sue parole sono esplicite: «La nuova guerra imperialistica è diventata un fatto». Gli stati capitalisti tuttavia la temono perché «può condurre alla vittoria della rivoluzione in uno o più paesi». Stalin si richiama ancora alla dottrina di Lenin sull'imperialismo.

Ciò che è invece strano, e che meriterebbe critica di noi marxisti, non dei senza principii che da ora lo attorniavano, è che Stalin impianta in pieno la distinzione tra «stati aggressori» e «stati democratici» su cui poi verrà costruita la politica disfattista dell'Antifascismo e della Liberazione.

Per lui «gli stati aggressori, Germania, Italia e Giappone» mascherano il proposito di attaccare gli «stati democratici, Inghilterra, Francia, America» con il loro famoso «patto Anti-comintern». Egli frusta perfino l'arrendevolezza (Monaco) davanti alle prepotenze di Hitler! Stigmatizza poi, dopo avere vagamente detto che la Russia è per la pace, la politica pilatesca del «non intervento» in guerra. Quanto alla Russia, essa prepara le sue armi:
«
Nessuno crede più ai discorsi melliflui secondo cui le concessioni di Monaco agli aggressori avrebbero inaugurata una nuova era di pacificazione»;
in ogni modo: «noi non temiamo le minacce degli aggressori e siamo pronti a rispondere con un doppio colpo a quello dei fautori di guerra che cerchino di violare i nostri confini».

Noi siamo marxisticamente ben lontani dalla «teoria dell'aggressione» e dalla distinzione tra paesi guerrieri e paesi demo-pacifici, che del tutto offusca la vera dottrina di Marx e Lenin sulla guerra, figlia dei rapporti di produzione borghesi, che non ha alcun bisogno di essere «voluta» da criminali.

Ma non possiamo tacere che il linguaggio odierno sulla coesistenza pacifica e la evitabilità della guerra, è molto molto più degenere e nauseoso di quello tenuto alla vigilia della seconda guerra mondiale.

Se l'alternativa della alleanza prima con gli aggressori e poi con i pacifici è un capolavoro di più della abolizione dei principi, ciò non toglie che il modo odierno di raccontare il dramma che va da Danzica a Stalingrado è ancora più fumogeno e sospetto, fermo restando per noi che allo stesso titolo fu tradimento stringere la armata mano di Hitler come di Churchill e Roosevelt, pari genuflessione di un potere già divenuto capitalistico agli imperativi dell'imperialismo, pari obbedienza alle superiori forze del determinismo, cui soggiace la politica internazionale, affidata, a dir dei gonzi e dei ciarlatani, alle fragili, labili mani dei «Pochi Grandi».

 

Testamento di Stalin

La biografia del personaggio non ci commuove più di quella di ogni altro lontano o vicino, nemico od amico. Ce ne serviamo di strada storica perché vale a sgomberare il campo dalla nuova menzogna, in nulla meno indegna di quella che rese «mostri» i grandi nostri Fratelli sterminati nelle purghe russe: la menzogna che in tutto questo scrollarsi più che vano dalle responsabilità legate al nome di Stalin, si possa disegnare un sano ritorno ai tempi grandiosi in cui la linea di Marx-Lenin era levata in alto indefettibile, a smisurato terrore del mondo capitalistico.

Nello scritto di Stalin sui «Problemi economici» rilevammo come la tesi della guerra imperialista, a cui può porre fine solo la distruzione del capitalismo, se pure enunciata con visibili contraddittorie concessioni alla coesistenza e al pacifismo, fin da allora affermati, sembrava ancora tenuta in piedi.

Oggi quello scritto lo vediamo condannato, ma in sostanza perché? Non già perché si ponga minimamente in dubbio il carattere di già raggiunto socialismo dell'economia sovietica, o si denunzi come folle e falsa la tesi del valere delle leggi di mercato in pieno socialismo. Abbiamo visto che si condanna unicamente la pretesa di Stalin che già da quel tempo fosse escluso un aumento della produzione capitalista occidentale. Oggi assodiamo che si condanna un altro punto: lo sbocco dell'imperialismo e della crisi nella terza guerra.

Attendere una catastrofe economica e politica del mondo borghese, e poi non vederla giungere, è una felix culpa per i rivoluzionari.

Tante volte le crisi e la catastrofe hanno deluso Marx ed Engels. E tante volte lo ha fatto l'esito delle pronosticate guerre internazionali.

Nel 1926 il primo concerto di insulti ai futuri mostri tende a soffocarli sotto l'infamia di pessimismo, e come teorizzatori della stabilizzazione del capitalismo. Per questo è un Trotzky deriso risibilmente perfino da un Togliatti.

Nel discorso prima trattato Stalin deduce la guerra del settembre 1939 da una visibile crisi della produzione mondiale, che, dopo quella 1929-1932, cui aveva fatto seguito una robusta ripresa, si delinea nettamente nel 1937; anno in cui nella sola Russia la produzione non declina.

L'ultimo errore di Stalin nel 1952, consistente nell'attendere una depressione occidentale, mentre è seguito il «boom» imprevedibile al quale i K.B. si vanno per il mondo untuosamente genuflettendo, è caso mai la minore di tutte le sue vergogne. Purtroppo questo mostra che gli allievi hanno di gran lunga superato il maestro.

Se dunque la curva dell'accumulazione si fosse piegata in basso, il passaggio sarebbe stato dalla guerra fredda ad un conflitto aperto? Ma questo avrebbe forse dato adito a sperare che finalmente la storia avrebbe visto la sconfitta o dell'Inghilterra o dell'America, o di entrambe queste potenze, che vincendo sempre da due secoli anchilosano il divenire dell'umanità.

La curva per ora si è volta in alto; e non lo ha fatto solo in Russia, come allora mostravano le cifre di Stalin nel passaggio tra gli indici 1937 e 1938. Di qui lo sporco idillio pacifista e lacrimogeno, al quale, con bestemmie del marxismo-leninismo dieci volte più orribili, si è dedicato lo stato maggiore del XX congresso.

Citiamo di nuovo le frasi di Stalin che riportavamo nel «Dialogato» (13) con lui.
«
Per eliminare l'inevitabilità delle guerre, è necessario distruggere l'imperialismo».
Questa drastica conclusione di Stalin chiude una confutazione risoluta di
«
alcuni compagni che affermano che per lo sviluppo di nuove condizioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale, le guerre fra i paesi capitalistici abbiano cessato di essere inevitabili».
Stalin non solo si oppone a questa tesi alla Krusciov, ma anche all'altra, che
«
i contrasti tra il campo del socialismo e il campo del capitalismo siano più forti dei contrasti tra i paesi capitalistici».

Ed ecco la posizione per la quale il XX congresso stacca la testa imbalsamata di Josif dal freddo cadavere, e la reca su un piatto d'oro oggi a Londra e domani, non v'ha dubbio, ad elezione presidenziale scontata, a New York.

«Da ciò deriva che l'inevitabilità delle guerre tra i paesi capitalistici continua a sussistere. Si dice che la tesi di Lenin secondo cui l'imperialismo genera inevitabilmente le guerre deve considerarsi superata, perché attualmente si sono sviluppate potenti forze popolari, che agiscono in difesa della pace, contro una nuova guerra mondiale. Questo non è vero».

Questo non era vero, e non è vero. Questo: quello che dice Krusciov:
«
Le guerre non sono più fatalmente inevitabili perché oggi... esistono i partigiani della pace».
E questi, e simili cose, non esistevano ancora quando fu elaborata «una» tesi marxista leninista secondo la quale le guerre sono inevitabili finché esiste l'imperialismo.

Una, miserabili? La tesi; tolta la quale marxismo e leninismo cadrebbero nel nulla.

 

Viva Stalin, allora?

Nel «Dialogato con Stalin» mostrammo le gravi debolezze della presentazione di costui. Egli non credeva ancora possibile buttare fuori bordo quella che è, come abbiamo detto, la tesi di Lenin, non una tesi di Lenin. Voleva tuttavia spiegare perché fin da vari anni si assicurava possibile la «coesistenza», che era già stata inventata. Voleva intanto buttare via la tesi di Bucharin, e sua, sulla inevitabile guerra tra i due sistemi. Si mette quindi a dichiarare più probabile la guerra tra gli Stati capitalisti. Ricorda non senza coerenza la sua posizione del 1939: perché, egli dice, gli Stati capitalisti si attaccarono tra loro prima di darci addosso? Mostra di possedere ancora qualche lume di quella dialettica, per la quale il XX congresso si è foderato di cecità assoluta: è una incessante discesa nella tenebra, sono la sera, la notte che incombono sulle grandi giornate storiche di Ottobre. È lo stanco occhio di Stalin che registra gli ultimi raggi. Gli Stati di Occidente hanno per lui aiutato il riorganizzarsi del capitalismo germanico dopo la catastrofe del 1918, per poterlo lanciare contro la rivoluzione russa, egli afferma. E tuttavia, pure cadendo nella retorica classificazione del 1939 tra pacifondai ed aggressori, nel 1952 spiega col motivo economico della mancanza di mercati e di sbocchi, alla Lenin, e non con la criminologia storica degli imbecilli, il movente irresistibile di quella riscossa tedesca.

La mollezza in teoria di quest'uomo dall'azione di ferro, era già segnata dalla non superabile penna di Trotzky.

In effetti la poco salda costruzione di Stalin conteneva già tutti i dati dell'ulteriore calata lungo la scala controrivoluzionaria, che al XX congresso hanno consumato in pretesa onta a lui; e potemmo quattro anni addietro chiaramente indicare come. Egli deve liberarsi da ogni avanzo dell'ingenua tendenza buchariniana ad una guerra santa rivoluzionaria. Mantiene la derivazione inevitabile della guerra dall'imperialismo, e addita in questo il nemico. Ma prepara il travisamento totale della leninista «teoria del disfattismo» col dire, dopo avere tuttavia minimizzati ad una specie di remora e di rinvio gli effetti del «movimento per la pace», che
«
questo si distingue dal movimento svoltosi durante la prima guerra mondiale per trasformare la guerra imperialistica in guerra civile, perché quello andava oltre e perseguiva scopi socialisti».

La tesi restava in mezza ombra e mezza luce. La tesi di Marx contro i democratici borghesi di «pace e libertà» nel 1848 era la stessa di Lenin contro i socialisti guerraioli del 1914. Noi neghiamo che vi sia un obiettivo pace distinto da quello socialismo, dalla emancipazione di classe operaia. Aspettiamo meglio la Rivoluzione dalla Guerra, che la Pace dal Capitalismo. Non sappiamo altra via per «seppellire la guerra» che l'uccisione del sistema borghese.

Stalin già svincola un movimento per la pace dall'azione per il socialismo, e dice quella possibile, ma non irrevocabilmente, prima di questo. Krusciov e i suoi si sono immersi nel fondo del baratro, vogliono la Pace senza Socialismo. Richiesta idiota, ad un tempo, ed impossibile!

Tutto l'impaccio e l'imbroglio sono subito, ieri ed oggi, sciolti dalla nostra posizione. La Russia è capitalista quanto gli altri Stati di occidente, e la guerra verrà anche tra essa ed altri Stati. Stalin la vedeva vicina e preferiva non essere il primo a sparare, sperava attendere, col movimento popolare, che la cosa andasse come nel 1939. Assicurava quindi gli Stati borghesi che gli urti tra loro erano più impellenti di quello tra i sistemi: augurava loro crisi interna e guerra esterna. Ultima illusione. Questi di oggi non credono più alla crisi entro il capitalismo e tra i capitalismi: hanno perduti gli ultimi barlumi cui Stalin trovava utile richiamarsi. Offrono la desistenza da ogni disturbo, elevano a regola eterna la evitabilità della catastrofe bellica per volontà e coscienza popolare, per persuasione mondiale, liquidano cinicamente gli ultimi rossori a cui la durissima grinta di un Giuseppe Stalin era tuttora sensibile.

Grandezza e piccolezza di uomini, durezza e sensibilità di animi, nulla hanno a che vedere con questo. Stalin in effetti sbagliava, e non vedeva che la terza guerra era lontana ancora; manovrava come se fosse più prossima. In egual misura lui e i suoi seguaci e successori non credono alla Rivoluzione, che possa ovunque fermarla, e vivono alla giornata nell'infame e cogliona lunga pace borghese, che si para per forse vent'anni davanti a noi.

 

Concorrenza ed emulazione

 

Il poderoso profetico discorso di Trotzky nel 1926 si svolgeva su un piano così alto, che gli fu troncata la parola. Forse dopo egli non completò adeguatamente, per quanto abbia scritto in modo anche meraviglioso, quella costruzione. Insistette su altri aspetti del dramma russo: l'avidità della burocrazia statale e di partito, la ferocia di Stalin: rispetto ai temi che aveva allora toccati, piccole cose.

Oggi il misero Krusciov, per sganciarsi dalle condizioni cui è legata «una» tesi di Lenin, baratta le ultime luci del marxismo che mai lo abbiano raggiunto, e afferma che nel 1914 agivano i fattori economici, nel 1956 sarebbero in gioco anche altri fattori, morali e di volontà.
«
La guerra non è un fenomeno esclusivamente economico». «Nella questione se la guerra ci deve o non ci deve essere (ma che razza di questione è mai codesta?) assumono grande importanza i rapporti di classe le forze politiche, il grado di organizzazione e la volontà cosciente degli uomini».

In quale spaventoso guazzabuglio siamo caduti, per tornare da Stalin a Marx?! Stalin avanzava in libreria col lanciafiamme, ma a quella luce qualche lembo di pagina si leggeva ancora; i vari Krusciov vi irrompono come tori ai quali, a copertura del rischio che abbiano appreso a leggere, si sono bendati gli occhi dopo avere spento tutte le luci.

Per caso siamo marxisti, e dopo ciò abbiamo da una parte schierato «i fattori economici», dall'altra, in suggestivo ordine, i rapporti di classe, le forze politiche e di organizzazione, la coscienza, la volontà?! E avviando tra questi avversari una «gara emulativa» sentiamo lanciare un «a voi signori», mentre il maresciallo Bulganin, col più fotogenico sorriso, tiene la smarra?!

Trotzky portò il discorso, da povero fesso quanto noi, sui «fattori economici» del momento. Fu grande. Non potete fare altro, disse, che sviluppare il passaggio dalla nostra società precapitalistica al mercantilismo, che avvicinarvi al modello capitalistico. Più passi avrete fatto per raggiungerlo, più saranno irresistibili le sue influenze su di voi. Non è solo con la guerra che egli può soggiogarvi. O noi andremo a snidarlo nei suoi covi di occidente, o egli sarà qui a fare i conti con noi. Né militarmente né economicamente i due sviluppi possono correre senza incrociarsi. Lanciato uno sguardo da gigante della dottrina storica nel fondo avvenire, Trotzky rispose a qualche interruzione da idiota: più di tutti credo nella rivoluzione mondiale, ma, se avremo guardato le cose in viso, potremo aspettare anche cinquant'anni. La condizione è che in tutto questo tempo non avremo sciolto la realizzazione dell'economia socialista in Russia dall'abbattimento della forma sociale capitalistica nell'Occidente.

L'internazionalismo, insegnò allora Trotzky con le parole della intangibile dottrina, si imposta sull'internazionalità degli scambi che la forma capitalistica ha dovunque introdotto, e nel vortice della quale saremo portati. Nulla varrà l'illusione di stare fuori dalle sue influenze. Quando gli posero il bavaglio egli non si poté difendere. Scese dalla tribuna per l'ultima volta dicendo: l'Internazionale discuterà ancora... Lui morto, ci è oggi dato ancora seguire il «dialogo» con cui la sua mente luminosa confutava, avanti lettera, i Krusciov.

 

Mercati e commerci

Coesistenza significa «non guerra», ma non può significare non contatto, non scambio. Trotzky lo aveva bene avvertito. La storia lo conferma.

Al momento di Stalin la formula fu quella del doppio mercato mondiale, che noi, nel dimostrarla falsa, rettificammo nella pretesa esistenza di due mercati semi-mondiali. La prospettiva di Stalin era tanto ingenua quanto audace. Tagliato mezzo mondo al capitalismo di occidente, esso si affoga nel suo sovraprodotto, si dilania in sé con guerre di quadrupla velenosità, e noi restiamo, noi passiamo. Ma chi noi? L'altro mezzo capitalismo, soltanto più del primo vitale?

Oggi la teoria illusoria dei due mercati-compartimenti stagni, è gettata risolutamente via: la patria socialista non abbassa solo il velo, ma si scinge decisa la cintura. Seppellisce con Stalin le ultime minacce di trarre un ferro mortale di sotto le gonne, dopo l'invito.

Qui dobbiamo sentire l'economista di servizio, Mikoyan.
«
Siamo fermamente convinti che una stabile coesistenza è inconcepibile senza il commercio (corsivo del testo in «Rinascita», febbraio 1956) che può essere la base di questa convivenza anche dopo la formazione di due mercati mondiali. L'esistenza di due mercati mondiali - di quello socialista e di quello capitalistico - non solo non esclude, ma al contrario presuppone il commercio, reciprocamente vantaggioso fra tutti i paesi. L'esatta interpretazione di questo problema ha valore di principio, sotto l'aspetto della coesistenza fra i due mondi, ma ha anche un'importanza pratica, economica».
Evitando corsivi ed esclamativi nostri sulla formulazione estremamente abbandonata, incosciente, come di chi corra sicuro su lastre di ghiaccio sottilissime, citiamo ancora:
«
riteniamo che il nostro commercio con i paesi capitalistici sia vantaggioso per entrambe le parti... Ciò è imposto dalla necessità stessa della divisione sociale del lavoro... dal fatto che non è ugualmente vantaggioso produrre tutti i tipi di merci in tutti i paesi...».
Ha mai dubitato, il Mikoyan, dubiterà mai uno su mille di quelli che leggono «Rinascita», che nel sistema socialista, a parte il vecchio fatto che non vi è commercio, non vi è mercato, deve essere superata, se non la divisione tecnica del lavoro nella manifattura, certamente la divisione tanto professionale ed aziendale quanto regionale e nazionale, del lavoro nella società? Che tutte queste formule sono inchiodate al tipo capitalista dei rapporti produttivi, e supremamente quella che «il produrre debba essere vantaggioso»? Vantaggio e profitto di capitale sono termini, che dicono la stessa cosa.

Noi facemmo a suo tempo tutta questa critica dell'ancora prudenziale visione di Stalin sul commercio, sul confronto dei due sistemi, e citammo anche come gli economisti borghesi di scuola liberale aderissero a questo confluire delle due produzioni sugli stessi sbocchi, e accettassero che il vincitore sarebbe stato quello dei due, che più vi avesse lucrato. Ma allora qual dubbio che perde ogni minimo valore l'argomento che in Russia «sono stati annientati gli sfruttatori» e «non esistono più borghesi», una volta ammesso che, per i canali internazionali, profitti di capitale, anonimo e tanto più avido per questo, traversano liberamente ogni frontiera?

 

Scambio di capitali

Questa gragnuola di paurose ammissioni sui sempre più larghi rapporti tra le pretese due economie, i pretesi due sistemi, mostrano come la manovra della «coesistenza» e della «emulazione» si legge tutta nel suo contenuto economico, e che non vi cambiano proprio nulla le millanterie di prevalere con la pressione delle opinioni «popolari», diffuse nella «coscienza» delle masse mondiali, e simili omelie. Al fine dì tutta questa colorata «frangia di interferenza», che si vuole vedere stabilita sul limite tra due sistemi opposti ed eterogenei, se si ha riguardo al loro interno, è possibile una sola conclusione. Questo amplesso a cui vorrebbe condurre la persuasione dei popoli, come solita alternativa al conflitto violento, è puramente un amplesso tra nature omosessuali, tra sistemi identici. Esso non è che una tappa della rivendicazione scema della liberalizzazione commerciale mondiale, accarezzata da tutti gli «operatori economici». Anche in questi giorni in America gli ambienti affaristici invocano l'eliminazione dei divieti di importazione di prodotti esteri; se vogliamo, dicono, che ad esempio i giapponesi comprino da noi cotone greggio, dobbiamo permettere a loro di «guadagnare dollari» vendendo qui le loro cotonate a basso prezzo. Guadagnare in due, formula del XX congresso, e di Mikoyan, formula in cui chi compita appena Marx può leggere tutto il capitalismo.

Cadute queste cose in bocca ai vari Nenni, ecco che sparano a salve: si deve stabilire con la Russia anche il «mercato dei capitali». Deve dunque essere permesso di esportare dalla Russia capitale «socialista» e quindi importarvi capitale... capitalista. Anche questo è messo sulla coscienza di Mikoyan, e fa parer vero che K. e B. offrano fra una tazza e l'altra di tè ad Elisabetta due miliardi di dollari in oro, sia pure in conto acquisto merci.

Naturalmente quando siano attuate queste gigantesche esportazioni di capitale finanziario si seguiterà a dire che non si tratta più del fenomeno caratteristico del più sadico imperialismo, quello descritto da Lenin: già; già; allora era il tempo dei volgari, crudi fattori economici: oggi è tutt'altro, ci sono i valori morali, le spinte ad emularsi con reciproco vantaggio; e la coscienza generale di questi tempi gentili e leggiadri non consente più le manovre di una volta per fregarsi l'un l'altro traverso i confini: la guerra è evitabile.

Un mondo che sia tutta una rete di borse di merci e di borse di capitali è evidentemente tanto assurdo dirlo socialista, quanto semi-socialista. Ma è ancora più illusorio prospettarlo come un mondo in cui sia possibile quanto Lenin escluse: impedire lo scoppio di una terza guerra generale solo al fine di assicurare la pace, e tenendo in vita il capitalismo.

Nel 1947, dunque, gli Stati Uniti avrebbero avuto un monopolio del mercato dei capitali, ed oggi lo avrebbero perduto (insieme a quello delle armi nucleari; e questo lo dice l'americano Lippman). Quindi riesce per gli Stati Uniti sempre più difficile esigere, come contropartita degli aiuti economici, sia accordi militari che accordi politici.

Bene, siamo dunque in pieno idillio. Riesce infatti per la Russia tanto facile esigere, in contropartita di ben due miliardi di dollari, appena un sorriso della Sua Graziosa Maestà Britannica!

 

Si, la guerra è evitabile

Noi siamo, è ben chiaro, per la piena validità attuale della dottrina di Lenin sulla guerra, la quale non è che la dottrina di Marx enunciata al suo nascere storico, dopo la guerra franco-prussiana e la Comune parigina, con cui si erano chiuse le guerre rivoluzionarie di sistemazione liberale: tutti gli eserciti nazionali sono ormai confederati contro il Proletariato!

Marx aveva fin dal 1848 annientata ogni ideologia pacifista-umanitaria che prospettasse la fine delle guerre per «generale persuasione» sulla loro inutilità. Dal 1848 al 1871 una serie di guerre erano ancora utili, per lo stesso radicalismo borghese dei Mazzini, Blanc, Kossuth e simili, che non lo capivano. La guerra tra nazioni non sarebbe finita con la Pace Universale, ma con la rivoluzione di classe supernazionale.

Gli stessi marxisti della Seconda Internazionale, come Lenin contestò loro per un decennio, avevano sinceramente creduto che la guerra potesse essere impedita dal proletariato mondiale. Però anche in quel periodo idilliaco e evoluzionistico, in cui nei parlamenti del mondo i voti socialisti si ammassavano, neppure i più smaccati riformisti pensarono di fermare la guerra con forze «morali» e persuasive. Impedire la guerra significava per loro impedire con lo sciopero generale nazionale ad oltranza la mobilitazione generale da tutte le parti delle frontiere, prendendo nelle mani il potere, per fondare il socialismo nella unita Europa.

Quando Lenin stabilì che la tappa imperialista del capitalismo conduce alla guerra, egli non credeva ancora ad una serie successiva di guerre mondiali, ma attendeva che al delinearsi della prima il proletariato, almeno di Europa, si levasse in piedi e la fermasse. La sua formula fu «trasformare la guerra imperialista in guerra civile». Ma la formula era alternante: o comincia e si sviluppa la guerra delle nazioni, o scoppia in ciascuna la guerra civile, le borghesie sono rovesciate, e la guerra non «scatta».

La grande occasione leninista fu perduta, adunque nel 1914 perché tutti o quasi i partiti operai non solo non bloccarono i cantieri, le ferrovie e i corpi d'armata, ma marciarono con la guerra nazionale. La rivoluzione russa nacque dal sommarsi di due condizioni singolari; la sopravvivenza di un regime feudale e la serie di disfatte militari. Il ciclo che avrebbe dovuto costringersi in troppo pochi anni mancò: condanna e sconfitta dei partiti social-traditori, ripresa del proletariato nei paesi d'Europa, abbattimento delle borghesie imperiali, vinte o vincitrici. E la rivoluzione russa fu sola.

Alla seconda guerra mondiale non si oppose all'inizio nessuna resistenza delle classi lavoratrici, e non seguì nessuna rivoluzione: sulla strada dei mostri imperialisti i partiti proletari non si trovarono: quelli comunisti nati dopo il 1914 nei venti anni tra le due guerre si erano totalmente snaturati, e la loro più grande battaglia perduta fu quella ad essi data con le repressioni di Stalin.

Oggi chi leva ancora la tesi di Lenin dice che, ricostituitesi le condizioni di tipo imperialistico anche nei paesi vinti, dopo un certo ciclo la guerra si presenterà, con una sola alternativa (del tutto improponibile se già oggi scoppiasse): che la rivoluzione proletaria possa strozzarla sul nascere.

Dalla terza guerra nascerebbe la rivoluzione se prima del suo scoppio, che tutto fa ritenere ancora ben lontano, fosse risorto il movimento di classe.

La prima condizione per questo arduo risultato è la messa fuori discussione del preteso carattere socialista della Russia presente.

Alla tesi del XX congresso sull'evitabilità attuale della guerra, noi rispondiamo non che la stessa è inevitabile in senso assoluto, ma che non può essere evitata da un movimento vagamente ideologico di proletari e classi povere e medie, su cui passerebbe come un turbine senza trovare resistenze. La guerra generale è dunque storicamente evitabile, ma alla sola condizione che le si opponga un movimento della pura classe salariata, e che questo l'attenda non per surrogarla con la pace ma per abbattere, con essa neonata, il vecchio, infame capitalismo.

 

Squallido utopismo

L'obiettivo storico della stabile pace in un mondo capitalista - e peggio sarebbe dire in un mondo mezzo capitalista, mezzo socialista! - insieme all'altro del XX congresso di «scelta» tra capitalismo e socialismo in base ad un confronto emulativo, giudicato dalla generale coscienza degli uomini, vale, in conclusione, aver retroceduto da Lenin per una lunga tratta, oltre quella di cui aveva retroceduto Stalin, il quale quando è morto lasciava ancora sperare agli smarriti, e più che mai difettosi di coscienza e di volontà, lavoratori del mondo, che in una prossima conflagrazione l'esercito Rosso avrebbe tentato di dilagare oltre le frontiere capitaliste, per persuadere col linguaggio del cannone e delle bombe: un ultimo residuo di marxismo, per quanto già ottenebrato dalla degenerazione delle teorie economiche, restava in questa vana speranza degli operai, che mormoravano la vana frase: eppure verrà Baffone!

La degringolade dal XIX al XX congresso rovina oltre Lenin ed oltre Marx, ad una concezione della lotta storica che, prese a pretesto le rivelazioni dei nuovi tempi, e le «creazioni» dettate da situazioni nuove, giace all'altezza di tempi più lontani del «Manifesto», e si perde nelle nebbie dell'Utopia.

L'idea che il mondo si decida dal confronto tra due modelli di società economiche, saggiando, con questi «plastici» artificiali della vivente umanità, ove vi sia maggior benessere materiale con tutto il contorno, e poi si orienti per una delle due forme proposte, non può assimilarsi che ai primi conati del socialismo utopistico, con l'enorme differenza a vantaggio di questo che al suo tempo esso anticipava con audacia rivendicazioni storiche del domani, mentre oggi sarebbe il risultato di un favoloso indietreggiamento e rinculo.

Marx ed Engels hanno infatti scritto degli utopisti senza alcun disprezzo, e per alcuni di essi come Saint Simon, Fourier, Owen, con vera ammirazione.

Ma tutta la loro costruzione teorica, su cui si formò il socialismo europeo dell'avanzato ottocento, e il comunismo russo di Plekhanov e Lenin, ebbe due pietre angolari: la critica dell'utopismo socialista - e la critica della democrazia borghese, della democrazia, come Lenin dice, in generale.

Erano due vie del tipo emulativo e persuasivo. I vecchi utopisti come Cabet pensavano che tutti si sarebbero fatti socialisti traverso visite alle Icarie, ai Falansteri; gli illusi dell'ebbrezza illuminista del XVIII secolo giuravano che la giustizia egualitaria e la libertà sociale sarebbero state adottate dalle legali consultazioni del popolo sovrano, derivanti come un corollario di pacifica civiltà dalla gloriosa rivoluzione che la classe borghese aveva condotta, in nome di quei principii.

Sono due grandi costruzioni della storia, ma i socialisti delle precedenti generazioni sono passati sulle loro nobili rovine per giungere al determinismo scientifico di Marx, e rivendicare, a fianco di Lenin, la sua teoria della nuova Rivoluzione e della Dittatura.

Dittatura - ovvero persuasione. Aut-aut. Si ditta a chi non vi è tempo né modo di arrivare per consenso. E più il capitalismo incarognisce a vivere nella storia, più la sua fine è possibile soltanto col mezzo della forza.

La Ragione, nelle forme davvero allora vive e seducenti, ce lo condusse per mano. Quando la borghesia levava a quella gli altari, già i gloriosi precursori della Lega degli Eguali osarono contrapporre ad essa la Forza.

Quest'altro sfregio vi è oggi nelle proclamazioni del congresso russo, sotto le ultime menzogne del ritorno a Lenin e Marx. Non solo il passaggio al comunismo traverso la democrazia, ma addirittura traverso l'utopia.

Al XX congresso hanno stracciato anche il «Manifesto» del 1848. Nelle sue pagine sulla «letteratura» socialista e comunista di altre dottrine, esso segnò per sempre il distacco dall'utopismo della lotta operaia moderna. Non possiamo riportare i testi teorici di Marx e di Engels su tal punto. Basti qualche frase, in cui è dipinta la ingenua fallacia degli utopisti.

«Basta, secondo essi, capire il loro sistema per riconoscere che è il migliore possibile ordinamento della migliore società possibile».

«Essi disapprovano quindi ogni attività politica, vale a dire rivoluzionaria, vogliono raggiungere lo scopo con mezzi pacifici, e cercano quindi con piccoli e perciò inani esperimenti (concediamo che quello russo sia un esperimento in grande... di costruire capitalismo), con la potenza dell'esempio di aprire la strada al nuovo vangelo sociale».

Ogni tanto troviamo in castagna questi «scorridori del futuro» che, per avallare tradimento ed abiura, cianciano che nuovissimi portati abbiano creativamente forgiate forme prima ignorate di trapassi storici, deducono dalle modificazioni delle situazioni la revisione di formule che asseriscono sorpassate. Costoro finiscono invariabilmente della stessa fine, convinti di vergognoso passatismo, di codinismo il più ammuffito. Coi vostri risultati che hanno tanto emozionato i cultori delle novità di ultima ora, passate dunque, signori del XX congresso, di almeno centoventi anni indietro, e lasciateci appendere alla colonna infame delle ideologie retrogredienti, fallaci e nemiche le vostre trovate dì oggi; coesistenza, emulazione, competizione; blocco, nella omosessualità, della feconda e viva storia.

 

Nascita del contro-ottobre

Di tutto l'anti-stalinismo presentato al mondo restano dubitosamente in piedi solo i punti che abbiamo all'inizio di queste giornate già trattati: il «culto della personalità» e la «manipolazione della storia». Su tutto il resto si è solo andati nella direzione in cui affondava Stalin, e più sotto di lui, ma anche su quei due punti la rettifica non è affatto nel senso dell'ortodossia, e si deve riparlarne prima di chiudere l'epicedio sui sepolti nell'unica palude.

Si dichiara che Stalin mentì quando definiva i «mostri» trotzkisti come agenti dello spionaggio straniero. Dunque non lo erano. E che cosa erano allora? La riabilitazione è rimedio a casi singoli, individuali, di giudizio morale, penale, ma mai correzione di giudizio critico, storico.

Stalin, a detta delle riviste sovietiche odierne («Unità» del 15 aprile) avrebbe fatto male non a mentire (non è infatti teorizzabile che in certe contingenze il rivoluzionario non sia condotto a dover mentire) ma a rendere, con quelle atroci calunnie, meno chiara la «battaglia di idee» che fu condotta contro il «trotzkismo».

Ancora qui Stalin è un marxista più conseguente dei suoi correttori di oggi! Che significa lotta ideologica? Per il marxista non vi può essere lotta ideologica senza lotta politica, e senza che questa derivi dal gioco di forze di classe. Dunque la grande sterminazione, non di alcuni mostri, ma di un grande strato degli effettivi del partito bolscevico, dal momento che non ebbe a base l'influenza di assoldamento di Stati stranieri, deve altrimenti spiegarsi come urto di forze sociali. Stalin disse l'unica cosa che poteva dire, per non ammettere che il partigiano del movimento anti-rivoluzionario era, con tutti i suoi seguaci, proprio lui, essendo pacifico che egli non fu in presenza di sommosse contro il potere: dovette parlare di spionaggio, attentato, sabotaggio in grande stile. È dunque falloso dire:
«
Sbagliata fu la tesi di Stalin, secondo cui la lotta di classe si fa più acuta ogni volta che il paese socialista fa un passo avanti. Questa tesi prospettata nel 1937, allorché gli antagonismi di classe erano già scomparsi, portò alle ingiuste repressioni».

Per l'ennesima volta, Stalin mentiva meno anti-marxisticamente di costoro. Si trattò proprio di una fase di lotta di classe, in cui il grosso del partito e della sua dirigenza, con Stalin, ebbe la vittoria.

Come altrimenti spiegare che la rivista russa dica, come citato dall'«Unità»:
«
i trotzkisti, ecc., esprimevano gli interessi delle classi sfruttatrici che opponevano resistenza, e le tendenze degli strati piccolo-borghesi della popolazione»?

I massacrati del 1934 e 1937 esprimevano gli interessi delle classi proletarie internazionali contro la politica di distacco dello Stato russo dalla lotta proletaria mondiale, mascherata dalla menzogna dell'edificazione del socialismo: in tutto quanto resta delle loro dichiarazioni, accuratamente occultate dopo il soffocamento, e negli stessi discorsi del 1926, essi rivendicano la linea di Lenin che si tratta di passare ad una lunga lotta della dittatura proletaria contro le forze interne di classi piccolo-borghesi, sostenute dalla multipla influenza del capitalismo internazionale. Qui, per marxisti, sta tutta la controversia da risolvere.

Fu quella la grande svolta, il capovolgimento della lotta rivoluzionaria in Russia. La spiegazione di questo imponente episodio scoppiato nel sottosuolo storico non può, senza che Marx crolli, essere tratta da una canagliata, un errore, o una distrazione del nominato Stalin. La lotta fu quello che fu, ed è giusto dirla una lotta di classe, nella forma ideologica e in quella violenta. Il cadavere di Stalin non griderà se dovrà scegliere un posto. Ma quello stesso posto tocca ai suoi affossatori del XX congresso, che ben si guardano dal giustificare ideologicamente oggi gli assassinati di allora.

Il posto comune al morto e ai vivi è dunque uno solo: quello della controrivoluzione capitalista.

Proprio la controrivoluzione è «creativa», e le si scoprono, vivendo la storia, le più nuove e inattese forme e manifestazioni. In questo senso abbiamo molto appreso da mezzo secolo di tradimenti al proletariato socialista.

È la Rivoluzione che è una; ed è sempre lei, nel corso di un arco storico immenso che si chiuderà come si è aperto e dove ha promesso; dove ha appuntamento forse con molti dei vivi, ma certamente coi nascituri, come coi morti: questi sapevano che essa non manca mai, non inganna mai. Essa, nella luce della dottrina, è già scontata come cosa vista, cosa viva.

 

 

Note:


 

13. «Dialogato con Stalin». [back]


 

 

Giornata terza (sera)

  • Povera e nuda vai, filosofia
  • I dogmatici, i talmudici, ritornello di Josif
  • A voi scolaretti
  • Alzatevi, voi laggiù
  • Rumori fuori della classe
  • Losco impiego di Lenin
  • Che resta di intangibile
  • Come hanno arricchito Marx
  • Apporti bocciati di Stalin
  • La funzione del partito
  • Manuale dei principii
  • Schemetto elementare
  • Senso del determinismo
  • Dove le «garanzie»?
  • Cattiveria del l'uomo?
  • Ventata di ossigeno
  • Esperti da mercato
  • La prima Internazionale
  • La rivoluzione industriale inglese
  • Gli altri capitalismi
  • Legge dell'accumulazione
  • Marx e Gladstone
  • Gli estremi di un secolo
  • Prospetto statistico
  • Note

 

 

Povera e nuda vai, filosofia!

Nel rapporto svolto da Krusciov per il Comitato Centrale, testo base del XX congresso, dopo le corrosive critiche a decenni di lavoro teorico degli storici e degli economisti, sono stati colpiti a loro volta i «filosofi» di Stato. Che il marxismo vada considerato come una «filosofia» tra tante altre, ossia come tante altre, è cosa su cui abbiamo altra volta fatta ampia riserva, e quindi questo servizio governativo filosofico, di cui d'altra parte si proclama una bancarotta totale, non ci pare cosa assai seria.

Parli in ogni modo Krusciov:
«I compiti inerenti alla preparazione e all'educazione dei nostri quadri, negli istituti di insegnamento superiore e nella rete di studio del partito, rendono necessaria la creazione di un manuale di studio sui principii del marxismo-leninismo, in cui siano esposte in modo stringato, semplice e chiaro le più importanti tesi della dottrina marxista-leninista, e la preparazione di libri che illustrino in modo popolare i principii della filosofia marxista. Tali libri avrebbero grande importanza per la propaganda della concezione scientifica materialista, per la lotta contro la filosofia idealista reazionaria».

Da questa situazione emerge che per evitare che i super-professori delle accademie filosofiche dicano corbellerie, bisogna porsi a dirozzarli sulla base di manualetti, manco a dirlo «popolari», di propaganda contro le filosofie, ohibò, reazionarie.

I borghesi stessi da tempo hanno abolito i corsi di filosofia teoretica per sostituirli con quelli di storia della filosofia, e se si vuole delle filosofie. In qualunque schema si intende per filosofia reazionaria quella che faceva da sovrastruttura alle forme feudali di produzione: il fideismo. L'idealismo è la filosofia della rivoluzione borghese, ed i pretesi materialisti scientifici di Mosca se ne mostrano ad ogni passo impeciatissimi: altro che bollarlo dall'alto come reazionario, e orrore! - antipopolare. È desso, per eccellenza, la sola filosofia popolare.

Qui, nel paese di Krusciov, non funziona né la scuola popolare, né l'istituto magistrale, ne l'accademia suprema da cui escono i pedagoghi dei pedagoghi: meglio dire, in stile alla moda cosmopolita, i trainers, gli allenatori degli attivisti adibiti alla propaganda tra le masse.

In ogni modo ha detto lo storico congresso che questo apparato ha deviato: cerchiamo di vedere in qual senso.

Non è difficile trovare la chiave del quiz. Si tratta di fedeli allievi del maestrino di scuola di campagna Stalin, che nello stesso tempo lo squalificano come commissario all'istruzione popolare, e (forse inconsci) ripetono i pezzetti che fece loro mandare a memoria.

 

 

I dogmatici, i talmudici, ritornello di Josif

 

Chi qualcosa intende sa che tutto siamo fuor che «trotzkisti»; e pure ricorderemo qui che tutti ammettono essere stato Leone il più forte contemporaneo scrittore di lingua russa - del resto per scritti rivoluzionari poco preme la lingua nazionale, e può credersi che venga tolta di sacristia anche la «Linguistica» di Stalin, secondo cui la lingua madre «non è una sovrastruttura» e permane sovrana al mutare delle forme di produzione e dei rapporti di classe.

La forma di Stalin nello scrivere, senza essere debole né inabile, è, in modo insuperabile, pedestre. Ha uno stile da scuoletta elementare, appunto, e se vi pare da seduta di «lascia o raddoppia». Domandina e rispostina secca, con ripetizione in serie degna dei dischi microincisi.

Ora, se cerchiamo, da così lunghi discorsi di Krusciov, Mikoyan, Suslov, Scepilov ed altri minori, di tirare fuori il nuovo verbo filosofico del XX congresso, non ci troviamo altro tra le mani che tre o quattro parole di Stalin: dogmatico, talmudico, pedanteria, scolasticismo e simili, con cui tutti nel tono più monocorde colpiscono, qui non Stalin, ma un innumere gregge di filosofi e scienziati funzionari - e di capi politici - che accusano di mangiare a ufo lo stipendio. Contro questo deplorato andazzo tutti elevano bandiere - di antichissima conoscenza - che abbiamo visto in mano a tutti i veri «sgarratori»; realtà, vita, costruttività, concretezza, e se vogliamo proprio trarne fuori le più alte «nuove» tesi, troveremo solo queste, non meno fruste: il marxismo creatore, ossia quello che dir si può il marxismo «ricreato», e l'arricchimento del marxismo, fenomeni che si ripeterebbero ad ogni passo del cammino storico.

Orbene, dato che ci si irroga ultimativamente di essere chiari, semplici, e stringati, come quei polemisti riforniti in serie ai «quadri», siamolo.

Prendiamo noi la parte dei dogmatici, dei talmudici, anche degli scolastici e perfino dei pedanti; assumiamo la difesa di un marxismo che non crea mai niente di nuovo e costituisce una costellazione di precise tesi incrollabili, e rifiutiamoci risolutamente, unguibus et rostro, di darlo in preda a questi che lo vogliono arricchire, rivendicandolo rigido e povero come è nato non dalla inflessibile miseria di Marx ma dal grembo della storia, quando e soltanto quando doveva di lui essere gravida.

Coincide invece con periodi di controrivoluzione, di rinculo di classe, di storica lunga involuzione delle forme sociali, il discorrere vuoto dei creativisti, e pretesi creatori; dei rinvenitori vantati di ricche conquiste inedite, in quanto esso rimastica viete e miserabili formule di cui l'ultimo spacciatore fu Josif, e che mal travestono le notissime, colle quali il marxismo ha leoninamente lottato ai tempi - in ondate - di Proudhon, Lassalle, Bakunin, Dühring, Bernstein, Sorel, e della paurosa marea di fango del 1914, allorché, sopra tutti, un atleta, un gladiatore dell'ortodossia rivoluzionaria, fece mordere la polvere a quelli, innumeri, che volevano crearne le falsificazioni, arricchirla del prezzo giudaico dei tradimenti: Lenin.

 

 

A voi, scolaretti!

 

Fermiamoci a mostrare come gli allievi hanno nel sangue lo stile, il frasario, la maniera bolsa del maestrucolo.

Krusciov, anzitutto:
«Lottando contro le manifestazioni di negligenza nell'ulteriore elaborazione (!) della teoria marxista, noi non possiamo guardare alla teoria in modo dogmatico, come gente staccata dalla vita... la teoria non è una raccolta di formule e dogmi morti... ma una guida combattiva per l'azione... la teoria staccata dalla pratica è morta».
Non parlò diversamente da questo tono, e da quello dei passi che seguiamo a spigolare, nessuno dei capì proletari che passarono al servizio dei governi borghesi, della guerra nazionale. Ma anche nessuno di coloro fraseggiò così triviale, come questi d'oggi.

E dopo:
«Coloro che pensano che il comunismo possa essere costruito soltanto con la propaganda (ma la bestia è chi pensa ad una qualunque ricetta per costruirlo in cantiere come un manufatto borghese!) senza una lotta pratica per aumentare la produzione (una tessera al «fustigatore» delle classiche galere!) per elevare il benessere (dieci tessere alla scuola di Keynes!) costoro scivolano sulla via del talmudismo e del dogmatismo».

A voi, Mikoyan, demolitore di Josif:
«Il partito, il Comitato Centrale, applicano creativamente la teoria del leninismo nell'attuale fase di sviluppo della società e arricchiscono in pari tempo il marxismo-leninismo».

Di queste «ricchezze» sappiamo già molto: passaggio democratico del potere, imperialismo senza guerra, rinunzia alla violenza, disciplina costituzionale, imitazione delle vittorie del capitalismo come fabbrica di benessere, onesta gara con esso, cambiale firmatagli (oggi a Londra domani a Washington) di non sfotterlo più. Arricchite il marxismo un altro tantino (avete l'indice relativo nel Sesto Piano Quinquennale?), e lo avrete «mandato pezzendo»!

Mikoyan è troppo brillante per citarlo senza interrompere.
«La maggior parte dei nostri teorici non fa che ripetere e travestire in forme diverse citazioni, formule e tesi già note».
Scandalo enorme! Ma teoria che vuol mai dire? Vuol dire seguito ordinato di conclusioni; letteralmente «corteggio» di gente di cui una fila non scavalca l'altra. Questa critica può andare ai poeti, non ai diffonditori di dottrina organizzata. Ma sappiamo che fanno schifo soprattutto gli artisti: lo dice altrove lui stesso, Mikoyan. E prosegua.

«Può esistere scienza senza creazione? No, senza creazione si fa soltanto lo scolasticismo, l'esercitazione scolastica, non la scienza, che è anzitutto creazione, costruzione del nuovo, e non ripetizione del vecchio».

Se dovessimo noi poverini scrivere il manuale di filosofia marxista (da Mosca con questi prodromi è sicuro che verranno manuali scritti... coi piedi) vi accoglieremmo questa ben trovata formula; Scienza è ripetizione del vecchio. Quanto alla «scolastica» scriveremmo che è quella filosofia che si incardina sulla «creazione»; e senza creazione lo scolasticismo finisce. La teoria della creazione la mettiamo in ordine così. Dubitiamo che Dio abbia creato Mikoyan: questi poi non ha creato nulla; a meno che non si legga quello che dice alla rovescia.

«Il XX congresso darà un serio impulso ai militanti del fronte ideologico (un fronte ove anche il caporale è invitato a militare improvvisando le mosse!) perché si accingano ad un lavoro creativo... arricchiscano il patrimonio ideale del marxismo-leninismo... (ed infine, in una terza battuta, creata... ruminando) per assicurare l'arricchimento creativo del marxismo».
Febbre di originalità!

 

 

Alzatevi voi, laggiù!

 

Basta, chiamiamo quelli dei banchi di dietro. Suslov:
«Il nostro lavoro si svolge... in una ripetizione meccanica di note formule e tesi, con il risultato che si formano dei pedanti, dei dogmatici, staccati dalla vita. La nostra propaganda era prima rivolta verso il passato, verso la storia (!), a scapito dell'attualità».
Ci siamo, per tutti i diavoli! Ecco un autentico emulatore delle disgustose mode dei parvenus borghesi, che non sanno un canchero, ma sono in grado di batterci con il loro idiota quesito: ah, non sapete l'ultima? Tenetevi aggiornato!

«Il partito non ha mai tollerato il dogmatismo, ma la lotta contro di esso ha oggi assunto una particolare acutezza».
E qui un grido del cuore, in cui è tutta la magagna del carrierismo, della corsa personale a «sfondare»:
«Non vi ha dubbio che alla diffusione del dogmatismo e della pedanteria ha fortemente contribuito il culto della personalità. I fautori di questo culto hanno attribuito lo sviluppo della teoria marxista soltanto ad alcune persone che seguivano ciecamente. Il solo compito degli altri mortali (chi erano costoro, dunque?) era quello di assimilare e popolarizzare le creazioni di questi singoli».

Magnifico! Questi signori hanno deciso di liquidare le «alcune persone». Ma non sanno recitare che la stessa lezione. Se hanno assimilato! Se hanno popolarizzato! Intanto disonorano Stalin, in quanto il peggio che lui dettò lo portano inchiodato nelle testucole proprio quando vaneggiano: via, largo a noi, vogliamo creare anche noi. Jehova, non sei che un miserabile demiurgo! dice il classico diavolo, esule sulla terra, di Anatole France.

Si «allinea» lo Scepilov: quando questi impazienti «creatori», tenuti finora al guinzaglio, ci porteranno un pugno di farina del proprio sacco? Essi non fanno che profittare del fatto che il maestro è stato imbalsamato, e non può urlare: zero in profitto: compito copiato parola per parola!

«Noi comunisti marxisti non siamo dei passivi custodi dell'eredità marxista-leninista, non siamo degli archivisti dell'ideologia (bravi! Siete eredi che per non essere volgari custodi dell'asse paterno lo arricchiscono mangiandoselo fino all'ultimo spicciolo!). Il lavoro ideologico non legato ai compiti vitali dell'edificazione economica e culturale si trasforma o in una ripetizione talmudica e dogmatica di note verità e tesi, oppure in vaniloquio e incensamento». Nella prima «giornata» abbiamo dato al lettore un modico saggio di «incensamento» a Stalin svolto da tutti i nominati suoi discepoli «ad litteram» di antitalmudismo e antidogmatismo.

Si chiude, o non piuttosto si inizia più fertile, la stagione del vaniloquio?

 

 

Rumori fuori della classe

 

Se tutti questi fedeli allievi hanno con mossa uniforme dato mano ad estintori della stessa marca, e lanciato getti della stessa equivoca schiuma, una ragione vi è certamente. Tutto non è morto nella Russia della Rivoluzione, ed una fiamma vi arde ancora! Vi sono ancora vecchi marxisti, compagni di lotta di Lenin, e di tutti gli altri che oggi con gesto supremamente farisaico sono «riabilitati», autentici bolscevichi di razza, credenti nel dogma della rivoluzione che travalica ogni frontiera: è viva nella giovane generazione la tradizione incancellabile di tutta questa dinamica del «passato», dinanzi al quale lo stamburato presente è sinistro, pallido e vile.

Vi sono fastidiose, pedanti, citazioni di Marx, Engels, Lenin, anche se da anni sono «illegali» quelle di altri teorici del calibro di Trotzky, Zinoviev, Bucharin. Vi sono ancora dei compagni che hanno fede in un archivio, e che non credono di «staccarsi dalla vita» alimentandosi alla storia della lotta mondiale del bolscevismo, quando i suoi traguardi erano Berlino e Vienna, Parigi e Roma, ed era sua la leniniana alternativa: nel mondo, o dominio della borghesia, o del proletariato! Nessuna via di mezzo!

Vi sono ancora, per fortuna, e per legge storica, dogmatici credenti in quanto Lenin scrisse e promise; e anche se quelle formule fossero ripetute con ingenuità, e cecità perfino, essi starebbero più in alto della congressuale cucina di atteggiamenti su misura, colle sue vomitive ricette moderne, ed occhiute.

La stessa stentata difesa, da parte dei «creativisti», di una residua fedeltà dottrinale, nel suonare falsa e stonata, conferma questa situazione.

Krusciov.
«Salvaguardare scrupolosamente la purezza della teoria marxista, condurre una lotta decisa contro le sopravvivenze dell'ideologia borghese nella coscienza degli uomini».
Suslov:
«Il marxismo leninismo deve svilupparsi... rispettando i suoi principii intangibili, lottando in modo intransigente contro tutti i tentativi di revisionarli».
E così anche altri, dai banchi.

Altrettanto suona falso il tentativo poco fortunato di salvarsi, dopo aver tanto deplorato il considerare sacri i testi, con citazioni di Lenin, che si pretende di truccare come autore di tante «creazioni» infauste, a lui posteriori (ed oggi si confessa che a tale solo fine si è fatta una selezione; ed una grande massa dei suoi scritti è rimasta fuori dalla gigantesca Organizzazione per darne l'Opera Omnia).

Anche qui gli scolaretti mostrano la corda. La citazione base, più che sfruttata, è copiatissima da Stalin, e col sistema classico di Stalin.

 

 

Losco impiego di Lenin

 

È il vero sistema dei rigattieri della dottrina: indicare un volume della serie ufficiale, ed una pagina del volume, essendo certi che purga e censura hanno vagliata tutta l'edizione, come quando il cattolico cita il testo canonico degli Evangeli. E tacere ad arte la data e il tema dello scritto, ossia il suo sfondo storico, la direzione di battaglia in cui lo scrisse chi non era un costruttore di archivi, ma un lottatore, lui sì, dell'azione rivoluzionaria; Quando Lenin ha scritto (14) queste parole (salvo controllo):
«Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualche cosa di completo e di intangibile: siamo convinti soltanto che essa ha posto soltanto le pietre angolari di quella scienza che i socialisti devono fare progredire in tutte le direzioni, se non vogliono restare indietro dalla vita. Noi pensiamo che per i socialisti russi sia particolarmente necessaria un'elaborazione indipendente della teoria di Marx, poiché questa teoria ci dà solo le tesi direttive generali, che si applicano in particolare all'Inghilterra in modo diverso che alla Francia, alla Francia in modo diverso che alla Germania, alla Germania in modo diverso che alla Russia»?

Lenin era allora in fiera lotta con due ali del movimento anti-zarista russo: i populisti che rifiutavano di ammettere il marxismo, pretendendo che in Russia avessero compito socialista i contadini proprietari, e non gli operai - i «marxisti legali», che, colla solita versione dell'Inghilterra economica, e dell'Europa politica, deducevano, dal marxismo, la conclusione che in Russia, per lottare contro le imprese capitaliste, occorreva tenere una legalità neutrale verso il governo autocratico. A Lenin occorreva da allora costruire il metodo rivoluzionario che unisse l'azione immediata colle armi agli scopi proletari classisti, e poneva contro coloro le basi del suo monumentale edifizio storico.

Lenin giovane non poteva sapere, come noi, da Lenin adulto, che la teoria è proprio dall'origine «completa e intangibile», e che chi di leggeri ne molla un lembo, la perde tutta. Comunque già nella sua formula giovanile sono poste al centro della teoria di Marx le pietre angolari e le direttive generali valide ovunque. Quali sono queste? L'opera intera e la vita di Lenin rispondono, e non due frasi.

Quali, domanderemo al lontanissimo discendente Scepilov, sono dunque i «principii intangibili» anche in sede di creatività e di arricchimento? Che cosa è rimasto in piedi, per il XX congresso, delle pietre angolari di Lenin?

A questo modo sleale di citare Lenin abbiamo contrapposto lo studio in ordine storico dei suoi scritti, nello svolgimento della lotta rivoluzionaria di Russia, ed i lettori vi troveranno, ad esempio, abbastanza a proposito della frottola di Mikoyan e C., di mano staliniana, sulla posizione di Lenin nel 1917 per una pacifica conquista del potere.

Qui ci basta dire che, come tutte le citazioni maneggiate al XX congresso sono di seconda mano da Stalin maestro (mentre proprio in forza di esse si pretende di lasciare Stalin per tornare a Lenin!), così quella prima data l'abbiamo presa dal discorso dello stesso Stalin al XVIII congresso, tenuto come già abbiamo detto il 10 marzo 1939.

 

 

Che resta di intangibile?

 

Il nostro diritto di tenerci Lenin dalla banda dei «dogmatici» sta nel fatto che egli stesso, fin che visse, tenne questo termine come titolo d'onore, e come contrapposto di opportunista e di «libero critico».

Il primo capitolo del classico «Che fare?», che è del 1902, si intitola appunto: «Dogmatismo e 'libertà di critica'». È tutto un attacco contro il revisionismo russo e internazionale, e la nota a piè di prima pagina dice proprio:
«Ai nostri giorni fabiani inglesi, ministeriali francesi, bernsteiniani tedeschi, critici russi si armano insieme contro il marxismo 'dogmatico'. È la prima battaglia veramente internazionale con l'opportunismo socialista».

Nell'esposizione della questione agraria, e nel mostrare l'ortodossia marxista di Lenin in questa, abbiamo altra volta riprodotta (da «La questione agraria e i critici di Marx», 1901) il passo di apertura e l'invettiva a Cernov, che vantava di avere sloggiato il «marxismo dogmatico» dal campo delle questioni agrarie. Questo marxismo dogmatico, Lenin scrive, ha una strana proprietà: gli scienziati lo danno sempre per morto, e poi ricomincia il bombardamento contro di esso...

Successivamente la vecchia bombarda è passata nelle mani di Stalin, che di suo ha, genialmente, creato il supplemento: talmudico - poi a quelli del XX congresso che, per quanto in isterica fregola di arricchire, non hanno creato nient'altro.

A noi preme solo stabilire che facendo nostra questa bandiera del dogmatismo, non ci attribuiamo il merito di nessuna creazione, e tampoco arricchimento della teoria, e nemmeno della teoria e storia dell'opportunismo, tabe inesausta.

Eppure dalle manacce di Stalin si salvava ancora qualcuna delle «pietre angolari», e qualche principio veniva ancora lasciato intatto; mentre è chiaro che per i guanti glacés dei messi viaggiatori del XX congresso di intangibile non resta nulla, se, come da titolo dell'«Unità», Eden ha loro degnamente «donné la réplique» della pacifica coesistenza, colle storiche parole: «il mondo oggi può sentirsi più sicuro»!

Infatti in quello stesso testo Stalin non può non citare di nuovo Lenin nelle parole (Opere - quasi - Complete, XXI, 393):
«Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono, in un modo o nell'altro, ma in ultima analisi obbligatoriamente una dittatura della borghesia (qui ha sottolineato lui, ossia non noi: Lenin, o lo stesso Stalin!). Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può che dare un'enorme abbondanza e varietà di forme politiche; ma la sostanza sarà inevitabilmente la stessa: la dittatura del proletariato (id. come sopra)».

Malafede porca dunque quando si dice che resta un qualche cosa, che non si vuole toccare, revisionare, ricreare, arricchire. E chi doveva essere il più pacchiano, e dire:
«la via che voi russi, fedeli agli insegnamenti di Lenin, avete seguita, non è obbligatoria per gli altri paesi»?

Domanda facile facile; una lira per la risposta esatta: il delegato del partito italiano.

 

 

Come hanno arricchito Marx

 

I compagni di Francia hanno procurata, con salvataggio in extremis, una copia della seconda edizione del «Manuale di Economia politica», «achevé d'imprimer le 17 mars 1956»... pour vivre l'espace d'un matin; a cura dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, Istituto di Economia.

Testo stalinista spaccato, con mezza mole dedicata all'«economia politica del modo socialista di produzione». Può anche darsi che tutto ciò resti ufficiale, ma non quanto ne andiamo a trarre per chiudere questa questione dell'evolvere della teoria.

Prefazione: dato il loro a Marx ed Engels, bene o male formulando, a Lenin si attribuisce di avere arricchita la scienza economica marxista con la teoria dell'imperialismo, fornendo
«i primi elementi della legge economica fondamentale del capitalismo moderno».
Che è ciò? Una legge che Marx non sognava nemmeno, e lasciò la cura di scoprire in pieno... a Stalin. Lenin poi è l'autore di una teoria nuova, completa, della rivoluzione socialista (si capisce salvo a vederne una più nuova di Stalin, e di Krusciov-Togliatti). Egli avrebbe poi data una soluzione scientifica ai problemi dell'edificazione del socialismo e del comunismo... e dopo tanto non ci stupisce che tra gli accademici di alto livello che hanno steso il testo vi sia il nostro Scepilov.

Infatti, a scanso di incensamenti, si aggiunge dopo che
«Stalin, il grande compagno d'armi e il discepolo di Lenin, ha formulato e sviluppato un certo numero di nuove tesi» (!).

Le ulteriori, però, crediamo che l'Accademia le metterà a concorso con banda internazionale.

Naturalmente (a pag. 287 e segg.) vi è il capitolo sulla legge di ineguale sviluppo. Vi è la formidabile bugia che
«Marx ed Engels, studiando a metà del secolo XIX il capitalismo premonopolista (vedi sopra la nostra citazione di Lenin sul capitalismo unico, di cui l'imperialismo è semplicemente una «soprastruttura», politica, militare, dittatoriale, prevista in tutto da Marx), furono condotti a concludere che la rivoluzione socialista non poteva vincere che simultaneamente in tutti i paesi o nella maggior parte dei paesi civilizzati».
Lenin sarebbe arrivato poi alla conclusione che la vecchia formula di Marx ed Engels non rispondeva più alle condizioni storiche, e non solo che la rivoluzione socialista poteva trionfare in un solo paese, ma perfino (udite!) che la vittoria in tutti i paesi o nella più parte di essi era impossibile (!!!) Ne abbiamo dunque sentite balle da quel filone di Vladimiro Lenin negli anni dopo il 1918, in cui per poco non ci prese tutti a sante pedate perché non gli portavamo la rivoluzione in tutta la Europa! Ma se aveva scientificamente scoperto che era impossibile? Per la legge dell'ineguale sviluppo?!

Sapete la legge dell'ineguale sviluppo delle accademie? Stalin non la doveva sapere: sta in una commedia italiana del buon Ferrari, ottocentesca: le accademie si fanno, oppure non si fanno!

Dobbiamo propinarvi altra prosa accademica. Nel pasticcio che segue, Lenin figura avere scoperto che nel periodo imperialista i paesi capitalistici formano una catena più stretta, e che la rivoluzione può afferrare l'anello più debole. Bene, ma a qual fine? Per dichiarare agli altri che è impossibile spezzarli? Per questo ci vuole Stalin e peggio di Stalin, ci vuole Krusciov, Scepilov, Togliatti o Thorez. Una successiva palinodia attribuisce a Lenin una visione del cammino della rivoluzione mondiale, che è propinata come anticipo del metodo di distaccare satelliti per la Russia dal «campo imperialista».

Ma oggi perfino quelli, auspice Tito, pare si vogliano mollare, usare come zavorra!

Comunque qui si gioca sempre sull'equivoco fra trionfo della rivoluzione politica e trasformazione economico-sociale e si avanza coperta la carta falsa dell'edificazione dell'economia socialista, del socialismo «prefabbricato».

 

 

Apporti bocciati di Stalin

 

Alla fine della parte sull'economia capitalista il «Manuale» fa proprie le tesi di Stalin che hanno dato sui nervi a Mikoyan. Per Stalin la crisi storica finale del capitalismo si è riaperta dopo la seconda guerra mondiale, ed è richiamata la formula della sottoproduzione cronica delle aziende capitaliste e della disoccupazione permanente; tesi imprudenti che al XX congresso, mano tesa alla scienza economica di occidente, vengono - esse sole - decisamente rimangiate.

Ne segue che il «Manuale» verrà ritirato e rifatto, come al congresso è stato annunciato; e che la stessa sorte dovrà avere il Programma del Partito russo.

Noi riteniamo che tutta la parte di falsa dottrina economica staliniana resterà, peggiorata, in piedi, ossia la descrizione della società russa come tipo di economia socialista. Resteranno in piedi l'apocrifa nuova teoria di Lenin sulla rivoluzione socialista, e di Stalin sull'economia, in cui le classi del proletariato e dei contadini figurano come classi definitivamente amiche, nella lotta politica come nell'«edificazione» economica.

Di passo in passo il «Manuale» cita le ben note dette frasi degli scritti di Lenin, per farne il governo triste che sappiamo.

Il lato più insidioso dello svolto tracciato al XX congresso consiste nel preteso ritorno ad un legame, più stretto che al tempo di Stalin, colla dottrina di Marx e Lenin. Ma questa viene trattata nella stessa maniera, che sotto Stalin e da tutta la banda è stata introdotta. È prevedibile senza dubbio alcuno che il passo che si fa oggi verso la dichiarazione di un'identità ideologica e di programmi sociali coi paesi capitalistici, verso quella che da anni noi abbiamo chiamata la Grande Confessione, sarà presentato con argomenti teorici tratti alla scuola marxista: ed infatti si dichiarerà un rapporto sostanzialmente autentico. Ma storicamente e politicamente sono andati nello stesso senso i due trapassi: dalla dichiarazione al capitalismo di volerlo abbattere ovunque sul fronte di classe, a quella di voler coesistere con esso sul fronte degli Stati, pure ritenendo che l'imperialismo lo conducesse alla guerra e al crollo - e poi da questa posizione a quella dell'emulazione pacifica e di confronto, nella previsione della definitiva pace degli Stati, e della interna pace democratica delle classi in ogni Stato.

L'uno e l'altro svolto storico danno per noi ragione a Marx e a Lenin. Ma è inevitabile, per quanto orripilante, che in tutto questo ancora per molto le pagine grandiose di Lenin, e anche di Marx, servano da foglie di fico sulle patologiche vergogne di un nuovo e più infame opportunismo, che grazie al fascino di quei nomi tenterà una volta di più di trascinare nell'abisso il proletariato mondiale. 

 

 

La funzione del partito

A leggere i discorsi di Mosca sembra che una almeno delle pietre angolari di Marx e di Lenin resti al suo posto: la necessità e la funzione di prima linea del partito politico di classe.

La questione del partito e dei suoi rapporti con lo Stato fu al centro della lotta spietata con l'opposizione russa. Mentre questa reagiva al fatto che con l'apparato statale e la sua polizia si colpivano e mettevano fuori combattimento i membri del partito comunista, che doveva nello Stato essere considerato il portatore della dittatura di classe, e il vero «soggetto di sovranità», al solito si insultarono Trotzky e Zinoviev come quelli che volevano rompere il partito nella sua unità, e sabotarlo. Essi risposero fieramente rivendicando la dottrina di Marx e di Lenin sulla natura e la funzione del Partito politico di classe, cui erano stati da sempre fedeli.

Oggi, mentre nulla si dice (e pure Stalin affrontava nei precedenti congressi, per quanto infrequenti, il problema) sulla questione dello Stato e della sua permanenza massiccia, mentre contraddittoriamente si pretende di avere raggiunta una società senza classi destinate a sparire, e «oggetto di sovranità», oggi si afferma però ancora, e dopo avere trovato fra tutti il solito la, perfino pappagallesco, che il partito deve continuare ad essere l'organo supremo che maneggia, giuste le sue direttive programmatiche e le sue decisioni, la macchina statale.

Ma è chiaro che anche questa posizione si va scomponendo. Il sintomo si trova facilmente tra i caudatari dell'estero. Infatti come mantenere tal punto, e lanciare oltre frontiera, colle altre, la parola d'ordine di rimediare alle scissioni leniniste, ricostituendo l'unità dei partiti «operai», e traendo nel loro fronte anche quelli delle classi medie? La labilità anche in questo delle enunciazioni date a Mosca emerge dal contegno dei seguaci più cinici. Il peggio viene dall'Italia, al solito. Nenni ha fatto dure dichiarazioni su quello che, per lui e per la sua corta visione, forma il nuovo corso: nella stessa sua trivialità ha detto il vero. Non è al grado coi suoi pari di avere scrupoli teorici, e neppure ha e sa tanto da simularli.

Il concetto del rapporto tra partito e Stato, che è tutto solidamente contenuto nei testi marxisti e nella storia della lotta di classe, dal «Manifesto» in poi, viene scosso da coppie di calci.
«Il concetto leninista della funzione dirigente del Partito nello Stato è ancora valido? È ancora il partito lo strumento adeguato» per guidare la vantata azione creativa delle masse? «Deve il partito stare, come sta, sopra lo Stato, anche nella gerarchia che colloca (ma vedete un po' che roba!) il segretario del partito prima del Presidente del Consiglio?».

La risposta è data senza esitare: il partito deve cessare di essere unico, deve allo stesso grado di ogni altro tornare sotto lo Stato parlamentare, e peggio, questo deve sottostare, più che al succedersi democratico dei partiti, alla superiore guida di una magistratura togata.

Queste cretinerie togate sono il colmo del ridicolo che la penosa vicenda di Russia attira, insieme all'infamia, sulle conquiste proletarie circa il partito, lo Stato, la dittatura, che splendevano trent'anni addietro di luce abbagliante, e che oggi si annebbiano se solo ondeggia la coda di un quadrupede ragliante.

 

 

Manuale dei principii

 
 

Non è giusto dire che il guazzabuglio ideologico venga solo da oltre cortina. La miseria teorica è insita nel trapasso che il XX congresso ha sbandierato tra la direzione personale di Stalin, sostenuta dal culto della personalità, e la nuova direzione collegiale, legata non si sa poi come ad una nuova legalità comunista nello Stato e alla democrazia interna nel partito. Qui non una sola parola è nel suo luogo, e questa lotta al culto della personalità non ci darebbe alcun motivo di soddisfazione, anche se non fosse, come abbiamo dimostrato all'inizio, soltanto una nauseante commedia.

Che mai vuol dire culto della personalità, e chi mai lo ha instaurato e affermato, in Russia o altrove? È veramente esistito questo strapotere individuale? Esso altro non è che una frottola romanzata al solo fine di diffamare il sano e robusto concetto della dittatura, che si vuole da filistei ridurre a quello dell'imposizione autocratica. Il fideista riserva il culto a figure di oltre natura ed oltre vita, e non divinizza il capo sociale. L'illuminista e l'idealista critico smontano l'autorità che sia trasmessa dal potere ultraterreno a un uomo che, anche se è Re travicello, personifica un istituto superato: mettono tutti sullo stesso piano di partenza, divinizzano se mai la volontà popolare, il dubbio personaggio di Demos. Il marxismo, e qui avreste bisogno del trattatino storico-filosofico, non fa pernio né su una Persona da esaltare, né su un sistema di persone collettivo, come soggetti della decisione storica, perché trae i rapporti storici e le cause degli eventi da rapporti di cose con gli uomini, tali che si portino in evidenza i risultati comuni a qualunque singolo; senza pensare più ai suoi attributi personali, individuali.

Siccome il marxismo respinge come risolvente della «questione sociale» ogni formulazione «costituzionale» e «giuridica» premessa alla concreta corsa storica, così non avrà preferenze e non darà risposta alle questioni mal messe: deve decidere tutto un uomo, un collegio dì uomini, tutto il corpus del partito, tutto il corpus della classe? Anzitutto non decide nessuno, ma un campo di rapporti economico-produttivi comuni a grandi gruppi umani.

Si tratta non di pilotare, ma di decifrare la storia, di scoprirne le correnti, e il solo mezzo di partecipare alla dinamica di esse, è di averne un certo grado di scienza, cosa assai diversamente possibile in varie fasi storiche.

E allora chi meglio la decifra, chi meglio ne spiega la scienza, l'esigenza? Secondo. Può essere anche uno solo, meglio del comitato, del partito, della classe. E consultare «tutti i lavoratori» non fa fare più passi che consultare tutti i cittadini colla insensata «conta delle teste». Il marxismo combatte il laburismo, l'operaismo, nel senso che sa che in molti casi, nella maggior parte, la delibera sarebbe controrivoluzionaria ed opportunista. Oggi non si sa se il voto andrebbe alla padella o alla brace: Stalin o gli Anti-stalin. Difficile perfino escludere che sarebbe la seconda la fregatura maggiore. Quanto al partito, anche dopo la sua elezione da quelli che per principio negano le «pietre angolari» del suo programma, la sua meccanica storica neppure si risolve con «la base ha sempre ragione». Il partito è un'unità storica reale, non una colonia di microbi-uomo. Alla formula che dicono di Lenin di «centralismo democratico» la sinistra comunista ha sempre proposto di sostituire quella di centralismo organico. Quanto poi ai comitati, moltissimi sono i casi storici che fanno torto alla direzione collegiale: non qui dobbiamo ripetere il rapporto tra Lenin e il partito, Lenin e il comitato centrale, nell'aprile 1917 e nell'ottobre 1917.

Il migliore detector delle influenze rivoluzionarie del campo di forze storiche può, in dati rapporti sociali e produttivi, essere la massa, la folla, una consulta di uomini, un uomo solo. L'elemento discriminante è altrove.

 

 

Schemetto elementare

 

È noto che siamo schematici. Possono vedersi al riguardo le tesi dei congressi comunisti italiani e mondiali, sostenute dalla sinistra al tempo dell'Internazionale Comunista. Si videro anche rivolte sanissime di partiti ai comitati, come alla conferenza illegale del 1924 nelle Alpi del Partito Comunista d'Italia, da oltre un anno tenuto dalla corrente centrista: non solo votò per l'opposizione di sinistra la grandissima maggioranza degli iscritti, ma perfino quella dell'apparato centrale. Nessuno si meravigliò da nessuna parte e il comitato non «cadde» per questo. È caduto per ben altre vie: comanda ancora, con Stalin e senza.

Dunque la questione dell'azione e di che cosa la guida (?) si può ridurre in tre tempi principali.

Apparizione di un nuovo modo di produzione, come quello capitalista industriale. Rivoluzione politica con cui la classe che in esso controlla i mezzi di produzione va al potere, e fonda il suo Stato. Apparizione della classe che in quella nuova forma dà la propria opera senza partecipare al controllo sociale: il proletariato. Il concetto di classe per Marx non è in questa constatazione descrittiva, ma nel manifestarsi di azioni comuni (che sono determinate da comuni condizioni) in primo tempo non volute né deliberate da nessuno. Formazione di una nuova teoria-programma della società, che si oppone a quella apologetica della classe dominante. Solo da questo punto (si capisce con infinite complicazioni, avanzate e rinculi) abbiamo la «costituzione del proletariato in partito politico», e solo da questo momento una classe storica. Quindi, condizioni storiche perché agisca una nuova classe: teoria - organizzazione politica di classe.

Secondo stadio. Con queste condizioni la nuova classe conduce la lotta per scacciare l'altra dal potere. Nel caso che esaminiamo, costituzione del proletariato in classe dominante. Distruzione del vecchio Stato. Nuovo Stato. Dittatura di classe, il cui soggetto è il partito. Terrore (anche la rivoluzione borghese ha avuto tali fasi, come ogni rivoluzione).

Terzo stadio. Transitorio in senso storico ma lungo e complesso. Sotto la dittatura del partito sono successivamente infranti i rapporti di produzione difesi dalla vecchia classe, e che sbarravano la via a nuove forze produttive. Vengono gradualmente estirpate le influenze ideologiche di ogni natura e di costume cui la classe proletaria era soggetta. Le classi spariscono, dopo la rivoluzione del proletariato moderno, ma prima di sparire seguitano a lottare, in posizione rovesciata. Con esse sparisce l'apparato di forza dello Stato.

Tutto questo sembra inutile ripetizione. Abbiamo messi un momento tutti i pezzi bianchi e neri al proprio posto per farci fare la domanda antica: dove prendiamo la coscienza, la volontà, la «guida» dell'azione? E, se volete, l'autorità? Non abbiamo lasciato nessun pezzo disoccupato, fuori della scacchiera.

Nel citare Lenin non si sono accorti di una magnifica sua costruzione, che giunge a ben altro, che al... Comitato Centrale (15).
«La classe operaia... nella sua lotta in tutto il mondo... necessita di un'autorità... nella misura in cui il giovane operaio necessita della esperienza dei combattenti più anziani contro l'oppressione e lo sfruttamento... dei combattenti che hanno preso parte a molti scioperi e a diverse rivoluzioni, che hanno acquistato saggezza per le tradizioni rivoluzionarie ed hanno quindi un'ampia visione politica. L'autorità della lotta mondiale del proletariato è necessaria ai proletari di ogni paese... Il corpo collettivo degli operai di ogni paese che conducono direttamente la lotta sarà sempre la massima autorità su tutte le questioni».

Il centro di questo passo sono i concetti di tempo e di spazio portati all'estensione massima; tradizione storica della lotta, e campo internazionale di essa. Noi aggiungiamo alla tradizione il futuro, il programma della lotta di domani. Come si convocherà da tutti i continenti e sopra tutti i tempi questo corpus leniniano, cui diamo il potere supremo nel partito? Esso è fatto di vivi di morti e di nascituri: questa nostra formula non l'abbiamo dunque «creata»: eccola nel marxismo, eccola in Lenin.

Chi ciancia ora di poteri e di autorità affidate a un capo, a un comitato direttivo, a una consultazione di contingenti corpi in contingenti territori? Ogni decisione sarà per noi buona se starà nelle linee di quella ampia e mondiale visione. Può coglierla un occhio solo, o milioni di occhi.

Questa teoria eressero Marx ed Engels, da quando spiegarono contro i libertari, in quale senso sono autoritari i processi delle rivoluzioni di classe, in cui l'individuo sparisce, come quantité negligeable, coi suoi capricci di autonomia, ma non si subordina a un capo, a un eroe, o a una gerarchia di passati istituti.

Altro che la storia fasulla e meschina degli ordini feroci e sinistri di Stalin, e della riverenza per lui, fattori che avrebbero costruito, a creder dei gonzi, decenni di storia!

 

 

Senso del determinismo

 

Per il determinismo conta nulla la coscienza e la volontà di un individuo: la sua azione è determinata dai suoi bisogni e dai suoi interessi, e poco importa come egli formuli la spinta che egli crede, a cose fatte, avere svegliata la sua volontà, di cui si accorge in ritardo. Questo vale per quelli in basso e in alto, miseri e ricchi, umili e potenti. Dunque non troviamo noi marxisti nulla nella persona, nelle persone; e nella «personalità», povera marionetta della storia, tanto meno. Più è nota, da più fili è tirata. Per il nostro grandioso gioco essa non è un pezzo, nemmeno una modesta pedina. Ma negli scacchi v'è il Re? Si, colla sola funzione di farsi fottere.

Nella classe l'uniformità, il parallelismo di situazioni crea una forza storica, una causa di sviluppo storico. Ma l'azione precede egualmente la volontà, e più la coscienza di classe.

La classe assurge a soggetto di coscienza (di fini programmatici) quando si è formato il partito, e si è formata la dottrina. Nel cerchio più stretto che è il partito, come organo unitario, si comincia a trovare un soggetto di interpretazione del cammino storico, delle sue possibilità e strade. Non sempre, ma solo in certe rare situazioni dovute a pienezza dei contrasti nel mondo della base produttiva, nel soggetto «partito» ammettiamo, oltre alla scienza, anche la volontà, nel senso di una possibilità di scelta tra atti diversi, influente sul moto degli eventi. Per la prima volta la libertà, non dignità di persone, appare. La classe ha una guida nella storia in quanto i fattori materiali che la muovono si cristallizzano nel partito, in quanto questo possiede una teoria completa e continua, un'organizzazione a sua volta universale e continua, che non si scomponga e componga ad ogni svolta con aggregazioni e scissioni; queste sono però la febbre, che costituisce la reazione di un simile organismo alle sue crisi patologiche.

 

 

Dove le «garanzie»?

 

Dove dunque trovare le garanzie contro la degenerazione, il disfacimento del corso del movimento, del suo partito? In un uomo è poco; l'uomo è mortale, è vulnerabile dai nemici. È, se unico, pessima fragile garanzia, anche se in un solo la si credesse mai insita.

Prenderemmo tuttavia sul serio il gran vantare di avere trovato la garanzia collegiale, dopo la scomparsa di un capo, che dirigeva a suo arbitrio? Tutto ciò non è serio. In Russia tutto è stato perduto, e nulla resta da salvare. Comunque il disfacimento sotto Stalin mostra lati meno deteriori di quelli che ora, deviando da lui, si vengono mostrando, mentre delle sue magagne nulla si vede, e non si potrebbe vedere, corretto.

Le nostre garanzie sono note e semplici.

1. Teoria. Come abbiamo detto non nasce in una fase storica qualunque, né attende per farlo l'avvento del Grande Uomo, del Genio. Solo in certi svolti può nascere: delle sue «generalità» è nota la data, non la paternità. La nostra dovette nascere dopo il 1830 sulla base dell'economia inglese. Essa garantisce in quanto (anche ammettendo che l'integrale verità e scienza sono obiettivi vani, e solo si può avanzare nella lotta contro la grandezza dell'errore) la si tiene ferma nelle linee dorsali formanti un sistema completo. Durante il suo corso storico ha due sole alternative: realizzarsi o sparire. La teoria del partito è un sistema di leggi che reggono la storia e il suo corso passato, e futuro. Garanzia dunque proposta: niente permesso di rivedere, e nemmeno di arricchire la teoria. Niente creatività.

2. Organizzazione. Deve essere continua nella storia, quanto a fedeltà alla stessa teoria e alla continuità del filo delle esperienze di lotta. Solo quando ciò per vasti spazi del mondo, e lunghi tratti del tempo, si realizza, vengono le grandi vittorie. La garanzia contro il centro è che non abbia diritto a creare, ma sia obbedito solo in quanto le sue disposizioni di azione rientrino nei precisi limiti della dottrina, della prospettiva storica del movimento, stabilita per lunghi corsi, per il campo mondiale. La garanzia è che sia represso lo sfruttamento della «speciale» situazione locale o nazionale, dell'emergenza inattesa, della contingenza particolare. O nella storia è possibile fissare concomitanze generali tra spazi e tempi lontani, ovvero è inutile parlare di partito rivoluzionario, che lotta per una forma di società futura. Come abbiamo sempre trattato, vi sono grandi suddivisioni storiche e «geografiche» che danno fondamentali svolti all'azione del partito: in campi estesi a mezzi continenti e a mezzi secoli: nessuna direzione di partito può annunziare svolti del genere da un anno all'altro. Possediamo questo teorema, collaudato da mille verifiche sperimentali: annunziatore di «nuovo corso» uguale traditore.

Garanzia contro la base e contro la massa è che l'azione unitaria e centrale, la famosa «disciplina», si ottiene quando la dirigenza è ben legata a quei canoni di teoria e pratica, e quando sì vieta a gruppi locali di «creare» per conto loro autonomi programmi, prospettive, e movimenti.

Questa dialettica relazione tra la base e il vertice della piramide (che a Mosca trent'anni addietro chiedevamo di renverser, capovolgere) è la chiave che assicura al partito, impersonale quanto unico, la facoltà esclusiva di leggere la storia, la possibilità di intervenirvi, la segnalazione che tale possibilità è sorta. Da Stalin a un comitato di sottostalinisti nulla è stato capovolto.

3. Tattica. Sono vietate dalla meccanica del partito «creatività» strategiche. Il piano di operazioni è pubblico e notorio e ne descrive i precisi limiti, ossia i campi storici e territoriali. Un esempio ovvio: in Europa, dal 1871, il partito non solidarizza con alcuna guerra di Stati. In Europa, dal 1919, il partito non partecipa (non avrebbe dovuto...) ad elezioni. In Asia e Oriente, oggi tuttora, il partito appoggia i moti rivoluzionari democratici e nazionali e un'alleanza di lotta tra proletariato e altre classi fino alla borghesia locale. Diamo questi crudi esempi per evitare si dica che lo schema è uno e rigido sempre e dovunque, ed eludere la famosa accusa che questa costruzione, materialista storica integralmente, derivi da postulati immoti, etici od estetici o mistici addirittura. La dittatura di classe e di partito non degenera in forme diffamate come oligarchie, a condizione che sia palese e dichiarata pubblicamente in relazione ad un preveduto ampio arco di prospettiva storica, senza ipocritamente condizionarla a controlli maggioritari, ma alla sola prova della forza nemica. Il partito marxista non arrossisce delle taglienti conclusioni della sua dottrina materialista; non è fermato, nel trarle, da posizioni sentimentali e decorative.

Il programma deve contenere in linea netta l'ossatura della società futura in quanto negazione di tutta la presente ossatura, punto dichiarato di arrivo per tutti i tempi e luoghi. Descrivere la presente società è solo una parte del compito rivoluzionario. Deprecarla e diffamarla non è affar nostro. Costruire nei suoi fianchi la società futura nemmeno. Ma la rottura spietata dei rapporti di produzione presenti deve avvenire secondo un chiaro programma, che scientificamente prevede come su questi spezzati ostacoli sorgeranno le nuove forme di organizzazione sociale, esattamente note alla dottrina del partito.

 

 

Cattiveria dell'uomo?

 

Che in avvenire risorti partiti proletari rivoluzionari abbiano a subire ulteriori involuzioni, crisi e degenerazioni, non lo si nega, e non vi saranno mai ricette per escluderlo.

Ma è scontato che, dopo avere ancora una volta proposte, e dopo che un avvenire non vicino abbia costruite, tutte le garanzie, che abbiamo così chiamate solo per accettare correnti inviti polemici, la più parte di quelli dell'altra banda, e molti dei nostri, credentisi tali, se ne usciranno collo scuotere di testa: «Inutile! Nessuna misura rimedierà alla libidine di potere dell'uomo. Lo Stato, il Partito, l'organizzazione, in ogni situazione, tempo e posto, finiscono nel consolidare privilegi della gerarchia suprema, che si abbarbica a ricchezza, benessere, soddisfazione di inesausta vanità. L'uomo è canaglia. Cerca gioia e dominio e passa sul suo simile, il suo corpo, e la sua fame».

Questo argomento non merita un rigo di risposta. Se a questo si crede, se questo fosse lontanamente vero, se l'uomo non fosse virtualmente tanto buono quanto la diffamata madre «bestia», e se la canaglia non è proprio l'organizzazione sociale (che dialetticamente nasce da una sequenza storica di inevitabili e per questo utili fasi di canaglieria) allora è finita, allora siamo belli e fritti; noi con Marx, Engels, Lenin siamo tutti crollati, e la nostra illustre o ignota letteratura può andare a un falò unico.

Quelli che riempiono il mondo di questa nuova leggenda della storia criminologista: «gli errori di Stalin erano evitabili; bastava che egli non fosse così duro, aspro e feroce», avranno un facile successo. Ma la storia del tremendo cammino della rivoluzione comunista scriverà che è questo il più infame scaracchio che finora abbiano lanciato sulle effigi di Marx e di Lenin, che scioccamente, oltre che mentitamente, affiggono ancora alle mura dei trivii, ove vendettero l'antica fede.

Alla figura immensa di Lenin questa gente vuole legare il trucco, con cui sperano di battere per altri anni marchette, che dalla linea ferma della dottrina sia giusto evadere per attuare creatività ed arricchimento, in quanto egli lo avrebbe per primo affermato. Ma è solo eliminando questa originale fallacia, che davvero il movimento andrà oltre le secche del culto della persona, e del peggiore culto e corteggiamento vile della folla, della massa.

Il vecchio marxista che, da lunghi decenni, sull'opera grande di Lenin, sulla parola viva e l'azione sua, lavora e studia, dimostra di averlo fatto profondamente in quanto spoglia il falso mito di Lenin stesso dalla leggenda che egli abbia ricreato ed arricchito la comune dottrina, laddove da leone ne difese ogni versetto, fino all'ultimo suo respiro.

Ma quando poi sente che un tale compito, che va contestato ai giganti, e non meno al non pigmeo Giuseppe Stalin, passerebbe con pari diritto di manipolazione agli odierni omuncoli, figli di un'epoca putrescente in cui teoria, scienza ed arte decadono, non trovano echi simili a quelli che schiere di voci squillanti sorsero a levare nelle epoche fertili della storia, ultimi i rinascimenti e le lotte di liberazione borghesi, che da un secolo sormontammo, ed ultima su loro ed oltre loro l'epopea russa e mondiale di Ottobre 1917... allora cadono dalle mani del semplice milite di una dottrina intangibile le armi dialettiche; egli poco eroicamente le abbassa a tenersi il ventre, per scongiurare il rischio di pisciarsi sotto.

 

 

Ventata di ossigeno

 

Non potevano i «provocatori» non avere buon gioco sul terreno allettante della «filosofia», e crediamo di avere trovato pane per i loro denti, gettando argini alti contro la mania di sciogliere il nodo di oggi colla solita insulsa tremebonda ricerca: chi sarà domani il padrone? E di dare nomi al dramma recitato sulle scene di Mosca. Noi gli abbiamo trovato altro, fondamentale senso.

Ritorniamo infine, per chiudere la nostra giornata, sul solido nostro terreno: la fisica dei fatti economici, la lotta corpo a corpo degli interessi materiali di classe, al vertice del cui ribollire la nostra scuola ha posto le chiavi del presente, del passato e del futuro, nel quadro unitario di cui abbiamo conquistata la totale visione, se non ci affligge totale cecità.

La colossale costruzione della «teoria» emulativa, secondo la quale il ritmo di progressione produttiva del sistema russo batte il ritmo del sistema del capitalismo di occidente contemporaneo e lo supererà tra un certo tempo in senso assoluto - rimettendo la decisione sulle sorti del mondo al platonico esito di questo confronto - si drappeggia di una tesi folle: che tale ritmo si veda per la prima volta nel mondo e nella storia, e che i suoi indici numerici attestino l'ingresso di un principio nuovo, al posto degli antichi.

Questa mistificazione gigante è tutta nel gioco della difesa e della conservazione del sistema capitalistico, che si ostenta voler sconfiggere. Come altrimenti spiegare che vi fanno eco le più schiette pubblicazioni e diffusioni occidentali?

Esiste in America un Research Institute, Inc., of New York (Istituto di ricerca) che ha diramato un rapporto speciale alle
«trentamila ditte, la maggior parte delle quali corporazioni industriali, di cui l'Istituto è consulente in materia di economia, legislazione, dirigenza aziendale (management), relazioni industriali ed umane, tecnica delle vendite e conquista dei mercati (Sale and Marketing)».
Il titolo e suggestivo «The toughest challenge» che si potrebbe tradurre forse «Il cimento su premo».

Al lavoro è premessa una significativa dichiarazione: questa ricerca è svolta sui fatti, al di fuori della adesione ad ogni scuola economica e ad ogni politica di governi.

Tutta la materia che qui da ben altra sponda abbiamo studiata, è esposta come cosa estremamente seria e fondata, e le cifre di Krusciov e Bulganin sono soppesate con rispetto e con impegno estremo. Questi esperti del capitalismo chiudono ammettendo che la palma possa anche spettare al sistema sovietico, non invocano repressioni o guerra, studiano a fondo solo la risorsa per le firms delle ondate di ordini di armi, e consigliano infine l'accesso aperto all'invito al «marketing» coi temuti rossi. Si mettono anche essi a calcolare in quanti anni coi noti piani potrebbero gli indici occidentali di produzione, come massa, e pro-capite, essere scavalcati dall'U.R.S.S. Mentre non tacciono i punti deboli del sistema orientale, soprattutto nell'agricoltura, espongono anche quelli di occidente, valutano il decorso del ritmo economico, la possibile crisi, e si mettono decisi sul piano «distensivo».

La consulenza dell'alto capitalismo dice dunque che l'invito all'emulazione è da accogliere, per il parallelismo dei due sistemi; che per i due imperialismi vi è panno da tagliare, prima di combattere.

Ci ha colto in questo non disprezzabile studio una coincidenza di prospettiva con la nostra (venti anni di pace). Da calcoli sul volume delle materie prime disponibili nei due campi, e sull'entità dell'industrializzazione delle zone sottosviluppate del mondo, si presume che la duplice accumulazione capitalistica abbia sicuro sfogo per tutto il prossimo ventennio. Al 1975 deciderà la guerra, o la rivoluzione? Da qui ad allora la lotta teorica deciderà tra la economia della esplosione, e quella del crescente benessere. Due avversari progressivi si allineano nella «Challenge»: teoricamente, combattono a fianco.

 

 

Esperti del mercato

 

Gli economisti e gli istituti si offrono dietro compenso ad ambo le parti. Noi non crediamo che quelli del «Research» mandino la parcella anche a Mosca, ma certo la mandano gli autori dei pareri che, tra gli allineamenti degli stessi e ormai fastidiosi specchietti di cifre, sono riportati nell'«Unità» del 12 aprile. Questa rivista francese «La Nef» ha un'editoria sospetta: ma non ci importa. La falsità di scienza economica colossale è quella scritta sotto lo specchio che fissa al 10 per cento annuo e più il passo della produzione industriale e del reddito nazionale russo, dati ed accettati per tripli circa di quelli americani, come abbiamo già svolto.
«Nulla di simile si è mai verificato nella storia delle economie capitaliste».
Secondo questi esperti gli economisti borghesi hanno perduta la partita, sola loro salvezza era provare che le cifre russe erano false, e i ritmi più bassi.

Se la gentaccia che compila e che ospita tale materiale avesse mai soltanto aperto a caso il primo volume del «Capitale» saprebbe due cose: Primo: Cose del tutto simili si sono verificate nella storia di tutte le economie capitaliste. Secondo: Quando queste cose si sono la prima volta verificate, ne abbiamo dedotto che l'economia capitalista è destinata a saltare, ed il marxismo proletario le ha dichiarato la guerra a morte.

 

La prima internazionale

Vi sono marxisti-leninisti che ignorano l'Indirizzo inaugurale dell'Associazione Internazionale dei Lavoratori, scritto di mano da Carlo Marx?

Lo storico comizio alla Martin's Hall si tenne il 28 settembre 1864. Il testo di Marx comincia così:
«È una grande verità di fatto che la miseria delle classi operaie non è scemata negli anni che vanno dal 1848 al 1864, benché proprio questo periodo non abbia confronti negli annali della storia per riguardo allo sviluppo dell'industria, e all'incremento del commercio dei suoi prodotti. Nel 1850 un organo conservatore della borghesia britannica, pare fornito di conoscenze più che ordinarie, profetizzò che, se il commercio di esportazione e di importazione dell'Inghilterra fosse salito del 50 per cento, il pauperismo, in Inghilterra, sarebbe sceso a zero
Ma, ah! il 17 aprile 1864 il signor Gladstone, il cancelliere dello Scacchiere inglese, commosse il suo uditorio con la dimostrazione che l'importo complessivo dell'esportazione ed importazione inglese nell'anno 1863 era salito a 443.955.000 lire sterline, una somma che equivaleva circa al triplo dell'importo del 1843, decorso relativamente da poco. Con tutto ciò, egli fu obbligato ad occuparsi ancora della miseria sociale».

Fermiamoci. L'aumento del triplo in venti anni, col solito calcoletto, e senza fare il gioco (che fa talvolta oggi l'aulico Varga) di dividere duecento per venti, ottenendo il dieci per cento, vale la media annua del 5,7 per cento.

Non è ancora questo l'indice più alto, ma ci basta a stabilire come il capitalismo iniziale corra veloce, tipo russo di oggi, poi fatalmente rallenti.

Gioco inutile quello dei consulenti dell'«Unità» che danno i ritmi dei paesi capitalisti dal 1870 in poi. Essi stessi non possono nascondere che in dati periodi, che chiamano di «slancio ciclico» si è, anche da poco, verificato circa l'8 per cento di progresso annuo. Gran Bretagna 1946-50 (dopoguerra). Giappone 1907-1913 (dopo la guerra colla Russia; ma oggi il Giappone, non più vincitore ma vinto, vedemmo che corre anche di più, e supera la Russia). Stati Uniti 1880-85. E, guarda un poco: Russia 1890-1900, a sistema... zarista!

Che serve stabilire che in periodi ulteriori «a lungo termine» il capitalismo occidentale si pone sul passo dal 3 al 5 %? Lo farà anche la Russia, se in venti anni la sua produzione pro-capite adegua quella d'America, Inghilterra e Germania, e... salvo complicazioni. L'emulazione non può andare oltre.

Qui stiamo sbugiardando la parte inferiore della tabella che, riferendosi ai paesi «a uno stadio di sviluppo industriale iniziale», sceglie a fascio per Russia, Svezia, Stati Uniti e Germania il 1855-1913 (!) e trova il 5 per cento...

 

 

La rivoluzione industriale inglese

 

Il parallelo del capitalismo iniziale tra Russia odierna e Inghilterra ci riporta al mirabile trentennio 1830-1860 in cui la Gran Bretagna era quasi prima e sola a rovesciare nel resto del mondo manufatti dell'industria meccanica. L'Europa continentale era per essa ciò che oggi è per l'U.R.S.S. l'Asia immensa. Si era svolta nel secolo precedente la rivoluzione antifeudale politica, erano seguiti periodi di grandi guerre, era stata superata la successiva crisi internazionale del 1848. Le analogie sono notevoli: il rivoluzionario cerca le costanze delle funzioni storiche, che gli confermano (e tanto meglio se corrono secoli di mezzo) che si può imbrigliare la storia in linee generali di uniformità, per uniformi svolti della base economica. L'opportunista cerca le discordanze, per avallare i suoi sbandamenti: con lui il conservatore tripudia, se vede indebolirsi il fondamento della previsione, che all'alto industrialismo fiorente fa seguire una nuova potente sovversione sociale.

A Marx la considerazione dei ritmi, dei saggi di incremento, era cosa ben nota. Restiamo negli indici del commercio estero, sicuro parametro dell'irrompente industrializzazione. Marx ne tratta nel Primo volume del «Capitale», nel paragrafo 5 del XIII capitolo: «Illustrazione della legge generale dell'accumulazione capitalistica: l'Inghilterra dal 1846 al 1866». Volete nulla di più basale?

Il complesso di esportazione ed importazione è dato, a pag. 620 dell'edizione italiana per il 1854, in lire sterline 268 milioni e per il 1865 in lire sterline 490 milioni. Il solito calcolino dice che dal 54 al 65 il ritmo annuo medio fu del 6,2 per cento. Ma la tabella della sola esportazione in quel periodo ci porta ai ritmi di tipo... russo. Dal 1849 al 1856 si avanza da 66 a 116 milioni di sterline: ritmo 9,1 per cento. Dal 1865 al 1866 un balzo di corsa folle: 14 per cento in un solo anno (da 167 a 189 milioni di sterline). Engels osserva: questo era il preludio della crisi che scoppiò subito. Sappiamo che la crisi precedente era stata al 1856: prima ancora al 1846. Le cifre lo confermano, e i ritmi oscillano, ma non cedono nel periodo totale.

Vogliamo chiederci che è successo dalla tabella di Marx ad oggi? Nel 1953 il commercio totale britannico è stato di 5 miliardi 925 milioni di sterline. Dal 1863 di Gladstone è divenuto 13 e più volte maggiore. Ne ha avuto il sistema capitalista panno da tagliare! Ma il ritmo medio, debitamente ricercato, come sappiamo, è quello di capitalismo adulto: tre per cento.

Nella stessa pagina Marx studia le cifre della produzione di carbone e ferro, della lunghezza delle ferrovie. Ottiene tra il 1855 e il 1864 cifre che sarebbe lungo riportare, ma che danno ritmi intorno al 4 e al 5 per cento.

Marx stesso determina poi i ritmi totali e quelli annui, si capisce col giusto procedimento, per lo stesso periodo nel reddito di talune industrie: case 3,5 per cento; cave 7,7; miniere 6,3; ferriere 3,6; peschiere 5,2; gas 11,5; strade ferrate 7,6. Miracoli, ma non del sistema «socialista»!

Mette poi in evidenza che l'aumento dei redditi, quale risulta dalle imposte registrate, e quindi come sempre inferiore al vero, crebbe tra il 1861 e il 1864 annualmente del 9,30 per cento.

Non tratta però qui Marx delle cifre proprie del periodo iniziale, a partire dal 1830, e magari prima; di cui diffusamente tuttavia discorre in tutte le sue opere, e non meno fa Engels. Ma le cifre sono in tutti i libri di storia, ad esempio (per non andare lontano) il Barbagallo (antico marxista). Ne diamo alcune.

Cotone 1796-1800, 11.2 per cento. Lana 1829-30, 11,5 per cento. Macchine esportate 1855-65, 8,5 per cento. E così via.

 

 

Gli altri capitalismi

 

Il fenomeno, che si sarebbe visto solo in Russia un secolo dopo, è generale. I capitali che si investirono negli Stati Uniti nell'industria laniera prorompente salirono al ritmo del 31 per cento annuo (chi copia la tecnica altrui, dominio internazionale in tempo borghese, supera la velocità del primo esempio). Carbone estratto dal 1835 al 1850: da mezzo milione di tonnellate a 6.266 milioni, 12 volte e mezza in 15 anni, ritmo 18 per cento. E se retrocedessimo al 1820 con le misere 365 tonnellate, calcoleremmo un ritmo sbalorditivo: 1.500 volte in 15 anni. Oggi? Lo sappiamo: 465 milioni di tonnellate: più di un milione di volte tanto. Media, su 140 anni, solo il dieci per cento. Visto il giochetto Mosca? Spingere gli anni di partenza a quelli di produzione neonata.

Francia: nel trentennio 1830-1860 la ghisa aumenta 8 volte: passo del 7 per cento La forza in cavalli delle motrici a vapore di 58 volte: ritmo 15 per cento.

Germania: qui è giusto che gli anni passino. Dal 1871 al 1913 il carbone è 7,5 volte di più: ritmo nel lungo periodo 4,5 per cento. Se vogliamo di più basta andare indietro nel tempo: lo zucchero prodotto in Prussia fu nel 1831 circa mille tonnellate, nel 1843 circa 9 mila. Nove volte in dodici anni dà il ritmo del 19 per cento.

La balorda invenzione dell'emulazione è tratta dai «fenomeni nuovi» degli ultimissimi anni, che dovrebbero giustificare la tronfia idea di creare un nuovo marxismo, e arricchire il vecchio. Ma basta trattarla con la scienza marxista di cento anni fa, ed ecco l'emulazione capovolta e ridicolizzata!

Torniamo al Giappone: prima ancora della guerra con la Russia, tra il 1863 e il 1907, in 14 anni comincia a rovesciare sul mondo la sua magnifica seta: da 38 a 450 milioni di yen: circa 12 volte, e questo dà il ritmo annuo del 19 per cento Altri indici sono ancora più spettacolosi. Avrà forse il Mikado pensato fin da allora a edificare la società socialista?

 

 

Legge dell'accumulazione

 

La fondamentale legge marxista si leva più intangibile che mai. Più sono stranamente diversi i paesi e discosti i tempi storici, più la relazione tra le cause e gli effetti si delinea precisa, uniforme.

All'apparire dell'industria capitalista il ritmo annuo di accumulazione è massimo, va poi decrescendo.

Non essendo il ritmo uniforme ma molto saltuario, esso tende a risultare più basso in lunghi periodi, e ridiventa marcato dopo le crisi economiche, dopo le guerre, e soprattutto dopo le guerre perdute e devastatrici del paese considerato.

Il ritmo è più alto a parità di età della forma capitalistica, nei paesi che scendono dopo nell'agone industriale e meccanico. Ciò si deve alla più evoluta tecnica ad immediata disposizione, ed alla mutata composizione organica, in rapporto a tanto, del capitale; a parità di lavoro, più materie trasformate.

Notizie americane della citata fonte attendono ad un ritmo super-russo, nel tempo che viene, il Sud-america: sempre nel prossimo ventennio, se è di pace.

La storiella del miracolo della rapida accumulazione dovuta alla pianificazione, ossia alla forma monopolistica ed imperiale del capitalismo, e allo stesso industrialismo di Stato (può in questo esservi solo un certo uguagliamento del ritmo nel tempo, un certo compenso a scossoni di crisi: ma non solo in Russia, bensì ovunque: tema che lasciamo ora ad altra sede), è di fabbrica staliniana. Le solite tabelle ci sono anche nel discorso-rapporto del 1939.

A conferma delle nostre vecchie notissime leggi marxiste abbiamo formata una tabella unica di quelle di Stalin e di Bulganin - con alcune di Varga - per i vari paesi, e si va per i seguenti periodi: 1880-1900, pace; 1900-1913, pace; 1913-1920, prima guerra mondiale; 1920-1929, prima «ricostruzione»; 1929-1932, crisi generale; 1932-1937, ripresa; 1937-1946, seconda guerra mondiale; 1946-1955, seconda ricostruzione.

Seguiamo la corsa dei vari paesi in queste fasi, dando sempre i ritmi annui.

Gran Bretagna: 1880-1900, 3,5; 1900-1913, 3,0; prima guerra: zero (produzione invariata); prima ricostruzione: idem. Crisi 1929-1932: discesa all'11 per cento!; ripresa 1932-1937: aumento al 10! Seconda guerra: stasi, ritmo zero, propriamente: meno 0,6. Fase attuale: aumento del 4,8 %.

Francia: anteguerra 6.5 e 6 %; prima guerra: caduta, al 6,6 per cento; dopoguerra, salita, al 9,5 per cento! Crisi 1929-1932: discesa, al passo dell'11,6; ripresa 1932-1937, salita lenta (uno per cento); seconda guerra; altra caduta al 3 per cento; fase ultima: risalita, all'8 per cento.

Germania: primo anteguerra 7,5 e 7. Prima guerra: caduta, all'8,2 per cento; prima ricostruzione: ripresa al 7,3 per cento; crisi 1929-1932: precipizio al 13,8 per cento!; ripresa: risalita al 13,4!; seconda guerra: caduta al 12,2!; fase attuale: ripresa al ritmo record: 22,2 per cento! Senza nessun socialismo, e con poco dirigismo.

Stati Uniti: primo anteguerra 8,5 e 7; prima guerra: aumento al 3,4 per cento (ah vecchia e fessa Europa!). Dopoguerra: continua al 3,6; crisaccia del 1929: ruzzolata, al 18,5 per cento!; ripresa: all'11; seconda guerra: ulteriore ripresa (ed Europa come sopra) al 4,8 per cento; fase presente: impassibile avanzata allo stesso passo!

Giappone: violenta avanzata fino alla prima guerra; durante questa, avanzata a circa il 7 % (Europa, ecc.); dopoguerra: stesso ritmo. Sosta nella crisi, ritmo al 12 per cento nella ripresa; seconda guerra: discesa al 12,5 per cento; fase attuale: decisa salita al 18,8 per cento: tempo russo.

Russia: dal 1880 al 1913: ritmi di alta industrializzazione iniziale; dal 1913 al 1920: guerra, dissoluzione industriale. Dal 1920 al 1929 industrializzazione intensa, al ritmo del 34 per cento! (effetto di partenza dal fondo); dal 1929 al 1937, senza risentire la crisi estera, salita al 20 per cento; seconda guerra: praticamente, stasi. Fase attuale: 18 per cento, come il Giappone, molto meno della Germania.

Italia? Limitiamoci a dire che dalla crisi del 1929 alla seconda guerra è ferma (discesa e poi salita); nella guerra cala al 3 per cento; oggi sale al discreto 12 per cento. Nel 1955 automezzi prodotti in più 69 %; petrolio (fase d'inizio!) 83 %; capitale della FIAT aumentato oggi di 19 miliardi, 32 %.

Il quadro, sotto forma di prospetto, è inserito fuori testo in queste pagine.

Chi può nulla leggere, in questo quadro, circa il vantaggio del sistema socialista (russo) sugli altri? Nessuno: sono tutti dati di fonte russa, e perciò ben comparabili. Essi sgonfiano per sempre l'espediente esoso dell'emulazione, confermano la coesistenza di forme analoghe, capitalistiche, di varia età e di varia origine e storia.

Le chiavi per decifrare il quadro, eloquente di per sé nel suo significato di piattaforma del corso futuro, sono tre: Crisi, Guerra, Rivoluzione.

Il nostro lavoro è al termine, e la sua tesi di arrivo è la rotta della emulazione. Più i gareggianti si scavalcano, più diviene possibile la Rivoluzione, colla sua consegna, corollario dell'originaria teoria: blocco della produzione.

Per le conclusioni più vaste non oseremo una profezia, solo un auspicio.

Il decennio postbellico di avanzata della produzione capitalistica mondiale continui ancora alcuni anni. Poi la crisi di interguerra, analoga a quella che scoppiò in America nel 1929. Macello sociale delle classi medie e dei lavoratori imborghesiti. Ripresa di un movimento della classe operaia mondiale, reietto ogni alleato. Nuovissima vittoria teorica delle sue vecchie tesi. Partito comunista unico per tutti gli Stati del mondo.

Verso il termine del ventennio, l'alternativa del difficile secolo: terza guerra dei mostri imperiali - o rivoluzione internazionale comunista. Solo se la guerra non passa, gli emulatori morranno!

 

 

Marx e Gladstone

 

Abbiamo ridotto tutta la vanagloria statistica russa ad un fenomeno di capitalismo vigoreggiante, come quello che offriva a Marx l'Inghilterra di un secolo addietro.

Come Marx la guardò allora?

Fin da quell'epoca egli sapeva benissimo che all'inferno del Capitale non si grida il vade retro Satana, ma se ne attende la conquista del mondo. Egli attese che l'industrialismo britannico attaccasse, crescendo a dismisura, fuoco all'Europa. Noi abbiamo il diritto di attendere che la fornace di produzione russa infiammi tutto l'Oriente. Non è il fallimento che auguriamo ai piani quinquennali. È la dichiarazione di socialismo, che da quel sistema speriamo strappata.

I ritmi progressivi britannici misurati dall'occhio lungivedente di Marx gli fecero riconoscere il diretto nemico, ed egli dichiarò la guerra mondiale di classe, traendone gli accenti dalla lettura di quelle cifre.

Perché il discorso del 1864, il «Dialogato con Gladstone», non si ridusse a quanto abbiamo detto.

Al crescere folle delle cifre del commercio estero Marx, nell'indirizzo, contrappone i dati dello sfruttamento infame di quel modello dei moderni proletariati. Scrive l'equazione tra il grandeggiare del Capitalismo e la schiavitù del salariato. Leva la scomunica del tribuno contro il cinico cancelliere dello Scacchiere.

«Abbagliato dal 'progresso della nazione', illuso dalle cifre della statistica, il cancelliere esclama con commozione selvaggia: negli anni 1842-1852 il reddito (income) imponibile del paese è cresciuto del 6 per cento: negli otto anni, che vanno dal 1853 al 1861, e cresciuto del venti per cento rispetto alla cifra del 1853. Questo fatto è così stupefacente da essere quasi incredibile».

Marx scriveva lo stesso nel «Capitale» al 1866, salvo che allora nella sua tabella potrà annotare il salto del reddito nel solo anno 7 aprile '64 - 7 aprile '65 di oltre il dieci per cento! La sua citazione nell'indirizzo prosegue:
«Questo inebriante aumento di forza e di potenza - aggiunge il signor Gladstone - è limitato alle classi abbienti».
La dimostrazione del disagio del proletariato inglese e delle sue sfortunate lotte si conclude con la possente tesi:
«In tutti i paesi di Europa sta ora come irrefutabile verità che... sulla falsa base del presente, ogni nuovo sviluppo della forza creatrice del lavoro tende solo a rendere più profondi i contrasti, più acuto il conflitto sociale».

Nelle pagine del «Capitale» la citazione del discorso di Gladstone del 16 aprile 1863 si estende ancora alla sua asserzione:
«l'aumento di ricchezza... arreca un indiretto vantaggio alla popolazione operaia, perché fa diminuire il prezzo degli oggetti di generale consumo. Mentre i ricchi son diventati più ricchi, i poveri sono diventati meno poveri. Non voglio però affermare che gli estremi limiti della povertà siano minori».
Il duro sarcasmo di Marx si abbatte sulla ipocrisia di questa strana dichiarazione. Il capitolo finiva con una nota che invocava il proseguimento dello studio di Engels del 1845 sulle condizioni delle classi operaie inglesi. Engels tolse la nota e scrisse, a piè del suo manoscritto: ciò è stato fatto da Marx nel primo volume del «Capitale».

Ritornatori, per sfregio di Stalin, al «marxismo», avete di tutto questo saputo mai nulla?

 

 

Gli estremi di un secolo

 

Il ministro della prima borghesia del mondo accusò le potenti ceffate dell'ignoto dottor Marx, il red terror Doctor della stampa inglese, il povero e quasi solo emigrato che aveva ripetuto il grido del 1848: lavoratori del mondo, unitevi! alla chiusa del suo fiammeggiante indirizzo.

La polemica divenne famosa, e si stese su anni e su anni; dopo che Marx morì. L'antisocialista tedesco Brentano, messosi in corrispondenza col ministro inglese, insinuò in una sua pubblicazione che Carlo Marx era in colpa di «falsa citazione». Gladstone aveva detto che le cifre del reddito imponibile (la nostra ricchezza mobile) concernono le sole classi possidenti, in quanto i redditi di salario non sono tassati: le cifre non riguardavano quindi quello che oggi si dice «reddito nazionale» ma solo i redditi e profitti da proprietà e da impresa. Nulla aveva ammesso Gladstone, sulla miseria cresciuta delle classi operaie, come Marx sosteneva. Ma la dimostrazione di Marx non abbisognava di confessioni di Gladstone: restava e resta in piedi, e colpisce ogni forma di salariato. Miseria non vuol dire basso salario, vuol dire nullatenenza dei soli che la dilagante ricchezza hanno generato «remando» nella torva fabbrica dell'impresa industriale. Le cifre di Marx disegnano il passo della accumulazione, della concentrazione del capitale in mani e teste sempre più rare, fino alla sua spersonalizzazione, che oggi dovunque impera.

Ma non era allora cosa da poco l'accusa di falso! Eleanor, la figlia di Marx, replicò indignata, Brentano fece altra pubblicazione: finalmente Engels in una sua apposita trattazione riassunse il tutto, con riporto di tutte le opposte allegazioni, fac-simili dei testi tedeschi ed inglesi, delle pagine invocate dalle due parti del «Times», degli Atti della camera dei Comuni, di altri fogli di stampa. Oggi si corteggiano demagogicamente i membri del partito russo che si dichiarano scocciatissimi di queste rivangature di vecchie storie (che ce ne frega del Bund? dei populisti? sono le frasi di sapore esistenziale con cui i capoccia hanno fatto ridere di gusto il congresso): oggi tipi del genere, incitati dallo staliniano dalli al pedante: che forma di pedantone, direbbero, quel Federico Engels!

I giornali hanno recate le fotografie della tomba di Marx nel cimitero londinese di Highgate, alla cui nudità hanno i russi sovrapposto un pesante monumento: non paghi di quello inflitto a Vladimiro Lenin, altro modello indimenticabile di illimitata semplicità, schivo di ogni pompa e di ogni fasto.

Presso la tomba i signori Bulganin e Krusciov si mostrarono certi di ribadire lo storico loro riaccostarsi a Marx, del XX congresso. Essi non mostravano dubitare di avere da quella assise squadernate al mondo le stesse glorie, che Marx aveva ricacciate nella gola del ministro inglese del tempo, all'apice della storica prima rivoluzione industriale, modello a tutte le altre, e a quella di Russia.

Marx contrappose allora all'orgia folle della iper-produzione meccanica la fondazione della Prima Internazionale Rivoluzionaria: i due che salutavano la sua tomba avevano, di fresco, sepolto gli ultimi poveri ruderi della Terza, di quella fondata da Lenin.

E mentre noi stendiamo le ultime cartelle di questo affrettato lavoro di semplici allievi di quella scuola gigante, che sola può fare richiamo ai due nomi, le radio diffondono da Mosca le dichiarazioni dei due viaggiatori, appena rientrati da Londra: il signor Eden, impeccabile ministro della sua Graziosa Maestà Britannica, allievo (lui sì a testa ben alta) del classico suo predecessore Gladstone, li ha ricevuti colla massima e amichevole cordialità.

Ben diversamente dai vivi contemporanei emulatori, i Morti dialogano...

 

 

FINE DEL «DIALOGATO COI MORTI»

 

 

Prospetto statistico

 

INCREMENTI TOTALI E MEDI ANNUI PRODUZIONE INDUSTRIALE NEI PAESI E PERIODI TIPICI DELLO SVILUPPO

STORICO DEL CAPITALISMO (ESPRESSI IN PERCENTUALI DEL PRODOTTO ANNUO PRECEDENTE)

PERIODI

PAESI

Incrementi Percentuali

1880-1900

Anni 20

Pace

1900-1913

Anni 13

Imperialismo

1913-1920

Anni 7

1° guerra

1920-1929

Anni 9

Ricostruzione

1929-1932

Anni 3

Crisi

1932-1937

Anni 5

Ripresa

1937-1946

Anni 9

2° guerra

1946-1955

Anni 9

Ricostruzione

GRAN

BRETAGNA

Nel periodo

Annuo medio

100

3,5

40

3,0

0

0,0

0

0,0

- 30

- 11,0

55

10,0

- 5

- 0,6

53

4,8

FRANCIA

Nel periodo

Annuo medio

250

6,5

130

6,0

- 38

- 6,6

126

9,5

- 31

- 11,6

5

1,0

23

- 3,0

98

8,0

GERMANIA

Nel periodo

Annuo medio

300

7,5

150

7,0

- 45

- 8,2

87

7,3

- 36

- 13,8

90

13,4

- 69

- 12,2

510

22,2

STATI

UNITI

Nel periodo

Annuo medio

400

8,5

150

7,0

26

3,4

37

3,6

-46

-18,5

69

11,0

51

4,8

53

4,8

GIAPPONE

Nel periodo

Annuo medio

800

11,5

250

10,0

57

7,0

89

7,0

0

0,0

75

12,0

- 70

- 12,5

370

18,8

RUSSIA

Nel periodo

Annuo medio

Circa

13,0

Circa

10,0

- 87

- 20,0

1300

34,0

85

22,8

150

20,0

0

0,0

340

18,0

 

 

 

Il presente quadro è elaborato solo su dati di fonte russa (Varga, Stalin, Kruscev). Gli indici dei primi due periodi sono tratti dalle cifre relative alle industrie base, date da Varga.

Dalle verticali, essendo gli Stati disposti dall'alto in basso secondo l'età della forma industriale, emerge che il capitalismo più giovane ha incremento medio più rapido.

Dalle orizzontali emerge che in fase normale il ritmo d'incremento di ogni paese decresce col tempo.

Dalle fasi di guerra e di crisi emerge che i capitalismi maturi e vincitori resistono bene alle guerre (imperialismo) e perfino avanzano; ma cedono di più alle crisi.

Dalle fasi di dopo-guerra e dopo-crisi emerge che la ripresa è tanto più forte quanto più il capitalismo è giovane, e la discesa è stata violenta.

L'orizzontale russa conferma tutti gli andamenti delle altre forme capitalistiche.

 

 

Note:


 

 

14. vol. II, pag. 492 ed. russa. [back]

15. vol. II, pagg. 374-75, «Pravda», 28-3-1956. [back]

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05-10 - 1956)

 

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