DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

                                   
Sono raccolti in questa seconda parte tre testi usciti nel secondo dopoguerra, ma legati da strettissima continuità a quelli riuniti nella prima.

Forza Violenza Dittatura nella lotta di classe apparve in cinque puntate ed una postilla nei numeri 2, 4, 5, 8, 9 e 10, tra il 1946 e il 1948, nella rivista Prometeo, allora del Partito, e, partendo dalla fondamentale distinzione tra energia allo stato potenziale o virtuale, ed energia allo stato attuale o cinetico, svolge il concetto per noi fondamentale che il ruolo della violenza e della forza coattiva nei fatti sociali deve essere riconosciuto non solo quando sull’organismo dell’uomo si esercita la brutale azione fisica, ma in tutto il campo assai più vasto in cui le azioni dei singoli sono rese coatte anche dalla sola minaccia e sanzione degli atti di forza. Tale coazione, la cui presenza nella storia è inseparabile dalle prime forme di attività produttiva associata, è un fatto indispensabile nello svolgimento di tutto il corso storico dell’avvicendarsi delle istituzioni e delle classi, e non si tratta per noi di esaltarla o condannarla in base a canoni morali od estetici, ma di riconoscerla e valutarla nel trascorrere dei tempi e delle situazioni.

Il testo applica questo criterio, proprio e specifico del materialismo dialettico, prima alla società feudale ed al trapasso rivoluzionario a quella borghese capitalistica, per dimostrare l’assunto caratteristico del nostro movimento che questo passaggio, fondamentale nell’evoluzione della tecnica produttiva e dell’economia, si accompagnò ad un grado non minore di impiego di forza, violenza e sopraffazione sociale; impiego che, nel corso ulteriore dell’evoluzione capitalistica, tende anzi a crescere di peso e importanza reali malgrado la finzione democratica e costituzionale, toccando il vertice non tanto in quella manifestazione di violenza aperta e non dissimulata che fu il fascismo italiano o tedesco (a sua volta, del resto, realizzatosi attraverso un’abile combinazione dei metodi della sopraffazione statale e del riformismo sociale), quanto nel regime instauratosi mondialmente dopo la vittoria delle grandi potenze democratiche sui regimi totalitari. Tale regime è infatti caratterizzato da una parte dall’effettivo peso materiale esercitato su tutti i paesi del mondo dai grandi mostri statali a cui la vittoria nel secondo macello ha assicurato un dominio totalitario sul pianeta, dall’altra dal progredire del moto di centralizzazione del capitale nella sua fase imperialistica, e che rende ognor più illusoria, anche se efficacissima dal punto di vista dell’ordine costituito, la facciata democratica, popolare, legalitaria e costituzionale, dello Stato borghese, accentuandone per converso gli aspetti appunto di violenza, di sopraffazione e di autoritarismo.

Lo sviluppo di questa parte critica ha per sbocco naturale la rivendicazione della forza, della violenza e della dittatura come armi proprie della classe che la stessa borghesia ha allevato nel proprio seno, e che è destinata ad essere, nella frase di Marx, la sua becchina. E’ centrale nella concezione marxista il principio che lo scontro fra le classi si decide non sul terreno del diritto, ma su quello della forza  -  forza che nella sua massima espressione è violenza rivoluzionaria, eversiva dello stato capitalistico, autoritaria e centralizzatrice, e si traduce, una volta conquistato il potere, in un’altra forma di violenza pianificata e sistematica: la dittatura. Indipendentemente dagli aspetti più visibili, che fanno lo scandalo degli ideologi borghesi, della violenza dittatoriale, inseparabile dalla rivoluzione proletaria come da qualunque rivoluzione attraverso la quale una nuova classe abbatta il potere della classe fino allora dominante sotto l’urgere di determinazioni materiali ed economiche, è infatti tipico e distintivo della dittatura di classe il fatto di escludere dalla vita politica e quindi dallo stesso Stato la classe vinta, vietandone l’associazione, la propaganda, la stampa con mezzi coercitivi anche quando apparentemente affidati non al pesante braccio di una forza fisica, militare o altra, ma agli articoli di una legge sia pur non codificata al modo delle costituzioni borghesi.

Questo concetto, che si ritrova in tutti i testi del marxismo, va completato con l’affermazione che, per l’esercizio della violenza rivoluzionaria nelle fasi di attacco al potere borghese come nell’esercizio della dittatura e nei compiti militari ed economici strettamente legati al procedere internazionale della rivoluzione proletaria, è necessario alla classe un organo specifico, anch’esso centralizzatore (e centralizzato sulla base di un programma scavalcante i limiti della contingenza temporale e dell’accidentalità spaziale), cioè il partito, in cui si condensano la coscienza delle finalità ultime della classe oppressa e del cammino che questa deve percorrere per raggiungerle e la volontà di raggiungerle, e senza il quale è postulato marxista che neppure la classe statisticamente intesa è veramente classe;  non più “classe per il capitale”, ma “classe per sé”.

La demolizione della finzione democratica in quanto arma di dominio dittatoriale della borghesia si completa quindi con la distruzione del mito di una “democrazia operaia” che sacrifica gli obiettivi finali e permanenti del movimento proletario alle inevitabili oscillazioni, indecisioni, incertezze e, perfino, diversità di interessi locali e corporativi, della classe nella sua espressione statistica immediata. Sono con questo “garantite” la rivoluzione e la dittatura, come ansiosamente chiedono i nostalgici della consultazione delle masse, dai pericoli di degenerazione di cui la Russia proletaria pur gloriosamente vittoriosa nell’Ottobre ha dato un tragico esempio  -  la chiave del quale va peraltro cercata altrove, cioè nella mancata estensione mondiale della rivoluzione proletaria tanto più fatale per i destini di una rivoluzione doppia come quella russa, e che quindi per noi è una conferma teorica nella stessa misura in cui è stata una sciagura pratica? Rispondiamo, e abbiamo sempre risposto, che se non esistono garanzie né relative né assolute di questo genere, esistono però alcune condizioni se non di salvezza da una minaccia di rinculo e di sconfitta, certo di sicura rinascita dopo di esse, la cui ricerca, la cui difesa, la cui realizzazione devono essere compito instacabile del nostro movimento. Con una enumerazione di queste condizioni, strettamente politiche e programmatiche, non statuarie e formalistiche, si chiude questo nostro fondamentale testo di partito.

 

Gli ultimi due testi, Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista e Partito rivoluzionario e azione economica, sono il resoconto della Riunione di Roma del 1° aprile 1951 che uscì ciclostilato nel “Bollettino interno”, n.1 del 10 settembre 1951.

Il rovesciamento della prassi nella teoria marxista mostra, in forma schematica ma efficacissima, come nella concezione marxista il processo attraverso il quale i singoli e le comunità raggiungono la coscienza dei propri obiettivi è l’ultimo anello di una serie ascendente che parte dalla spinta dell’interesse economico, si esprime nell’azione anche inconscia, e solo nel corso di questa, o perfino dopo che essa ha raggiunto il suo obiettivo, trova la sua razionalizzazione cosciente. Solo nel partito di classe la coscienza e, in date fasi, la decisione di azione precedono e non seguono lo scontro di classe, pur restando tale possibilità organicamente inseparabile dal gioco molecolare delle spinte iniziali fisiche ed economiche. In ciò risiede appunto, il senso del “rovesciamento della prassi”, cioè dell’inversione, possibile solo nel partito, della serie materialistica “determinazione economica  -  azione  -  coscienza”, serie che capovolge quella tipica di tutte le correnti idealistiche, di cui i vari immediatismi (spontaneismo, operaismo, ordinovismo, ecc.) non sono che altrettanti esempi.

Partito rivoluzionario e azione economica ribadisce il punto fondamentale che il lavoro e la lotta nel seno delle associazioni economiche proletarie è condizione indispensabile per il successo della lotta rivoluzionaria, ovviamente insieme alla pressione delle forze produttive contro i rapporti di produzione e alla giusta continuità teorica, organizzativa e tattica del partito politico. La storia dell’associazionismo operaio è poi rapidamente seguita nel suo passaggio attraverso le successive fasi storiche, da quando la borghesia vittoriosa lo impediva per legge spingendo di rimbalzo i primi conati proletari di costituzione di organizzazioni economiche di difesa su un terreno direttamente politico, a quando, nel periodo di evoluzione cosiddetta pacifica del capitalismo, la classe dominante passò a tollerare le associazioni sindacali cercando tuttavia (e in gran parte riuscendovi) di attirarle nella propria orbita attraverso la limitazione dei loro obiettivi e delle loro lotte tramite l’influenza del revisionismo e dell’opportunismo, e grazie anche al costituirsi di un’aristocrazia operaia materialmente portata ad appoggiare l’ordine esistente, fino a quando, dopo il trionfo del fascismo e la sua successione ad opera della democrazia vittoriosa nella seconda guerra mondiale e grazie allo sfacelo prodotto dall’ondata opportunistica nota come “stalinismo”, la borghesia, pur mantenendo la finzione della libertà di associazione, ha proceduto in misura crescente, anche se con ritardi da un paese ad un altro, ad imprigionare l’inquadramento sindacale nelle articolazioni del suo potere di classe, in ciò facilitata anche da fattori oggettivi che, non sopprimendo certo il fondamentale e irriducibile antagonismo tra le classi, l’hanno tuttavia in parte attenuato o diluito.

A prescindere dalle congiunture imprevedibili (allo stato dei fatti) nel modificarsi, dissolversi e ricostituirsi delle associazioni a tipo sindacale oggi esistenti, rimane per noi un punto fermo che non esiste prospettiva di movimento rivoluzionario generale non solo senza i due fattori di un ampio e numeroso proletariato di salariati puri in lotta aperta contro il regime borghese e di un forte partito di classe rivoluzionario inquadrante una minoranza dei lavoratori sulla base dello storico programma marxista, ma senza un grande movimento di associazioni economiche che abbracci una parte imponente del proletariato e nel quale il partito stesso abbia esteso la propria influenza contrapponendola a quella della classe e del potere capitalista, contrabbandata nelle sue file dall’opportunismo, e che tali associazioni devono risorgere nella fase di avvicinamento alla rivoluzione.

A distanza di trent’anni, i tre testi completano quindi il tema già svolto nella prima parte, inquadrandolo nella visione generale della storia propria del marxismo.

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