DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Quest'articolo sulla situazione economica e sociale in Friuli Venezia Giulia non ha la pretesa di essere esauriente, ma solo di dare alcune indicazioni sulle trasformazioni in atto nel tessuto produttivo e nella condizione dei proletari di fabbrica e dei servizi.

La crisi del Nordest si evolve con protagonisti vecchi e nuovi. Al suo centro, rimane sempre il sistema bancario, specie cooperativo e popolare, nel contesto delle difficoltà del settore nell'intera area europea, compreso il confinante mondo germanico. I dati su produzione e occupazione, a dispetto dell'ottimismo governativo, non comunicano segnali significativi di ripresa e rimangono all'insegna della stagnazione. In un quadro tutto sommato depresso, che potrebbe peggiorare per le ripercussioni dello scandalo Volkswagen, procede la tendenza alla concentrazione aziendale e all'adozione di tipologie contrattuali che rafforzano la flessibilità occupazionale e salariale.

Le rare azioni operaie di difesa si scontrano con la debolezza della classe, frammentata per tipologia di contratto, etnia, condizione famigliare, situazione dell'azienda, e così via.

La Regione interviene in questo contesto con erogazioni di sostegno al reddito per le categorie più deboli, quasi a prefigurare un nuovo modello di welfare di potenziale applicazione su scala nazionale.

Dopo la forte espansione che aveva portato, una quindicina di anni fa, con l'acquisizione della Banca Popolare Udinese, a una presenza capillare nel territorio della provincia, il bilancio 2014 della Banca Popolare di Vicenza si è chiuso con un rosso di 1,050 miliardi. Non sono stati annunciati licenziamenti, ma nel Triveneto si chiuderanno ben 39 filiali e probabilmente la banca ricorrerà a uscite volontarie. L'istituto è sotto inchiesta da parte della Banca d'Italia per una storia di compravendita di azioni: la banca finanziava i clienti perché acquistassero azioni dell'istituto, in modo da sostenerne il prezzo e rientrare nei parametri di liquidità stabiliti dalle normative europee. In molti casi, la concessione di un mutuo era subordinata a un finanziamento aggiuntivo per l'acquisto di titoli della banca. Il risultato è stato il gonfiamento del capitale azionario, così da dissimulare la reale entità del patrimonio ed evitare l'intervento della Banca d'Italia. Evidentemente, i vertici della banca hanno promosso operazioni con una leva finanziaria assai elevata che hanno portato ingenti perdite. Una delle operazioni sotto inchiesta riguarda investimenti nel risparmio gestito per 350 milioni, su un totale di 450, in tre soli fondi off-shore, di cui la banca è risultata l'unico sottoscrittore. Ne sono derivate perdite per oltre 100 milioni, ma probabilmente ne seguiranno altre perché i gestori dei fondi non sono in grado di attribuire un prezzo ai titoli in portafoglio. L'ipotesi degli inquirenti è che i tre fondi esteri fossero in realtà veicoli per finanziare i clienti che investivano in azioni della banca. Ora, con il bilancio in profondo rosso, le azioni della Popolare hanno subito un forte deprezzamento e di fatto sono invendibili (Il Sole24Ore del 15/10/2015). I numerosi sottoscrittori in provincia (circa 12.000) si aggiungono alla lunga schiera dei piccoli risparmiatori rovinati, come i pensionati e i lavoratori dipendenti vittime della bancarotta della Coopca, di cui abbiamo parlato nei precedenti numeri di questo giornale. Con la crisi della banca veneta, l'area sociale soggetta a impoverimento si estende ora a settori del ceto medio che vi avevano collocato risparmi anche ingenti. Entrambe le vicende sono frutto della propensione all'azzardo e a imbrogliare le carte che contagia il settore finanziario, anche nelle branche “legate al territorio”, tradizionalmente votate al finanziamento di artigianato e piccola impresa e alla gestione “sicura” del risparmio.

Situazioni come queste sono destinate a ripetersi. Dal 2016, la gestione delle crisi bancarie, finora sanate da costosissimi interventi pubblici, graverà sulla clientela, in base a un ordine di priorità delle perdite che mette al primo posto i possessori di azioni e all'ultimo i correntisti. Ma la stagione dei salvataggi non si è del tutto esaurita. La Hypo Bank Italia, con sede i Friuli, è l'unica sopravvissuta di una vasta rete di banche diffusa in Austria e nel Sudest Europa. Tutte le altre sono state vendute e gli attivi sono passati in gestione a una bad bank (Heta) che cerca di piazzarli sul mercato a un qualche prezzo. La Hypo italiana è stata salvata dal governo di Vienna che ne è diventata azionista unico, per evitare che intervenisse la banca d'Italia a gestire le perdite, decurtando o azzerando il valore dei titoli. Anche qui, all'origine dei colossali buchi di bilancio c'è una truffa alla clientela costata oltre 100 milioni di rimborsi. La cura pubblica, manco a dirlo, ha restituito alla banca una salute invidiabile e ora, con un rating patrimoniale che pochi istituti possono vantare, è pronta a riprendere... l'onesto vampirismo sociale. La vicenda è più complessa della nostra rapida disamina, ma i dettagli interessano poco. Ci interessa piuttosto sottolineare il perdurare della crisi bancaria che, con l'esaurirsi dei salvataggi pubblici “a pioggia”, porterà inevitabilmente a fallimenti e concentrazioni, oltre che alla rovina di altre migliaia di azionisti. La tendenza è assecondata dalle novità legislative che prevedono la trasformazione delle banche popolari in società per azioni dove le decisioni verranno prese in base alla quota di partecipazione, non più a voto capitario (una testa un voto), aprendo la strada al controllo dei grandi gruppi bancari e alle fusioni.

Al di là degli “scandali”, che sono comunque all'ordine del giorno, all'origine della crisi bancaria c'è l'arretramento della base produttiva, in modo particolare del settore manifatturiero, tradizionale punto di forza dell'economia regionale. I dati fanno a pugni con l'ottimismo esibito dal governo: nel primo semestre 2015, la crescita del Pil del Friuli Venezia Giulia è stata dello 0,4%, come a livello nazionale, ma mentre in Italia gli occupati sono aumentati, seppur di poco (+0,7%), in regione continuano a calare (-0,8%). Dall'inizio della crisi, sono scesi di 23mila unità, di cui più della metà nel manifatturiero. Dal 2009 al 2014, l'industria ha perso più di 1300 aziende su un totale di quasi 2900 imprese che hanno chiuso i battenti. Il costante incremento della C.i.g straordinaria e il tasso di disoccupazione salito all'8% confermano il declino economico dell'area. L'export, che in virtù della deflazione dei prezzi interni dovrebbe compensare il ristagno del mercato nazionale, nella prima metà dell'anno è risultato anch'esso in contrazione nelle due province industriali di Udine e Pordenone. Il notevole balzo dell'export regionale (+6,7%) si spiega con il varo di una nave da crociera nei cantieri navali di Monfalcone (Go), unico motivo che possa giustificare l'ottimismo del governo (dati dal Messaggero Veneto del 20/9/2015).

La Fincantieri di Monfalcone, cuore produttivo e tecnologico delle grandi navi da crociera, impiega 4500 operai, in gran parte immigrati asiatici e balcanici assunti da ditte subappaltatrici con paghe da 3-4 euro l'ora e turni che possono avvicinarsi alle 18 ore al giorno (IlSole24Ore, 5/7/2015). L'unione di bassi salari e alta tecnologia, di manodopera flessibile e altissima organizzazione, ne fa un esempio di grande impresa moderna capace di competere con i colossi mondiali del settore. Ma non sarebbe probabilmente in grado di stare al passo con l'agguerritissima concorrenza estera se non sfruttasse ampiamente condizioni al limite della legalità nella gestione della manodopera, in quella degli scarti di produzione e dei rifiuti e in tutte le fasi operative in cui sia possibile risparmiare sui costi di produzione. L'estate scorsa, divenne un caso nazionale la chiusura del cantiere in seguito al sequestro delle aree destinate allo smaltimento dei rifiuti. Un decreto del governo ordinò il dissequestro e la ripresa dell'attività, a ennesima riprova del fatto che in regime capitalistico la produzione non si può bloccare, che il profitto è una priorità rispetto alla pubblica salute e al rispetto delle stesse regole che lo stato borghese stabilisce. Anzi, la chiusura era stata presentata dalla stampa come una sorta di scandalo, un esempio delle inefficienze dello Stato italiano, attivo più nell'ostacolare le imprese che nel sostenerle. Pur trattandosi di un'azienda di proprietà dello Stato, sfruttamento bestiale, lavoro nero e illegalità devono continuare a prosperare liberamente entro il perimetro dei cantieri, alla faccia delle chiacchiere di cui politici e amministratori si riempiono la bocca. Del resto, l'abbiamo sempre sostenuto: nell'azienda pubblica vigono le leggi ferree della produzione capitalistica tanto quanto in quella privata.

Il capitolo Fincantieri ci dà modo di accennare poi ai cambiamenti intervenuti nella situazione della classe operaia. Un paio d'anni fa, i cantieri erano stati bloccati da uno sciopero condannato dagli anarchici perché, a loro giudizio, guidato da elementi “fascisti” e motivato da ostilità verso la concorrenza al ribasso dei lavoratori immigrati. Lo sciopero era invece interessante per il suo carattere spontaneo e aveva come protagonisti operai di aziende in subappalto con contratti a tempo determinato, a volte con scadenza giornaliera: un vero caporalato legalizzato in un'azienda, come si è detto, di proprietà pubblica. In quel contesto, lo sciopero si opponeva oggettivamente al peggioramento delle condizioni contrattuali, indipendentemente dall'atteggiamento che quei lavoratori potevano avere nei confronti degli immigrati. In un'ottica classista, gli immigrati andavano coinvolti nella lotta, ma pretendere che in assenza di un'organizzazione di classe, anche solo sindacale, possa spontaneamente maturare dall'oggi al domani una simile consapevolezza può essere solo frutto di una visione idealista e spontaneista che non porta lontano.

Da allora, la presenza di immigrati attorno al polo di Monfalcone si è consolidata. Oggi, nel centro della cittadina, risiedono ben tremila “Bangla” (così vengono chiamati gli originari del Bangladesh), ai quali si affiancano migliaia di lavoratori balcanici di 83 etnie diverse (Il Sole24Ore del 12/8/2015). La trasformazione del polo industriale giuliano è iniziata intorno al 2000, con un afflusso costante di immigrati fino alla crisi produttiva di fine decennio. E' superfluo dire che questa manodopera si presta a condizioni di lavoro assai dure e si accontenta di paghe modestissime, a beneficio dei profitti di Fincantieri e delle ditte subappaltatrici. Il giornale confindustriale giudica la loro presenza un modello di integrazione, soprattutto grazie all'... ”indole laboriosa” del Bangla (Il Sole24Ore del 12/8/2015). Il messaggio è chiaro: chi viene qui a farsi sfruttare fino all'osso è il benvenuto. Ma un “proletario laborioso” non ha, per il fatto d'esser “laborioso”, scongiurato un destino di miseria. Dopo la crisi, molti operai bengalesi hanno perso il posto e buona parte si è diretta verso l'Inghilterra, antica patria coloniale. Sono truppe dell'esercito mobile e flessibile del capitale che fluttua in ragione delle fasi espansive e di crisi e si adatta al continuo rivoluzionamento delle condizioni di produzione perché non ha alternative.

La necessità del proletariato di adattarsi non ha limitazioni “etniche”. Anche i proletari autoctoni sono ormai abituati a subire peggioramenti continui delle condizioni di lavoro e riduzioni salariali. La multinazionale Ikea, modello di welfare aziendale, in agosto ha deciso unilateralmente di disdire il contratto integrativo, imponendo un taglio dei premi fino al 25-30% e turni più flessibili. Un taglio di circa 50 euro di premi per dipendenti, in gran parte donne con impiego part-time, che intascano 400-500 euro al mese, non è di poco conto, di questi tempi. Gli operai hanno reagito con uno sciopero in tutti i punti vendita d'Italia, compreso quello regionale di Villesse di Gorizia, dove la pur alta adesione (oltre il 60%) non ha potuto impedire che il centro commerciale aprisse, causa la sostituzione degli scioperanti con lavoratori interinali. La situazione della classe operaia, alla Fincantieri come all'Ikea e ovunque, è oggi più che mai soggetta al ricatto delle aziende che ricorrono a ogni mezzo per creare divisioni tra lavoratori ed indebolire la loro capacità di risposta, complice una legislazione del lavoro e dei contratti che glielo consente ampiamente. Lo sciopero all'Ikea è stato comunque un segnale coraggioso di resistenza a una deriva che sembra non aver mai fine.

Flessibilità all'ordine del giorno anche nel contratto all'Automotive Lighting di Tolmezzo, azienda di 750 dipendenti che produce fari per autoveicoli, di proprietà Fiat (FCA). Lo scambio tra mancato aumento dei minimi salariali e aumento dei premi legati a obiettivi rappresenta un passo ulteriore verso retribuzioni che seguono le fasi alterne di espansione e contrazione della produzione, sempre più schiacciate verso il basso nelle voci fisse e con un ventaglio sempre più ampio in quelle variabili. La novità si lega a un accordo aziendale che prevede l'introduzione di turni di straordinario e l'assunzione di 50 operai a tempo indeterminato. La Fim–Cisl grida al “risultato eccezionale”: ma si tratta della trasformazione di contratti precari abbondantemente sostenuta dall'incentivo statale alle aziende, del tutto funzionale alle necessità dell'impresa che in questo momento deve far fronte a un aumento di commesse. Non abbiamo dubbi sul gradimento, da parte delle imprese, di un contratto definito “apripista”: ma, a forza di simili “successi” sindacali, la classe operaia vedrà stringere sempre più i ceppi della catena che la lega al capitale.

Il quadro che si è cercato di delineare è all'insegna di una metamorfosi produttiva e sociale che, se da un lato presenta il dato delle chiusure di aziende, dell'aumento dei senza lavoro, dell'abbassamento dello standard di vita di settori ampi della popolazione, dall'altro vede consolidarsi il ruolo di alcuni grandi gruppi industriali multinazionali orientati all'export (Fincantieri, Danieli, FCA) e della grande distribuzione, attorno ai quali si rimodella un indotto in base alla capacità di risposta alle esigenze dei committenti. Questi gruppi stanno sul mercato grazie alla totale subordinazione della forza lavoro in fabbriche sempre più simili alla galera, oltre che con il sostegno diretto e indiretto dei comitati d'affari, nazionali e locali, della borghesia. L'Electrolux nel 2014 ha congelato 800 esuberi e ha garantito la propria presenza in Italia in seguito a un accordo con governo e regione che le è valso un finanziamento pubblico di 28 milioni di euro, di cui quasi la metà destinati agli stabilimenti del pordenonese.

Sono aspetti che, unitamente agli incentivi alle imprese e alla nuova legislazione del lavoro, vanno delineando i tratti di una “politica industriale” che punta a rafforzare la competitività delle aziende nazionali sui mercati mondiali. Oltre agli stretti legami economici con l'area germanica, la direttrice “naturale” dell'industria regionale è l'Est Europa, ma non solo. In prospettiva, come conseguenza dell'annunciata fine delle sanzioni, c'è anche la riapertura dei commerci con l'Iran, tradizionale partner soprattutto nel settore dei macchinari industriali e dell'acciaio, con il gruppo Danieli in prima fila (Messaggero Veneto, 17/7/2015). D'altra parte, la buona salute dei grandi gruppi dipende dagli alti e bassi del commercio mondiale, e non sembra in grado di compensare la caduta produttiva conseguente alla morìa di centinaia di medie e piccole imprese. Anche in questa piccola regione, lo sviluppo capitalistico porta con sé prospettive di sviluppo globale da un lato e, dall'altro, di aumento della polarizzazione sociale, dello sfruttamento, della miseria di settori crescenti della popolazione.

Il permanere di una forte crisi occupazionale e la crescente povertà hanno orientato il governo a guida PD di questa Regione relativamente “ricca” a introdurre un sussidio ai disoccupati e agli occupati con bassi stipendi. E' una legge dall'applicazione molto limitata, la prima di questo tipo in Italia, molto lontana dall'idea fantastica di “reddito di cittadinanza” dei 5 stelle (per i quali il capitalismo potrebbe diventare il “paese dei balocchi” se solo fossero gli “onesti” a governare!), ma esprime comunque il tentativo di dare risposte all'incalzare della crisi sociale. Il capitale, ormai prossimo al termine della sua parabola storica, non è nelle condizioni di mettere in campo risorse adeguate per rispondere a contraddizioni sociali sempre più esplosive e difficili da gestire, che in ogni caso non possono trovare soluzione stabile entro i limiti della società capitalista.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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