DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La crisi mondiale che viviamo, mentre riduce drasticamente l’esercito industriale attivo del lavoro rendendo pericolanti gli immensi apparati produttivi e i rapporti sociali in tutto il mondo, spinge verso il baricentro del Capitale enormi masse di proletariato – ciò che Marx chiama “sovrappopolazione di riserva”, strettamente connessa alla “sovrapproduzione di capitale”. Globalizzazione e liberismo non sono che forme e nomi di un gigantesco tsunami economico internazionale contro cui nulla possono nemmeno entità economiche di grande peso. Gli accordi per far rientrare l’Iran nei giochi imperialisti, sottoscritti a Vienna dalle grandi potenze (Usa, Russia, Cina, India, Europa); il Summit a Ufa tra la Russia e i paesi asiatici (compresi Cina e India) per mettere in piedi un’alleanza economica alternativa al potere del dollaro; il diktat imposto dalla Germania (e da grandi e piccoli servitori al seguito) con un programma “lacrime e sangue” alla Grecia; gli scontri delle grandi potenze attorno all’Ucraina; la guerra totale in Medioriente – tutto mostra il passo marziale adottato dall’economia capitalistica per uscire dalla propria crisi.

A fronte di ciò, l’economia greca rappresenta solo un piccolissimo tassello del sistema capitalistico (il 2% del Pil europeo, una popolazione poco più di 11 milioni di abitanti). Dall’inizio della crisi, i governi di Grecia si sono dimostrati nient’altro che semplici comparse alla corte di Bruxelles e lo Stato greco un piccolo dettagliante di commercio, pieno di boria nazionalista vecchio stampo… E tuttavia sembra ai protagonisti europei che l’intero cielo stia crollando a causa dell’“affare greco”, mentre si prepara ben altro che una Grexit: è la polveriera cinese che rischia ora di scoppiare, e ne sono avvisaglie il crollo delle borse di Shangai, la bolla immobiliare, la svalutazione dello yuan. Dopo aver sconvolto la realtà sociale, economica, politica e sovrastrutturale, la crisi finirà per estendersi sempre più a livello planetario, fino a che non si imporrà, drasticamente, la soluzione finale distruttiva: un nuovo conflitto mondiale. La Grecia è solo una piccola pozza d’acqua che si sta prosciugando dopo cinque anni di recessione e non c’è speranza alcuna che la sorgente sotterranea risalga in superficie. La “cura” europea della “malattia” greca non porterebbe ad altro che alla moltiplicazione delle sue metastasi.

Alcuni dati

Senza dimenticare che la Grecia è solo un piccolo esempio di quel che accade in diversa misura in ogni parte del mondo, ricordiamo adesso alcuni dati relativi alla sua situazione economica e sociale. Il tasso didisoccupazione, scrivevamo già a metà aprile 1, ha ripreso a crescere e, a quanto afferma l’Istituto di Statistica greco, più di una persona su quattro è ormai senza lavoro (il 27%, con una disoccupazione giovanile al 50%); sei anni fa, prima che si cominciassero a “negoziare” i piani di “salvataggio” e si entrasse in una spirale di austerità e di recessione, era al 9%. Il prodotto interno lordo dall’inizio della crisi è sceso del 25%, il reddito pro-capite da 21.600 euro annuali nel 2008 s’è ridotto a 16.300 nel 2014.L’ammontare del debito pubblico, dal 140% del 2010, ha raggiunto oggi il 180% del Pil e tende a salire verso 200%. Le famiglie proletarie hanno perso mediamente oltre il 50% del loro reddito e i salari sono stati ridotti mediamente del 37%. I consumi, a loro volta, da quando sono stati posti i controlli sui capitali, sono scesi del 70%. La soglia di povertà (un reddito inferiore al 60% della media nazionale) è passata dal 14% (2009) al 30% (2015) della popolazione, coinvolgendo sempre più pensionati, precari, disoccupati. La pressione fiscale sui lavoratori autonomi è cresciuta di 9 volte e di 7 volte per i dipendenti. L’edilizia è ferma, centinaia di cantieri sono chiusi perché i fornitori vogliono (e non possono) essere pagati in contanti. Il colosso nazionale del gas Depa, sotto il controllo del capitale russo, non riuscendo più a garantire i pagamenti a Gazprom, chiede di rivedere i contratti. Gli ospedali, con i tagli subiti, non ricevono le medicine: per curare i malati si fanno salti mortali, senza contare i sacrifici di medici e infermieri che da mesi non ricevono gli straordinari.

Le misure di austerità supplementari hanno aggravato ancor più la situazione. C‘è chi, per tagliare i “costi della vita”, ha tagliato anche i fili della luce: con la disoccupazione alle stelle e le bollette più salate di gas ed elettricità, la povertà si è annidata in ogni casa. Situazione ancora più complessa è quella delle pensioni, attorno a cui ha continuato e continuerà a giocarsi l’intera partita, nel disprezzo corale delle istituzioni finanziarie. Dal giorno del referendum, che ha rifiutato i sacrifici della Troika, le banche sono rimaste chiuse per due settimane e al prelievo è stato imposto il limite di 60 euro al giorno. Solo il 3 di agosto, dopo cinque settimane di chiusura, la borsa di Atene è stata aperta: il tonfo del 16 % di quel giorno e la caduta dei giorni successivi, altrettanto negativi, non hanno destato meraviglia alcuna (pesanti perdite in tutti i settori, soprattutto in quello dei titoli finanziari, trascinati al ribasso dai titoli delle banche, rimasti sospesi per eccesso di ribasso) 2.

I tre governi che si sono succeduti dal 2009 (Papandreu, Papademos e Samaras), prima che Tsipras vincesse le elezioni a gennaio, oltre ad abolire la tredicesima per tutti i pensionati, avevano bloccato per ben tre volte la spesa previdenziale, riducendola o passando dal sistema contributivo a quello retributivo. Per una popolazione sempre più anziana e con sempre meno giovani con un lavoro stabile per l’assenza di una vera industria, l’idea stessa di fondare sulla ripresa futura le possibilità della crescita economica e degli investimenti è stata accolta solo come una boutade. Le organizzazioni caritatevoli spiegavano già alcuni mesi fa che il 90% delle famiglie nei quartieri più poveri di Atene, e non solo, si rivolgeva ogni giorno alle mense dei poveri per la sopravvivenza, ma anche agli uffici pubblici che si riempivano di bisognosi alla ricerca di un sostegno familiare.

Il proletariato, dicono ancora le anime soccorritrici, si troverebbe di fronte a una “crisi umanitaria”, in uno “stato di emergenza”. Ciò che non dicono è che il proletariato sta subendo un furioso attacco alle condizioni di vita e di lavoro. Le lotte del 2010-11, gli arresti a centinaia per le vie di Atene, gli elicotteri sulla città e la polizia in assetto di guerra “per la sicurezza dei cittadini” non sono bastati a sedimentare purtroppo alcuna esperienza. La rivendicazione della storia nazionale, della democrazia come il non plus ultra della civiltà, mostra che il proletariato, pur essendo allo stremo delle forze nella sua attuale condizione sociale, ha ancora da perdere una montagna di illusioni per riuscire a battersi. Solo se abbandonerà del tutto quell’identità nazionale che gli si è appiccicata addosso (o con cui l’hanno marchiato a fuoco) esso potrà battersi sul serio contro la borghesia e la piccola borghesia, che non fanno altro che ricordagli in ogni istante nazionalismo e valori democratici come se fossero nel suo DNA.

Bottegai, contabili e agenti di riscossione

In questi anni di crisi, la politica tedesca è stata messa sotto accusa dai critici dei diversi fronti dell’area euro perché responsabile di un atteggiamento oscillante, insieme “disponibile e intransigente”, nelle questioni delle crisi debitorie degli Stati europei (Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna – i cosiddetti Piigs). La crisi in Ucraina, in modo speciale, l’ha costretta a “ripensare e ricollocare”, sotto la potente pressione americana, la propria posizione strategica nell’Est europeo, mentre la consapevolezza sia dei danni che un’uscita di Atene dall’area euro arrecherebbe alla sua immagine di forza sia di quelli che la sua presenza nell’Unione monetaria già arreca, essendo la Grecia alla totale mercé dei mercati, le ha imposto una posizione paradossale e pericolosa nello stesso tempo.

Una leggerezza, sostengono i critici tedeschi, perché danneggia il futuro politico unitario della zona europea (che è l’unica possibilità per la Germania di conquistarsi lo spazio politico ed economico ad est e a sud fino ai Balcani, spazio che le è contestato tanto dagli Usa che dalla Russia) e rovina la credibilità dell’euro (che rappresenta le grandi potenzialità del suo imperialismo). Gli incontri, le riunioni e le pressioni della Troika hanno imposto alla Grecia un “pesante diktat autoritario” e insieme una drastica cura dimagrante; le “istituzioni d’Europa” (ministri, economisti, banchieri) riunite a Bruxelles si sono rivelate autentiche congreghe di bottegai, contabili e agenti di riscossione: una sommatoria di Stati borghesi, grandi e piccoli, che avanzava insieme il diritto di imporre il proprio ordine e di salvarsi dal pericolo di affondare. Come dimostriamo in un altro aarticolo, l’Unione Europea, in queste vicende ha mostrato in realtà di essere ciò che è sempre stata: un’unione di Stati tenuti insieme da “accordi di libero scambio” a “dominante tedesca”, con quest’ultima che è tuttavia incapace di fare i conti reali con il proprio ruolo politico. Solo la piccola borghesia si è ubriacata negli anni pensando a una vera “Unione politica”. Mentre si trattava di accordi economici di settore (limitazioni di produzione per evitare le sovrapproduzioni in campo agricolo e industriale), e si passava dalla “regolazione dei cambi” (per impedire svalutazioni competitive) agli “accordi monetari” (Ecu, paniere di monete; Sme, serpente monetario europeo, poi Euro), essa giurava sulla “moneta unica” come vero collante politico dell’Unione. L’introduzione dell’Euro come moneta comune non ha tuttavia cambiato e non cambia il significato di “un’unione di Stati libero-scambisti”, universalmente indebitati, strutture parassitarie e usuraie che hanno il compito, in verità, di ridurre al silenzio il proletariato, impedendo “preventivamente” ogni sua purminima reazione.

Da anni, le “colpe” della Grecia sono state messe in risalto dagli Uffici delle Entrate dell’Fmi, della Commissione europea e della Bce. Attorno al palco dove viene eseguita la sentenza di morte, l’assise internazionale degli Stati (che, più sono piccoli, più abbaiano forte!), la grande borghesia in tutte le sue varianti, grida: “Date sotto ai lavoratori, ai pensionati, ai disoccupati, agli immigrati, ai precari, ai poveri, a tutti i fannulloni! Gli serve una dura lezione!”. L’assenza di una vera attività industriale, e quindi di un proletariato organizzato capace di difendersi e di battersi sulle proprie posizioni di classe, e la presenza politicamente pesante delle illusioni della piccola borghesia hanno reso l’ibrido sistema sociale incapace di tentare un percorso di minima autodifesa. Tra la massa schiacciata dalle illusioni, si trovano le figure di sempre: i riformisti, i pacificatori, i cappellani, i politici appiccicosi; ma soprattutto ci sono gli onnipresenti miraggi dell’opportunismo internazionale che sventola la bandiera del “fronte unito democratico delle sinistre”, dell’”Europa democratica dei popoli”, del “governo nazional-sociale”. In verità, in questa rappresentazione c’è spazio per tutti i raggruppamenti politici: di destra, di sinistra e rosso-bruni. Stringendosi attorno al Parlamento, ci si sgola in piazza Syntagma: “Resistenza umana contro il terrorismo finanziario! La democrazia non si umilia e non si ricatta”!

Per il proletariato, la fiducia nella democrazia, nelle libertà borghesi e nei suoi contenitori nazionali è la sua campana a morte. Mentre per i comunisti rivoluzionari la crisi dell’economia mondiale, con tutti i suoi travagli, è la tangibile conferma della non eternità del capitale, della certezza della teoria rivoluzionaria e della speranza della rivoluzione, per la piccola borghesia essa è pura disperazione, che si manifesta dentro il megafono delle illusioni, delle litanie e degli slogan. Il proletariato deve combattere in modo radicale la malattia del cosiddetto “compagno di strada” piccolo-borghese scivolato nella miseria: il suo terrore di sprofondare tra i senza riserve contagia il proletariato abbassandone i livelli di autorganizzazione, di autodifesa e di lotta.

La piccola borghesia riunita attorno a Syriza

Syriza è l’espressione della piccola borghesia, del ceto medio impiegatizio, di una fetta di aristocrazia operaia, di popolo minuto alimentato anno dopo anno da piccole e grandi concessioni, agevolazioni, risparmi. Tsipras agisce dentro questa palude nazionale in cui le classi perdono il proprio volto e che nulla ha a che spartire con il proletariato, sebbene esso, nelle attuali condizioni stagnanti della lotta di classe, vi rimanga sprofondato. Nelle case, nelle fabbriche, nei quartieri, il proletariato cova solo un rabbioso mugugno: ma il conflitto non esplode (non può esplodere) in lotta a oltranza contro gli agenti del Capitale, a causa della presenza in campo di esperti in impiastri e panacee e per l’assenza purtroppo delle avanguardie rivoluzionarie e del Partito di classe. La consapevolezza della necessità della lotta di classe, la prospettiva della dittatura del proletariato, il bisogno di comunismo sono ancora lontani. Le manifestazioni degli anni passati, controllate e poi disperse, si sono spente: dall’inizio dell’anno, il dopo Pasok-Nuova Democrazia è diventato il tempo delle promesse, che rendono più gravi le condizioni delle sconfitte subite. Le armi della democrazia a tutti i livelli (le elezioni, il parlamentarismo), più letali dei carri armati, hanno permesso di sradicare anche il ricordo delle lotte degli anni passati. Prima che Syriza iniettasse un soporifero sonnifero, gli scioperi e le manifestazioni erano stati numerosissimi: ma purtroppo sono stati resi inconsistenti e inefficaci prima dagli “esteti del gesto” (anarchici e affini) e in seguito dagli spettri tristi delle organizzazioni sindacali dell’industria privata e del pubblico impiego (non parliamo poi dei nazionalisti del Pke e del loro referente sindacale, il Pame!).

Il ruolo di tutte queste organizzazioni nazionalistiche e parlamentari alimenta la rassegnazione e la resa: così come furono cinghia di trasmissione del Pasok, adesso lo sono anche di Syriza. Trasmettono la pantomima, i giochi clownistici dei loro rappresentanti politici e sindacali, che starebbero combattendo, a loro dire, una gigantesca battaglia contro i grandi mostri d’Europa. Syriza, che non si è fatto scrupolo di chiamare al governo il raggruppamento di estrema destra “Greci indipendenti” (Anel, molto legato all’ambiente dell’esercito e della polizia), si è presentato alla Troika (con la coalizione eterogenea di cui è costituito: antagonisti di varia natura, anarchici, “marxisti” e trotskisti) con un menù di promesse. E in realtà ha chiesto alla grande borghesia europea di essere messo nelle condizioni di gestire le tensioni sociali, perché il prolungarsi delle misure di austerità avrebbe potuto dare l’innesco alla miccia della lotta di classe. Mentre la Bce forniva alle banche greche, per non farle fallire, una buona dose di miliardi (i prestiti di emergenza), divenendo così fornitore dei capitali in fuga dalla Grecia, nel frattempo concedeva loro la possibilità di pagare parte i crediti in scadenza, senza di cui il fallimento della ditta Grecia era assicurato.

Giunto alla fine dei giochi, Syrisa, con un programma dettato e scritto dalla famosa Troika, di attestazione di fallimento politico ed economico, deve arrendersi, mentre la sua maggioranza si dissolve accettando un ultimatum e un atto di resa totale. Non ci sono tregue né armistizi: s’impone non solo il pagamento dei crediti ricevuti (pagamento dovuto alla condizione di debitore), ma anche una penale: il sequestro di parte del patrimonio greco se il governo non rispetta, con il durissimo attacco alle condizioni di vita e di lavoro del proletariato, il contratto firmato.

Stupidità di sinistra e ferocia finanziaria

Fin dal primo approccio con la Troika, dal cappello del suo mondo dei sogni (il “programma di Salonicco”, stilato nel settembre del 2014) Tsipras aveva tirato fuori la restituzione della tredicesima ai pensionati, il contenimento del prezzo dei combustibili, l’innalzamento del salario minimo da 427 euro a 750; 300 mila posti di lavoro, la riassunzione di 100 mila statali licenziati, il ripristino dei contratti collettivi e la fissazione di limiti alle possibilità di licenziamento. E inoltre aveva promesso forniture elettriche e alimentari gratuite a 300mila famiglie, la soppressione della tassa sulla prima casa, l’esenzione fiscale fino a 12 mila euro.

Il costo di queste promesse sarebbe stato di 12 miliardi con una copertura garantita dalle maggiori entrate “prevedibili” per le misure di “rilancio” dell’economia, dalla “lotta all’evasione”, dalla “soppressione” dei privilegi fiscali, dal “divieto” di trasferire all’estero i capitali, dalla riallocazione delle risorse dei programmi europei e del Fondo di stabilità finanziaria... C’era di più: Tsipras minacciava la nazionalizzazione delle banche se queste “avessero osato” (per i prestiti in sofferenza) sequestrare le prime case, confiscare i conti correnti e spremerei salari per insolvenza nei pagamenti; ma degli 11 miliardi del Fondo ellenico che dovevano servire per finanziare misure sociali non si è visto più nulla. Che fine hanno fatto questi castelli in aria?

Questo programma allettante, proposto nella realtà violenta in cui il proletariato oggi è immerso, sapeva di provocazione, servilismo e stupidità. Con queste offerte da supermercato al tempo dei saldi, Syriza si è presentato alle elezioni. E ha vinto in gennaio. Le grandi illusioni, le pretese piccolo-borghesi, adesso avevano un nome: erano i Quattro Pilastri della Saggezza che avrebbero sollevato la Grecia dalla situazione di crisi. Gli slogan con cui ha vinto alle elezioni erano: “Affrontare la crisi umanitaria. Riavviare l’economia. Promuovere la giustizia fiscale e riconquistare l’occupazione. Rafforzare la democrazia”. E che cosa chiedeva in cambio dalla Troika? 1) la cancellazione della maggior parte del valore nominale del debito pubblico in modo che fosse sostenibile nel contesto di una “Conferenza europea del debito” (era successo per la Germania nel 1953: perché non poteva accadere per il Sud Europa e la Grecia?); 2) l’inclusione di una “clausola di crescita” nel rimborso della parte restante, in modo che tale rimborso fosse finanziato con la crescita e non attraverso leggi di bilancio; 3) l’inclusione di un periodo significativo di grazia (“moratoria”) nel pagamento del debito per recuperare i fondi per la crescita; 4) l’esclusione degli investimenti pubblici dai vincoli del Patto di Stabilità e di Crescita; 5) la promozione di un “New Deal Europeo” di investimenti pubblici finanziati dalla Banca europea per gli investimenti. Posizioni, queste, lontane le mille miglia dalla contabilità generale della Grande Agenzia di Riscossione della Troika! Se non era stupidità, allora era provocazione. A un tale programma si poteva rispondere solo con una pernacchia e la Troika lo ha fatto, mandando un segnale di solida ferocia.

Da parte nostra, al contrario, avremmo dato una sana lezione educatrice di violenza proletaria sia agli uni che agli altri! Indifferenti alle cinghiate cui sarà sottoposta la piccola borghesia (commercianti, piccoli e medi imprenditori, truffatori, giocatori in borsa), a noi interessa l’attacco che il proletariato subirà, nei tre pacchetti proposti dalla Troika: 1) riforma (=aumento) dell’Iva (23%, 16%, 6%), ovvero trasferimento finale dei prezzi delle merci sui salari; 2) riforma delle pensioni, ovvero aumento degli anni di lavoro forzato fino a 67 anni, con penalizzazione dei pensionamenti anticipati, eliminazione progressiva del sussidio destinato alle pensioni più basse e intervento contro la Corte costituzionale che ha annullato i tagli del 2012; 3) conti pubblici e tagli automatici, ovvero intervento automatico sui salari e sugli stipendi nel caso si sforino gli obiettivi di spesa; 4) riforma del mercato del lavoro, ovvero revisione e modernizzazione rigorosa della contrattazione collettiva, comprese le norme sui licenziamenti, previo approccio concordato con le istituzioni (al centro di tale “modernizzazione”, il costo del lavoro e l’orario, oltre che i tagli sostanziali sul numero dei dipendenti pubblici). Un vero e proprio attacco aperto.

L’avanzata del granchio in tre mosse e il controllo sociale

Non è passato molto tempo (solo sei mesi) dai primi incontri con la Troika a Bruxelles che Syriza ha cominciato a rinculare, mese dopo mese, fino alla resa totale, all’accettazione di tutti gli ordini impartiti dalla Troika e alla liquidazione dello stesso suo partito, subordinando ogni spesa statale (pensioni, stipendi, salari, fornitori, salute pubblica, ecc.) al rispetto dei vincoli di bilancio, in percentuali crescenti di deficit anno dopo anno, dal 2015 (0,25%, 0,5%, 1,75%, 3,5%), per cercare di ridurre il debito pubblico 3.

All’elettorato, davanti al quale aveva denunciato il piano di privatizzazioni dei precedenti governi (isole, cantieri, porti, imprese, strutture turistiche), che cosa dirà Tsipras? Dirà “Dietrofront!”… E così verrà istituito, impone la Troika, un fondo indipendente di 50 miliardi con sede in Atene, raggruppante società pubbliche nel campo dei trasporti, delle telecomunicazioni, della finanza, in cui porre gli asset da privatizzare il cui uso dovrà servire alla ricapitalizzazione delle banche (25 miliardi), alla riduzione del debito (12,5 miliardi) e agli investimenti(12,5 miliardi). Nuova festa, dunque, per le banche e per la borghesia speculativa affaristica (immobiliare) e imprenditoriale, e altri tratti di corda per il proletariato e la piccola borghesia. Realismo per realismo, non c’è nulla di meglio dei pagamenti costituiti da realtà tangibili come l’affare sui porti del Pireo e di Salonicco, gli aeroporti e le aziende pubbliche più importanti. In quanto a tasse e spese, è annullata la proposta di Tsipras, coerentemente borghese, della tassazione progressiva nei confronti dei redditi più elevati e del contributo di solidarietà dei redditi sopra i 30 mila euro. E’ pure annullata la proposta del prelievo del 12% una tantum, soprattutto da quelle aziende che hanno più di 500 milioni di utili, viene comunque aumentata l’aliquota per le società dal 26% al 28% ( e non al 29%, come proposto da Tsipras). Un rinculo senza rimedio. E’ inoltre abolito il trattamento agevolato per gli agricoltori (in particolare, sul gasolio e per i trasporti nelle piccole isole lontane), una riforma a cui resta ancora attaccata la sinistra di Syriza. Per quanto riguarda le pensioni, è previsto, in linea con la Troika, un graduale innalzamento dell’età a 67 anni entro il 2022 (o 62 con 40 anni di contributi) a partire dal 2015, una stretta sui prepensionamenti (ovvero un meccanismo che impone la penalità del 10% nel caso di ritiro anticipato): ma verranno anche eliminati i contributi previdenziali per le pensioni più basse.

Il Parlamento di Atene, dunque, dopo essersi rimangiato il proprio programma già con il primo e il secondo pacchetto di riforme richieste per riavviare i negoziati sul piano di salvataggio, ha proseguito con il terzo, al fine di ricevere aiuti per 86 miliardi di euro (che non sono gratis!). E il terzo pacchetto di misure è la… terza mossa del gambero, volta a permettere alla Grecia di ricevere nuovi finanziamenti e rimborsare il prossimo bond alla Bce (3,7 miliardi, in scadenza il 20 agosto). Il punto dolente è la riforma del mercato del lavoro, di cui ancora si parla solo in forma generica. Qui il cappio deve stringersi fino al soffocamento, qui è la prova del nove.Il 3 agosto, al termine di cinque settimane di inattività, la Borsa di Atene ha riaperto con un calo del 22,87%, per chiudere poi a -16,2%, quello stesso giorno. La caduta dei giorni successivi, altrettanto negativi, non ha destato meraviglia alcuna (pesanti perdite in tutti i settori, soprattutto in quello dei titoli finanziari, trascinati al ribasso dai titoli delle banche, rimasti sospesi per eccesso di ribasso; pesantissima la giornata per i titoli bancari, quasi tutti prossimi alla soglia di perdita del 30%). Si è trattato del più lungo periodo di chiusura del mercato azionario greco dagli anni Settanta. La riapertura della Borsa ha coinciso con il giorno di comunicazione dei dati relativi al crollo del manifatturiero sceso ai minimi record dal 1999 per il tonfo degli ordini e i gravi problemi di approvvigionamento dovuto alla serrata delle banche. Oltre il 43% dei piccoli e medi imprenditori ha dichiarato di aver avuto problemi con i tempi di consegna per le restrizioni agli istituti di credito. E la produzione manifatturiera (il 10% dell'economia greca) è crollata a luglio con il picco della crisi del debito.

Syriza dovrà occuparsi, in realtà, del controllo della tensione sociale: questo è il suo vero compito – chiudere entro i confini di un contrasto nazionale e popolare l’intera faccenda. Il che significa condannare il proletariato a nuove forme di subordinazione al capitale, interno e internazionale, a cui si aggiungerà il tratto distintivo di tutta l’ideologia borghese: insufflare nella piccola borghesia, nelle classi medie, l’orgoglio d’essere i salvatori della patria (con le loro piccole imprese, con il loro piccolo risparmio accumulato), d’essere la vera classe attiva (onesta, pulita) in tutti gli aspetti della vita sociale, unici eredi del patrimonio culturale, democratico, civile della società greca! La restituzione differita di 1,6 miliardi al Fmi di fine mese (giugno) e gli altri pagamenti di fine agosto alla Bce (3,7 miliardi), ottenuti stringendo ancor più la corda intorno alla gola del proletariato, e la fuga dei capitali dal Paese (depositi di privati e aziende) costituiscono i tratti caratteristici di questo finale di partita. Quanto tempo occorrerà per saldare il debito pubblico? Presto, gli attacchi che la stessa piccola borghesia è destinata a subire spingeranno a grida di guerra: ma non contro la borghesia che l’ha ridotta allo stato attuale di precarietà e di miseria, bensì contro il proletariato. Quella “maggioranza silenziosa” non sarà più tale e urlerà tutto il proprio livore reazionario: gli inni alla “pace sociale” si trasformeranno in allarmi e proclami rivolti allo Stato borghese, perché intervenga con la polizia e l’esercito a ripulire le strade. Nel corso dei numerosi scioperi del 2010-11, la polizia si era avventata sulle manifestazioni, ma il proletariato, nutrito di legalità, non poteva far nulla: si è consegnato alle elezioni. Le destre “non sono passate”, avevano esultato con un sospiro di sollievo i tanti “solidali” di sinistra. E tuttavia i “pasdaran della democrazia”, che in Tsipras hanno trovato il loro campione, inoculando l’“antifascismo democratico militante” e negando alla realtà dello Stato democratico e costituzionale la stessa ferocia di quello fascista, si daranno da fare per consegnare il proletariato alla repressione.

L’onda lunga del credito internazionale strozza il proletariato

La borghesia è consapevole che il capitale greco (nemmeno quello depositato nella Banca centrale) non è proprietà nazionale, perché l’economia del paese, pur minuta, è parte del grande capitale internazionale. Nel mercato globale, la competizione, la concorrenza e le guerre commerciali, finanziarie e valutarie, sono i fondamenti della “libertà borghese” tout court. L’intero sistema della libertà capitalistica connette i capitali in un solo immenso capitale. Chi garantisce l’esistenza stessa della Grecia, infatti, è il credito internazionale, ai cui piedi siede il debito pubblico e privato: altrimenti essa, come ogni altro Stato, non potrebbe stare allo stesso “tavolo da gioco”. Un “tavolo”, a cui il proletariato non potrà mai sedersi, perché non ha alcun titolo per farlo, se non quello di farlo saltare un giorno con la dinamite. La piccola borghesia greca, con le proprie lamentele, tenta di trascinare il proletariato in un “lutto condiviso” – quello del debito sovrano; ma la sua debolezza è una maschera: l’odio che essa nutre nei confronti del proletariato è pari all’adorazione mistica nei confronti della grande borghesia.

La bilancia commerciale greca è sempre stata negativa, le importazioni dal 1982 in avanti sono sempre aumentate. Il debito nel corso della crisi è cresciuto sempre. Per sopravvivere, la Grecia ha dovuto ricorrere continuamente ai crediti che sono stati divorati dalla grande borghesia, dalle classi medie e soprattutto dalle banche europee e internazionali, nel gran giro degli affari finanziari rappresentati anche dalle Borse mondiali. In quel mare di prestiti, hanno sguazzato affaristi, speculatori, immobiliaristi, azionisti, armatori. Il rinnovo continuo del credito negli anni pre-crisi ha alimentato un’onda di consumo in Grecia, proveniente dalla Germania, dalla Gran Bretagna, dalla Francia, dall’Italia. La Germania (e l’allegra sua compagnia), stritolando la propria classe operaia con bassi salari, limitazione dei sussidi, riduzione degli orari di lavoro, ha creato una grande bolla di sovrapproduzione (esportando merci e capitali), tale da determinare quell’indebitamento enorme che è stato il soffio vitale, il polmone della realtà greca: che adesso, strozzato, il paese deve pagare. In seguito, la crisi di sovrapproduzione, nella sua gravità attuale, ha imposto una dura emergenza sui debiti pubblici contratti dagli Stati: e ora non concede ritardi alla restituzione, alla riduzione delle quote, alla ristrutturazione del debito stesso (tagli, allungamento dei termini, riduzione degli interessi). Con la crisi, il credit crunch, la diminuzione drastica dell’offerta di credito, non risparmia nessuno. I nuovi crediti, nel caso fossero concessi, dovrebbero coprire anche i debiti passati, con gli interessi: ma, data la situazione economica, prima di concederli i creditori vorranno vedere sul tavolo denaro reale, plusvalore reale: non più titoli fittizi. Agli ufficiali giudiziari, d’altronde, non interessa il capitale che non produca plusvalore: su ogni quota restituita, deve essere inciso il marchio di garanzia che il suo valore attuale possa divenire mezzo di valorizzazione nel corso del processo produttivo.

Ma di quale produzione può disporre la Grecia? La vera domanda è questa: di quanto plusvalore, di quanto lavoro non pagato, ha bisogno l’economia mondiale? Il tracollo finanziario si avvicina rapidamente, con le sue conseguenze sociali ed economiche, raccontano allarmati i media; lo sconquasso debitorio “si trasformerebbe – dicono – in una crisi incontrollabile per il settore bancario e la stabilità finanziaria”. La fuga di capitali in Grecia è stata precipitosa: quasi un miliardo di euro al giorno negli ultimi quattro giorni, al 22 giugno. Davanti agli sportelli delle banche e ai bancomat, era cominciata la corsa al prelievo in previsione della bancarotta. L’unica possibilità di uscita dalla crisi, non solo locale, era ed è quella di aumentare il tasso di sfruttamento del proletariato, accogliendo di buon grado le ricette (i compiti a casa) che sono state preparate dai medici delle istituzioni europee (la Troika). Chiedere che i pagamenti degli interessi siano collegati alla crescita economica è solo cosa ridicola: attualmente, tutta l’economia mondiale, non solo quella greca, prega per quella crescita che non arriva, nonostante le dosi massicce di Quantitative easing.

Ci sarà dunque il diluvio?

“Dopo Tsipras, il diluvio!”, strillano i piccoli Stati fittizi della cosiddetta Europa Unita, servi di più padroni. “Syriza, dunque, si decida – gridano – a utilizzare la forza dello Stato contro il proletariato nel corso di queste lunghe e faticose trattative: le pensioni siano ridotte o sospese, i salari siano abbassati, i contratti stretti come manette”. Se il Capitale è il fondamento della forza degli Stati e gli Stati sono sue materializzazioni nazionali e locali, gli esattori sono l’espressione della Legge e dell’Ordine internazionale. Sono dunque loro, i proletari greci, che vanno inesorabilmente attaccati, quelli che nei giorni di fine luglio, in un’estrema minoranza, sono tornati a dar segni d’impazienza, manifestando la propria ostilità alla continuazione di una situazione senza via d’uscita.

Dopo Tsipras, ci sarà dunque il diluvio? Falso! Verranno altri governi, di destra o di “sinistra”. Forse si formerà un governo di unità nazionale. L’importante, per i governi che verranno, è che il proletariato sia stato addomesticato e pacificato con o senza spargimento di sangue. Una sola alternativa esiste: o la lotta estrema del proletariato che schiacci la borghesia o lo scatenamento della repressione aperta da parte di quest’ultima. La borghesia porta impressa nella propria esperienza storica che la sua speranza di vita è proporzionale alla violenza che imprimerà nello scontro di classe. Le condizioni di miglioramento del proletariato, le conquiste parziali del passato, sono state ottenute con la lotta e pagate di persona: erano solo un mezzo per una lotta più dura, non la finalità. “Verranno i colonnelli”, avvertono i “guardiani della democrazia”. “Verrà Alba dorata, il partito nazista. Conviene appoggiare Syriza (o la sua sinistra), magari turandosi il naso”, starnazzano le oche democratiche.

Il “fascino delle manifestazioni” circola tra i festaioli della lotta di classe. Festaioli sono i giocolieri di sinistra dei May Day, per i quali la necessità del Partito è roba d’altri tempi, oppure una faccenda da approntare a suo tempo; o, peggio, lo sono i sognatori che continuano a sperare nella grande ammucchiata politica che, con il buon senso, risolverebbe tutti i problemi di teoria, di programma, di tattica e di strategia, e quindi di organizzazione e di preparazione rivoluzionaria. Stanno ammirati davanti alla nuda spontaneità che non ha direzione e che riporta il movimento più indietro della partenza. I guardiani della democrazia, della legalità, della Costituzione restano sempre all’erta. “No pasaran!”, strillano contro la Troika. Dopo aver combinato un po’ di rumore mediatico, se ne vanno al funerale della classe col pugno alzato, gridando dietro la bara: “Cento di questi giorni!”

Nulla è cambiato!

Quanto è successo in questi mesi non è stato un processo ai “greci” e alla “nazione greca”, alla loro classe dirigente, agli “speculatori”, come vorrebbero farci credere osservatori, politicanti, media di ogni colore. Per far fronte alla propria crisi sistemica, la borghesia (nazionale e internazionale) esige che il proletariato greco chini ancor più il groppone, in modo che dallo sfruttamento bestiale della sua forza-lavoro torni a sgorgare plusvalore, ricchezza reale. E’ un programma di guerra, di riduzione alla fame di milioni di lavoratori: una vera e propria dittatura, non importa quanto celata dalle vesti democratiche.

E allora l’unica possibilità per il proletariato greco d’uscire dalla trappola economico-sociale in cui è stato cacciato risiede nella ripresa della lotta di classe: se non impugnerà le armi della propria indipendenza di classe, e se i proletari del resto d’Europa non si uniranno a esso, l’ordine e la pacificazione dei cimiteri regneranno ad Atene come fatto esemplare, e nelle piazze non saranno i colonnelli greci, ma le truppe democratiche della Bce, del Fmi, delle banche (cioè della borghesia internazionale), a farlo sprofondare nel baratro. Ma soprattutto il proletariato deve comprendere che, senza la guida del suo Stato Maggiore, del partito comunista rivoluzionario, non c’è soluzione.

 

1 “La crisi greca è la crisi del capitale mondiale”, Il programma comunista, n.2/2015.

2 Il debito pubblico totale della Grecia ammonta a 320 miliardi di euro di cui il 70% è detenuto nelle mani dei “fratelli europei”: Fondo salva Stati (142); Paesi Eurozona (53); Fmi (24); Bce (27); Investitori privati (34); l’80% in mano a creditori pubblici in miliardi di euro (Germania, 69,5; Francia, 52,8; Italia, 46,3; Spagna 31,4; Paesi Bassi, 14,8; Belgio, 9,1; Austria 7,2; Finlandia, 4,7; Portogallo, 2,7. La fuga dei capitali che ne è seguita, in miliardi di euro, da novembre a marzo, è diventata un vero salasso per le banche greche, che hanno potuto essere ricaricate solo dai prestiti di emergenza europei, Ela. I “mercati” davano in qualche modo scontato che il debito sarebbe stato ancora tagliato dopo i tagli del 2010 e 2012, ma era solo un’illusione. I servizi sul debito, chiesti dai sottoscrittori dei Bond greci avrebbero dato, in questa situazione, il colpo finale al debito, infatti ( prima che Tsipras accettasse l'aut-aut), i bot con scadenza due anni, davano un rendimento del 36%, quelli a 5 anni del 23%, quelli a 10 anni del 15%, quelli a 15 del 13% e quelli a 20 dell’11,5%. Tassi nominali, dunque, alle stelle.

3 L'avanzo primariodel bilancio statale altro non è che la differenza fra la spesa pubblica e le entrate tributarie ed extra-tributarie, esclusi gli interessi da pagare sul debito. In altre parole, è la somma disponibile per pagare gli interessi sul debito pubblico (BOT, CCT, ecc.) ed eventualmente per ridurre questo debito. La formula dell'avanzo primario è la seguente: AP=G-T-∆BM, dove appunto G è la spesa pubblica; T sono le entrate tributarie ed extra-tributarie; ∆BM è la parte di deficit primario finanziata con emissione di base monetaria. Se la formula di cui sopra assume saldo positivo, non si parla di “avanzo”, ma di disavanzo primario, (ovvero di deficit).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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