DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Infuria la polemica: da una parte, il presidente del consiglio Renzi preme per un “sindacato unico” (come si sta premendo in Germania…); dall’altra, i sindacati, indignati, proclamano la necessità di un… “sindacato unitario”. Torneremo sul tema. Intanto, però, ripubblichiamo un lungo brano dal nostro opuscolo “Partito di classe e questione sindacale” (Quaderni del Partito comunista internazionale, n.1), che chiarisce la natura e il ruolo del sindacato in epoca imperialistica.

4) Ferme restando le questioni di principio, ribadite anzi con ancor più tagliente fermezza in rapporto allo sfacelo del movimento non solo comunista ma in genere operaio in tutto il mondo, il Partito ha costantemente negato nel secondo dopoguerra che la fase aperta dalla cessazione del conflitto potesse configurarsi ed essere interpretata come una riproduzione meccanica del quadro sociale offerto dal primo.

In realtà, nel ventennio circa che va dal 1926 al 1945, i rapporti di forza fra le classi erano stati capovolti per l'azione congiunta della devastazione stalinista e dell'ordinarsi del mondo capitalistico, anche là dove sussiste l'ipocrisia delle consultazioni democratiche e delle libertà civili, in senso totalitario, centralizzatore, e, per dir tutto in uno, fascista. Nonostante la cesura del 1914 e dell'Union sacrée, la I Guerra Mondiale e lo schieramento dell'opportunismo, nella maggioranza dei paesi, sul suo fronte, non avevano avuto il potere di spezzare quella continuità programmatica e tattica, incarnata dovunque da gruppi seppur esili di opposizione, nella quale il marxismo ha sempre riconosciuto il presupposto e, se si vuole, la garanzia della ripresa di classe dopo la sconfitta anche più bruciante. Lo stalinismo, attraverso la distruzione anche fisica dell'Internazionale comunista, come attraverso i fronti popolari e l'ingresso dell'URSS nella Società delle Nazioni, pose invece l’enorme suggestione di una "Russia socialista" al servizio della sottomissione integrale del movimento operaio organizzato, politico e sindacale, ai dettami della classe dominante imperialistica, per consegnare infine il proletariato, vittima inerme su un fronte e, peggio ancora, carne da cannone volontaria sull'altro, alla ruota infernale del massacro imperialistico.

Al coperto di questa immane devastazione, incomparabilmente più grave per tenacia di riflessi rovinosi di qualunque sconfitta in campo aperto, l'evoluzione del capitalismo in senso accentratore e disciplinatore ha compiuto passi da gigante. Se ne può misurare tutta la portata solo se non si concentra lo sguardo sulla manifestazione più appariscente del fenomeno, fascismo o nazismo che si chiami, per seguirne invece le tappe progressive negli Stati Uniti di Roosevelt, nella Francia del Fronte popolare, nella classica democrazia svizzera come nella democrazia "socialisteggiante" dei paesi scandinavi e più tardi nell'Inghilterra del welfare. In tutti questi paesi, la pratica generale, di stampo squisitamente totalitario, divenne quella di "attrarre il sindacato operaio fra gli organi statali, sotto le varie forme del suo disciplinamento con impalcature giuridiche" (si pensi alla "Pace del lavoro" elvetica, alla disciplina dello sciopero in Scandinavia, USA e più di recente Inghilterra) e nello svuotarlo di una parte cospicua delle sue funzioni assistenziali, protettive e contrattuali, a favore di appositi enti di stato, magari sotto l'egida di una democrazia "progressista" restituita alla sua "verginità", auspice il Cremlino, nel segno dell'antifascismo.

In tutti i paesi sopra ricordati, una lunga tradizione riformista, sulla quale veniva ora a innestarsi, convalidandola, lo stalinismo, permise il passaggio indolore e quasi inavvertito alle ultimissime forme di amministrazione centralizzata (e perfino di gestione economica diretta) del dominio capitalistico: non a caso, invece, nei due paesi in cui la minaccia della rivoluzione proletaria era stata, nel primo dopoguerra, più imminente – cioè Italia e Germania -, il compito venne affidato al fascismo, nel quale la Sinistra additò fin dall'inizio non solo lo sbocco necessario, ma la piena realizzazione storica del "riformismo sociale". Il risultato fu nei due casi identico: distruzione dell'autonomia - di qualunque margine di autonomia - del movimento operaio, anche là dove questo non era stato fisicamente e sanguinosamente prostrato, e possibilità per la classe dominante di "maneggiare e dirigere coi più vari mezzi non solo gli organismi costituzionali democratici interclassisti, ma anche quelli che per la base associativa raccolgono solo proletari", tutto ciò grazie al loro "stretto controllo e assorbimento, per cui tutte le loro tradizionali funzioni tecniche, associative, economiche e politiche sono ogni giorno più esercitate da organi e uffici dell'inquadramento statale ufficiale" (cfr. il nostro testo “Analisi dei fattori oggettivi che pesano sulla ripresa del movimento proletario”, 1950).

È sotto il segno della dominazione totalitaria dei mostri statali vittoriosi nella "crociata antifascista" della II Guerra Mondiale - vinti da parte loro sul terreno politico e sociale, perché allineatisi in perfetta continuità sullo schieramento fascista -, che "rinacque" in Italia la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) e si ricostruirono nella Francia già occupata dal nazismo le tre centrali "storiche". Nacque, la prima - su un terreno reso sgombro da tradizioni associative classiste grazie allo stalinismo, e largamente invaso da organizzazioni assistenziali e previdenziali di stato trasmesse dal fascismo - attraverso "un compromesso non fra tre partiti proletari di massa, che non esistono, ma fra tre gruppi di gerarchie di cricche extraproletarie pretendenti alla successione del regime fascista", con una soluzione che il Partito dichiarò fin dal 1944-45 doversi combattere "incitando i lavoratori a rovesciare tale opportunistica impalcatura di controrivoluzionari di professione". Nacque, dunque, come proiezione in campo sindacale del CLN, della nuova alleanza controrivoluzionaria di segno democratico, e come strumento (dimostratosi poi efficacissimo) di ricostruzione dell'economia col sudore e se occorre col sangue dei proletari. Nacquero, le Centrali francesi, divise ma tenute sotto controllo dalle stesse forze associate al governo, e con lo stesso obiettivo. Non esisteva più, neppure sotto direzione riformista, una confederazione rossa; esisteva una confederazione tricolore, né - secondo il Partito - questa realtà poteva essere modificata in Italia dalla scissione del 1949 (CGIL, CISL, UIL), intervenuta per motivi totalmente estranei a qualunque differenziazione di classe, nel quadro dei dislocamenti verificatisi nelle alleanze di guerra imperialistiche.

All'assenza delle condizioni minime di un'autonomia di classe nelle organizzazioni economiche esistenti si aggiungevano i fattori:

* di una sudditanza pressoché totalitaria del proletariato alle forze dell'opportunismo - sudditanza resa ancor più diretta dal peso materiale della Russia e relative agenzie politiche da un lato, delle forze di occupazione alleate dall'altro, e inevitabilmente tradottasi nell'assorbimento di ideologie piccolo borghesi o addirittura borghesi;

* di una "mutata relazione fra datore di lavoro e operaio salariato", per cui, a seguito delle diverse "misure riformiste di assistenza e provvidenza", quest’ultimo gode di "una piccola garanzia patrimoniale... ha dunque qualcosa da rischiare, e ciò... lo rende esitante e anche opportunista al momento della lotta sindacale e, peggio, dello sciopero e della rivolta" (cfr. il nostro testo “Partito ed azione economica”, 1951);

* di una prassi, sempre più consolidatasi anche prima del crollo dello stalinismo e relative cortine territoriali ed ideologiche, di compartecipazione dei sindacati alle scelte di politica economica della classe dominante sul piano sia delle aziende (la Mitbestimmung tedesca!), sia del parlamento e del governo, con conseguente “sensibilizzazione” di vasti strati delle masse ai problemi e alle esigenze della “Nazione”.

Da questo insieme di fattori, noi non abbiamo mai concluso né mai saremo indotti a concludere il "definitivo imborghesimento" della classe operaia e quindi, alla Marcuse, la fine della sua missione storica obiettiva, ma è innegabile che esso abbia costituito e costituisca una remora alla ripresa dell'azione perfino economica, non diciamo poi dell'azione rivoluzionaria, anche se, domani, si convertirà in un coefficiente di ulteriore squilibrio nelle condizioni di reale, non fittizia, insicurezza di proletari ridivenuti "senza riserva". È anche perciò che l'opportunismo appare oggi ed è mille volte più virulento che in qualunque epoca della storia dei conflitti sociali; esso penetra per mille vie non più solo nello strato relativamente labile e ristretto di un'aristocrazia operaia, ma nel corpo stesso di un proletariato "infetto di democraticismo piccolo-borghese fino alle midolla” (cfr. il nostro testo “Considerazioni sull’organica attività del partito quando la situazione generale è storicamente sfavorevole”, 1965).

Il quadro mondiale dell'associazionismo operaio nel primo quarantennio post-bellico è stato dunque quello di sindacati o direttamente inseriti negli ingranaggi statali, come già nel blocco capitalista dell'Est, o vitalmente legati ad essi per vie tanto più efficaci, quanto più ipocritamente sotterranee, come tuttora nel blocco capitalista dell'Ovest (ci riferiamo qui all'epicentro della scena mondiale dell'imperialismo, l'area euro-americana: meriterà uno studio a parte l'evoluzione degli organi sindacali nei settori "periferici" dell'Asia, dell'Africa e dell'America Latina). Una realtà, questa, costantemente denunciata nei nostri testi fondamentali, e alla quale nulla toglie l'esistenza, prima, in una sola parte del mondo, poi – sfasciatosi il blocco sovietico – quasi dovunque, di centrali plurime, d'altronde avviate - come in Italia - non già a un "ritorno alla situazione del CLN" (dalla quale di fatto non si sono mai allontanate), ma all'aperta dichiarazione di essere rimaste, dietro ogni apparenza ingannatrice, le stesse di allora: un unico blocco controrivoluzionario, cinghia di trasmissione di ideologie, programmi e parole d'ordine borghesi.

Soprattutto l’ultimo quinquennio (1989-1994) è stato in realtà caratterizzato: a) da un crescente coinvolgimento dei sindacati democratici nella politica generale dello Stato, di cui, anche nelle questioni non riguardanti in senso stretto la classe operaia, essi sono divenuti i consulenti obbligati, e che hanno sempre appoggiato nella prassi di regolamentazione (non a caso divenuta autoregolamentazione) degli scioperi e di rispetto della compatibilità fra rivendicazioni operaie in tema di salario e di tempo di lavoro ed esigenze “superiori” della collettività nazionale; b) dall’adesione esplicita delle organizzazioni sindacali ufficiali alla teoria padronale nuova di zecca (e d’impronta “giapponese”) della “qualità totale”, col doppio effetto di legare ancor più i lavoratori alle sorti dell’azienda (le imprese private, l’azienda-Patria) e accrescere le già forti differenze salariali allargando il ventaglio dei salari di categoria secondo criteri di professionalità, meritocrazia ed efficienza. Il fatto che i sindacati attuali siano composti alla base da salariati – il che impone a noi, nei loro riguardi, compiti precisi di penetrazione a puri fini di battaglia classista fra le grandi masse – non toglie che essi rappresentino sempre più, per i lavoratori, una prigione, e come tali vadano inequivocabilmente denunziati.

5) Il processo - dichiarammo nel 1949 e ripetiamo oggi - è irreversibile come lo è l'evoluzione in senso accentratore e totalitario, in economia e in politica, del capitalismo imperialista, e fornisce "la chiave dello svolgimento sindacale in tutti i grandi paesi capitalisti". È però nostra certezza scientifica la reversibilità del processo che da oltre trent'anni separa la classe dal suo partito e le fa sembrare inverosimile o addirittura impossibile il comunismo; è nostra certezza scientifica che, se "il procedere sociale ininterrotto dell'asservimento del sindacato allo Stato borghese" è inscritto nella dinamica delle determinazioni oggettive della fase imperialistica del capitalismo, sono pure inscritti in essa l'erompere mondiale della crisi economica e l'esplodere della ripresa generalizzata della lotta di classe, per lontana che appaia oggi.

La vera, duratura e fondamentale conquista di una simile ripresa sarà il ritorno sulla scena storica, come fattore agente, dell'organizzazione severamente selezionata e centralizzata del partito: ma ad essa si accompagnerà necessariamente anche la rinascita di organizzazioni di massa, intermedie fra la larga base della classe e il suo organo politico. Queste organizzazioni possono anche non essere i sindacati - e non lo saranno nella prospettiva di una brusca svolta nel senso dell'assalto rivoluzionario, come non furono essi ma i soviet, in una situazione di virtuale dualismo del potere, l'anello di congiunzione fra partito e classe nella Rivoluzione Russa. Tutto però lascia prevedere che, in paesi non immediatamente invasi dalla fiammata rivoluzionaria ma in fase di travagliata maturazione di essa, rinascano organismi in senso stretto economici, in cui non regnerebbe certo la quiete apparente del cosiddetto e per sempre defunto periodo "idilliaco" o "democratico" del capitalismo, ma ridivamperebbe, assai più che nel primo dopoguerra, l'alta tensione politica delle grandi svolte storiche, in cui l'acutizzarsi degli antagonismi economici e sociali si riflette nell'aprirsi di profonde lacerazioni in seno alla classe sfruttata e nell'esasperarsi dello scontro fra la sua avanguardia e le esitanti e renitenti retroguardie.

Il problema non verte comunque sulle forme che assumerà la ripresa della lotta di classe e sui modi nei quali essa tenderà ad organizzarsi, bensì sul processo che tali forme e tali modi genererà, e la cui dinamica sarà tanto più tumultuosa e densa di sviluppi, quanto più l'evolvere dell'estrema fase imperialistica avrà accumulato le contraddizioni e i parossismi propri del modo di produzione borghese. Al vertice di questo processo, se esso si concluderà per il proletariato con la presa del potere e con l'instaurazione della dittatura rivoluzionaria, non solo la forma-sindacato non scomparirà, e anzi (qualora sia rimasta oscurata da altri organismi intermedi più consoni alle esigenze della lotta rivoluzionaria) dovrà risorgere, ma, per la prima volta nella storia del movimento operaio, vedrà realizzarsi nella sua trama uno dei vitali anelli di saldatura fra la classe centralmente e totalmente organizzata e il partito comunista, nella titanica lotta che in un percorso non facile né breve né, tanto meno, "tranquillo" porterà dal capitalismo - politicamente debellato, ma sopravvivente nell'inerzia di forme mercantili non sradicabili dalla sera alla mattina - al comunismo inferiore.

Per tutte queste ragioni di principio, scolpite in ogni nostro testo fondamentale, e in forza di questa prospettiva anch'essa inseparabile dai cardini del marxismo, è tanto vero che delle forme di associazione economica oggi esistenti non abbiamo nulla da difendere, quanto è vero che abbiamo da proclamare in contrapposto a esse il principio permanente dell'associazionismo operaio e le condizioni del suo riaffermarsi nello svolgersi delle lotte di classe - di cui le associazioni intermedie sono certo un prodotto ma anche un fattore.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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