DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La penisola anatolica, confine naturale e ponte fra Asia ed Europa, è stata una delle culle della storia umana, avendo ospitato, sulle sue terre, comunità di uomini che per la prima volta si cimentavano con le tecniche agricole dei cereali, e non solo. Sede dell'Impero Romano d'Oriente, che sopravvisse mille anni a quello d'Occidente, in tarda epoca medioevale fu invasa da popolazioni turcofone e divenne il centro di un vasto impero che, dominando gran parte delle coste mediterranee, mise più volte in pericolo il cuore dell'Europa. Entrato in una fase di decadenza con il procedere dei secoli, l'Impero ottomano scomparve alla fine della Prima guerra mondiale, come accadde ai suoi principali competitori in terre europee, l'Impero asburgico e quello zarista. La fine dell'Impero ottomano segnò di contro l'inizio della nazione turca che, sotto la guida dei militari, fondò il proprio Stato nazionale moderno e borghese.

Non possiamo qui ripercorrere l'intero arco della storia dello Stato turco, ma ci preme sottolineare l'avanzato programma di riforme economiche ed istituzionali che fu introdotto al suo sorgere e a fondamento delle politiche della borghesia turca, sull'onda delle rivoluzioni europee che seguirono la Prima guerra mondiale, prima fra tutte quella russa. Il risultato ottenuto nell'arco di una ventina d'anni fu uno Stato che, dal punto di vista della struttura istituzionale, si collocava pienamente fra i paesi capitalistici. Non altrettanto poteva essere dal punto di vista dello sviluppo economico, che ha dovuto percorrere una via più lunga e contraddittoria, ma che pone oggi la Turchia, dopo un secolo, fra le prime nazioni del mondo. Questo a dimostrare che nulla di arretrato o irrisolto permane in Turchia, e che quindi gli avvenimenti degli ultimi mesi e anni sono da inscriversi pienamente nelle contraddizioni che scaturiscono dal sistema di produzione capitalistico e dai suoi fenomeni sovrastrutturali specifici.

 

La struttura economica

Nel 2012, la Turchia è risultata la 17a economia mondiale in base al PIL nominale (788.299 milioni di $) e la 16a in base al PIL a prezzi costanti (1.109.173 milioni di $). Essa risulta contemporaneamente la sesta economia d'Asia e la sesta economia d'Europa. Il PIL è composto per 8,7% dal comparto primario, per il 27% dalla manifattura e per il 64,4% dai servizi. A fronte di questa composizione, la forza lavoro è distribuita per il 23% in agricoltura, per il 26,8% nell'industria e per il 49,5% nei servizi.

La dinamica del PIL lo ha visto quadruplicare dal 1994 ad oggi, con un tasso “grezzo” annuo del 13%. Per ultimare questo primo quadro statistico, è necessario sottolineare che pur essendo la 17a economia mondiale in dati assoluti, la Turchia risulta incidere sul PIL mondiale solo per 1,10%, e se dunque si esamina il dato in rapporto alla popolazione (PIL/n° abitanti) il paese precipita di decine di posizioni, fino ad attestarsi al 68° posto nella graduatoria mondiale (14.812 $ a prezzi costanti). La sua è evidentemente un'economia avanzata e già da questi primi dati possiamo dedurre alcune sue caratteristiche.

La Turchia rimane un paese dalle forti contraddizioni. A fronte di una buona capacità industriale, rimangono sacche di arretratezza, come dimostrano i due dati sull'agricoltura: il dato assoluto infatti è relativamente alto se paragonato alle economie più sviluppate, mentre il dato sulla forza lavoro impegnata nelle campagne non fa che rafforzare il quadro, evidenziando come ancora milioni di persone siano impegnate (o non impegnate) in agricoltura. Anche il dato sul reddito medio ci indica che, a fronte di una poderosa crescita economica, non vi è stata un'altrettanta ridistribuzione di questa nuova ricchezza (e come potrebbe essere diverso in un'economia capitalista?!). D'altronde, le sacche di arretratezza sono tipiche degli Stati nazionali nati dopo lo svolto del '900: cioè, delle nazioni sorte sotto il giogo dell'imperialismo e della già nata divisione internazionale del lavoro.

Dire “sacche di arretratezza”, però, non significa dire “nazione arretrata” o “sottosviluppata”: tutt'altro! La crescita dell'economia turca non ha avuto eguali in Europa, e quando confrontiamo la dimensione economica turca con quella dei paesi a essa confinanti scopriamo che le economie di quest'ultimi non sono minimamente paragonabili a quelle turche; andando poi oltre i confini diretti, troviamo l'Iran con 2/3 del Pil turco, quindi Iraq ed Israele con circa 1/3 a testa del PIL anatolico. Questo se guardiamo ad oriente: se ci riferiamo invece all'Europa o alle nazioni caucasiche, Russia a parte, tutti gli immediati vicini si trovano ben distanti dalle dimensioni dell'economia turca.

L'importanza nel quadro mondiale di quest'economia si deduce dall'analisi della struttura della produzione manifatturiera. Molto diversificata e di non poca importanza quantitativa la sua produzione di merci, che spazia dall'acciaio alle automobili, ai mezzi di trasporto alla cantieristica, ma anche alla chimica, all'industria tessile e agli apparecchi elettronici. Ad esempio, la Turchia produce circa tre volte più veicoli a motore dell'Italia. Vi è poi da sottolineare che la “proprietà” delle industrie turche è ancora in una significativa parte in mano a capitali stranieri. La punta di diamante è la produzione tessile che da sola rappresenta 1/6 delle esportazioni. Molto importanti sono anche l'industria automobilistica e in generale dei trasporti, quella dell'elettronica per il consumo, delle materie plastiche e della chimica in generale, oltre a quella dei metalli di base.

Queste produzioni sono anche le voci maggiori che contribuiscono a formare la massa delle esportazioni, ma anche delle importazioni: entrambi i flussi ricalcano queste esigenze di base del tessuto produttivo. La Turchia importa molte materie prime e semilavorati, che assemblati in patria vengono poi successivamente esportati nei paesi avanzati (ma non solo), come prodotti finiti ma più spesso come ulteriori semilavorati da assemblare altrove. A questa struttura di base si deve affiancare un aumento delle importazioni di merci per il consumo di lusso (beninteso, come lo intendiamo noi comunisti!), che sta a dimostrare un aumento della possibilità (o presunta tale) di spesa della società turca: un esempio è rappresentato dalla diffusione dei cellulari, che nel 1998 erano circa 3.000.000, per crescere nel 2009 fino a oltre 61.000.000.

Storicamente, la bilancia degli scambi è fortemente passiva: è passata da -15 mld $ nel 2004 a -77 mld $ nel 2012, mentre il suo debito cresceva nel medesimo periodo da 104 a 306 mld$. A fronte di quest'andamento, abbiamo un dato sull'indebitamento pubblico in % del Pil in totale controtendenza: da 75 a 39 sempre nel medesimo periodo. Questo è stato possibile (e permette ancora oggi alla Turchia di sostenere un simile volume di importazioni) grazie alla forte dinamica di crescita del Pil, passato da 303 mld $ nel 2003 a 789 mld $ nel 2012 – praticamente raddoppiando in solo 9 anni, con tassi di incremento che farebbero di qualsiasi “signor Nessuno” un estimato statista. Quanto questo meccanismo compensativo possa durare non è dato sapere, ma sicuramente la Turchia dovrà prima o poi mettere mano alla bilancia commerciale nel tentativo di contenere il suo squilibrio.

Questa importante crescita economica ha determinato una svolta nella politica estera turca – una svolta talmente importante da avere ricevuto dagli accademici una definizione particolare: “multilateralismo neo-ottomano”. In questi ultimi 25 anni, a partire dal crollo dell'URSS, la politica turca si è orientata verso questa nuova strategia tanto da vedere sempre con meno interesse la propria adesione all'Unione Europea, che dopo essere stata strombazzata dai due lati del Bosforo come imminente nel 2005 non è ancora avvenuta e probabilmente non avverrà mai, ma questa volta per esplicita volontà turca. Con una sempre maggiore presenza d'area, lo Stato ha costruito una rete di interessi a tutto tondo, con una politica detta “zero problemi coi vicini”: nulla di quello che la circonda è scappato all'attenzione della borghesia turca, ed almeno fino all'inizio della attuale crisi essa manteneva rapporti pacifici e remunerativi sia con Israele sia con l'Iran, senza che questo rappresentasse una contraddizione per nessuno dei tre attori. La crisi stessa ha accelerato un processo di irrigidimento ed oggi la Turchia pratica con più convinzione una vera e propria politica imperialista nella sua area naturale di influenza.

Un terreno di forti interessi economici ma anche di grande valenza strategica per la borghesia anatolica è poi rappresentato dal grande gioco sulle arterie energetiche che dai produttori orientali corrono verso i consumatori occidentali. La politica dei governi turchi è apertamente impegnata a trarre il massimo possibile delle rendite, approfittando della propria centralità geografica che fa del suo territorio il naturale sentiero dei gasdotti. Su questa partita, la politica del “zero problemi con i vicini” inizia a segnare il passo.

Ma parlare di imperialismo locale non significa affatto affermare una presunta autosufficienza economica od autonomia d'azione della borghesia turca, al di fuori degli schieramenti mondiali che sempre di più si vanno definendo. Infatti, a un'adesione storica al fronte occidentale con una partnership strategica con gli USA, corrisponde una struttura di flussi di merci e capitali pienamente inserita nella cerchia delle grandi nazioni: Russia, Germania, Italia, USA, Francia, Inghilterra sono le nazioni con cui la Turchia ha il più alto interscambio di merci. In altre parole, imperialista nel suo tradizionale giardino, ma serva ancora dell'“uomo bianco”.

In un successivo articolo affronteremo il tema della situazione sociale nel paese.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2014)

 

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