DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Con la ripubblicazione di ampi stralci tratti dalle Teorie del plusvalore di K. Marx [Vol. II, Cap.XVII, par. 6-14: “Teoria dell’accumulazione di Ricardo. Sua critica (sviluppo delle crisi dalla forma fondamentale del capitale”), Editori Riuniti, pg 539-584], concludiamo questa parte teorica generale relativa alla crisi di sovrapproduzione di merci e di capitale.

10. Trasformazione della possibilità della crisi in realtà. La crisi come manifestazione di tutte le contraddizioni dell'economia borghese

[…] E questo è l'importante nell'esame dell'economia borghese. Le crisi del mercato mondiale devono essere concepite come la concentrazione reale e la compensazione violenta di tutte le contraddizioni dell'economia borghese. Dunque, i singoli momenti che si concentrano in queste crisi devono quindi [essere fatti] emergere ed essere sviluppati in ogni sfera dell'economia borghese, e, quanto più ci inoltriamo in essa, da un lato devono essere sviluppate nuove determinazioni di questo contrasto, dall'altro devono essere mostrate le forme più astratte del medesimo come ricorrenti e contenute in quelle più concrete.

Si può dunque dire: la crisi nella sua prima forma è la stessa metamorfosi della merce, la separazione di compra e vendita.

La crisi nella sua seconda forma è la funzione del denaro come mezzo di pagamento, dove il denaro figura in due momenti diversi, separati nel tempo, in due diverse funzioni. Queste due forme sono ancora del tutto astratte, benché la seconda sia più concreta della prima.

[…] Consideriamo il movimento che attraversa il capitale dal momento in cui esso abbandona come merce il processo di produzione per venir fuori di nuovo da esso come merce. Se facciamo qui astrazione da tutte le ulteriori determinazioni di contenuto, il capitale complessivo in merci e ogni singola merce di cui esso consta hanno da attraversare il processo M - D - M, la metamorfosi della merce. La possibilità generale della crisi che è contenuta in questa forma – la separazione di compra e vendita – è quindi contenuta nel movimento del capitale, in quanto esso è anche merce e nient'altro che merce. Dalla connessione delle metamorfosi delle merci l'una con l'altra risulta poi che l'una merce si trasforma in denaro perché l'altra si riconverte dalla forma di denaro in merce. Dunque, in seguito la separazione di compra e vendita appare qui tale, che alla trasformazione dell'un capitale dalla forma merce nella forma denaro deve corrispondere la riconversione dell'altro capitale dalla forma denaro nella forma merce, la prima metamorfosi dell'un capitale deve corrispondere alla seconda metamorfosi dell'altro, l'abbandono del processo di produzione da parte dell'un capitale deve corrispondere al ritorno nel processo di produzione dell'altro. Questa concrescenza l'uno nell'altro e questo intreccio dei processi di riproduzione o di circolazione di diversi capitali sono da un lato necessari per la divisione del lavoro, dall'altro casuali, e così si amplia già la determinazione di contenuto della crisi.

In secondo luogo, però, per ciò che concerne la possibilità della crisi che scaturisce dalla forma del denaro come mezzo di pagamento, già nel capitale si mostra un fondamento molto più reale per l'attuazione di questa possibilità. Il tessitore, per esempio, ha da pagare l’intero capitale costante, i cui elementi furono forniti da filatore, coltivatore di lino, fabbricante di macchine, fabbricante di ferro e di legname, produttore di carbone, ecc. […] Ora il tessitore venda il tessuto al mercante per 1000 sterline, ma su una cambiale, così che il denaro figura come mezzo di pagamento. Il tessitore da parte sua vende la cambiale al banchiere, presso il quale, poniamo, paga con essa un debito oppure che anche gli sconta la cambiale. Il coltivatore di lino ha venduto al filatore su una cambiale, il filatore al tessitore, del pari il fabbricante di macchine al tessitore, del pari il fabbricante di ferro e di legname al fabbricante di macchine, del pari il produttore di carbone al filatore, al tessitore, al fabbricante di macchine, al produttore di ferro e di legname. Inoltre i produttori di ferro, di carbone, di legname, di lino si sono pagati l'un l'altro con cambiali. Ora, se il commerciante non paga, il tessitore non può pagare la sua cambiale al banchiere.

Il coltivatore di lino ha spiccato una tratta al filatore, il fabbricante di macchine al tessitore e al filatore. Il filatore non può pagare, perché il tessitore non [può] pagare, ambedue non pagano il fabbricante di macchine, questo non paga il produttore di ferro, di legname, di carbone. E a loro volta tutti questi che non realizzano il valore della loro merce non possono sostituire la parte che sostituisce il capitale costante.

Così nasce una crisi generale. Questa non è assolutamente altro che la possibilità della crisi sviluppata col denaro come mezzo di pagamento, ma noi vediamo già qui, nella produzione capitalistica, una connessione dei crediti e delle obbligazioni reciproche, delle compere e delle vendite, dove la possibilità può svilupparsi in realtà.

In tutti i casi: se compra e vendita non si fissano l'una di fronte all'altra e non devono perciò essere compensate violentemente – d'altro canto, se il denaro come mezzo di pagamento funziona in modo tale che i crediti si compensano, quindi non si attua la contraddizione esistente in sé nel denaro come mezzo di pagamento – , [se] dunque queste due forme astratte della crisi non appaiono realmente come tali, non esiste alcuna crisi. Non può esistere crisi senza che compra e vendita si separino l'una dall'altra ed entrino in contraddizione o che le contraddizioni contenute nel denaro come mezzo di pagamento si manifestino, senza che quindi la crisi emerga contemporaneamente nella forma semplice – nella contraddizione di compra e vendita, nella contraddizione del denaro come mezzo di pagamento. Queste, però, sono anche semplici forme – possibilità generali delle crisi, quindi anche forme, forme astratte della crisi reale. In esse l'esistenza della crisi appare come nelle sue forme più semplici e nel suo contenuto più semplice, in quanto questa forma stessa è il suo contenuto più semplice. Ma non è ancora un contenuto fondato. La circolazione semplice del denaro e anche la circolazione del denaro come mezzo di pagamento – e ambedue compaiono molto prima della produzione capitalistica, senza che compaiano crisi – sono possibili e reali senza crisi. Perché dunque queste forme mettano in mostra il loro lato critico, perché la contraddizione in esse contenuta in potenza si manifesti in atto come tale, non si può spiegare con queste forme soltanto.

Dunque si vede l'enorme insulsaggine degli economisti i quali, poiché non potevano più negare con i loro ragionamenti il fenomeno della sovrapproduzione e delle crisi, si tranquillizzano col fatto che in quelle forme è data solo la possibilità che sopravvengano crisi, è quindi casuale che esse non sopravvengano e con ciò che il loro sopravvenire stesso appare come un semplice caso.

Le contraddizioni sviluppate nella circolazione delle merci, e più ampiamente nella circolazione del denaro – con ciò le possibilità della crisi – si riproducono da sé nel capitale, poiché di fatto solo sulla base del capitale ha luogo una sviluppata circolazione di merci e di denaro.

Ora però si tratta di seguire lo sviluppo ulteriore della crisi in potenzala crisi reale può essere rappresentata solo dal movimento reale della produzione capitalistica, concorrenza e credito – in quanto essa risulta dalle determinazioni formali del capitale che gli sono peculiari come capitale e non sono incluse nella sua semplice esistenza come merce e denaro.

II semplice processo di produzione (immediato) del capitale non può in sé aggiungere qui niente di nuovo. Affinché esso in generale esista, le sue condizioni sono supposte. Perciò nella prima sezione, sul capitale – sul processo immediato di produzione – non sopravviene nessun nuovo elemento della crisi. Vi è contenuto in sé, perché il processo di produzione è appropriazione e perciò produzione di plusvalore. Ma nel processo stesso di produzione questo non può manifestarsi, perché in esso non si tratta della realizzazione del valore non soltanto riprodotto, ma di plusvalore. La cosa può farsi manifesta solo nel processo di circolazione, che in sé e per sé è contemporaneamente processo di riproduzione.

Qui inoltre va notato che noi dobbiamo esporre il processo di circolazione o il processo di riproduzione prima di aver esposto il capitale finito – capitale e profitto –, perché abbiamo da esporre non solo come il capitale produce, ma come il capitale viene prodotto. Il movimento reale, però, parte dal capitale esistente – il movimento reale, vale a dire quello in base alla produzione capitalistica sviluppata, che comincia da se stessa, che presuppone se stessa. Il processo di riproduzione e le occasioni delle crisi in esso ulteriormente sviluppate vengono perciò esposti sotto questa rubrica stessa solo in modo incompleto e hanno bisogno di una loro integrazione nel capitolo «Capitale e profitto» [Marx allude alla parte delle sue ricerche che successivamente crebbe fino a diventare il terzo libro del Capitale, NdR].

Il processo complessivo di circolazione o il processo complessivo di riproduzione del capitale è l'unità della sua fase di produzione e della sua fase di circolazione, un processo che si svolge attraverso i due processi in quanto sue fasi. In questo è insita una possibilità ulteriormente sviluppata o forma astratta della crisi. Gli economisti che negano la crisi si attengono quindi solo all'unità di ambedue queste fasi. Se esse fossero solo separate, senza essere una sola cosa, allora non sarebbe possibile appunto nessun ristabilimento violento della loro unità, nessuna crisi. Se esse fossero solo una cosa sola, senza essere separate, allora non sarebbe possibile nessuna separazione violenta, il che è di nuovo la crisi. Essa è il violento ristabilimento dell'unità fra [momenti] indipendenti e il violento farsi indipendenti di momenti che essenzialmente sono una cosa sola.

11. Sulle forme della crisi

[…] 1. La possibilità generale delle crisi nel processo della metamorfosi del capitale stesso è data, e invero doppiamente, in quanto il denaro funge da mezzo di circolazione – separazione di compra e vendita. In quanto funge da mezzo di pagamento, dove esso opera in due momenti differenti, come misura dei valori e come realizzazione del valore. Ambedue questi momenti si separano. Se il valore è cambiato nell’intervallo, se la merce nel momento della sua vendita non vale quanto essa valeva nel momento in cui il denaro funzionava come misura dei valori e quindi delle reciproche obbligazioni, [allora] l’obbligazione non può essere adempiuta col ricavato della merce e quindi non può essere saldata l’intera serie di transazioni che dipendono regressivamente da questa ultima. Anche se la merce non può essere venduta che in un determinato spazio di tempo, anche se il suo valore non cambiasse, il denaro non può funzionare come mezzo di pagamento, perché deve funzionare come tale in un tempo determinato, presupposto. Ma poiché qui la stessa somma di denaro funziona per una serie di transazioni e di obbligazioni reciproche, sopravviene qui un’incapacità di pagamento non solo in uno, ma in molti punti, di qui la crisi.
 

[…] Dunque, se sopravviene una crisi perché compra e vendita si separano, essa allora si sviluppa come crisi monetaria, non appena il denaro è sviluppato come mezzo di pagamento, e questa seconda forma delle crisi s'intende da sé non appena sopravviene la prima. Nella ricerca del perché la possibilità generale della crisi diventi realtà, nella ricerca delle condizioni della crisi è dunque assolutamente superfluo curarsi della forma delle crisi che scaturiscono dallo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento. Appunto perciò gli economisti amano addurre a pretesto questa forma ovvia come causa delle crisi. (In quanto lo sviluppo del denaro come mezzo di pagamento è connesso con lo sviluppo del credito e del sovraccredito, si devono, certo, spiegare le cause di questo ultimo, il che non è qui ancora opportuno).

2. In quanto le crisi risultano da variazioni di prezzo e da rivoluzioni di prezzo che non coincidono con le variazioni di valore delle merci, esse non si possono naturalmente spiegare nell'esame del capitale in generale, in cui si presuppongono prezzi identici ai valori delle merci.

3. La possibilità generale delle crisi è la metamorfosi formale del capitale stesso, la separazione temporale e spaziale di compra e vendita. Ma questa non è mai la causa della crisi. Perché non è altro che la forma più generale della crisi, quindi la crisi stessa nella sua espressione più generale. Non si può però dire che la forma astratta della crisi sia la causa della crisi. Se si cerca la sua causa, si vuole appunto sapere perché la sua forma astratta, la forma della sua possibilità, da possibilità diventa realtà.

4. Le condizioni generali delle crisi, in quanto sono indipendenti dalle oscillazioni di prezzo (siano queste connesse o no col credito) – in quanto diverse dalle fluttuazioni di valore – devono essere spiegate dalle condizioni generali della produzione capitalistica.

[…] Primo momento [della crisi, NdR]. La riconversione di denaro in capitale.

Presupposto un determinato grado della produzione o riproduzione. Il capitale fisso può essere considerato qui come dato, invariabile, non entrato nel processo di valorizzazione. Poiché la riproduzione della materia prima non dipende solo dal lavoro impiegato in essa, ma dalla sua produttività connessa con condizioni naturali, allora la massa stessa, la massa del prodotto della medesima quantità di lavoro può diminuire. (Con le cattive stagioni). Dunque, il valore della materia prima sale, la sua massa diminuisce o il rapporto in cui il denaro si dovrebbe ritrasformare nelle diverse parti costitutive del capitale per continuare la produzione alla vecchia scala, è turbato. Si deve spendere di più in materia prima, resta meno per lavoro e non può essere assorbita la stessa massa di lavoro come finora. In primo luogo non fisicamente, perché c'è una [deficienza di materia prima, NdR]. In secondo luogo perché una maggiore parte di valore del prodotto deve essere trasformata in materia prima, quindi una minore può essere trasformata in capitale variabile. La riproduzione non può essere ripetuta sulla stessa scala. Una parte del capitale fisso sta ferma, una parte di operai viene gettata sul lastrico. Il saggio del profitto cade, perché il valore del capitale costante è salito [in originale, gestiegen – NdR] rispetto a quello variabile e viene impiegato meno capitale variabile. Le spese fisse – interesse, rendita – che sono anticipate a parità di saggio di profitto e di sfruttamento del lavoro, restano le stesse, in parte non possono essere pagate. Di qui una crisi. Crisi di lavoro e crisi di capitale. E' questa quindi una perturbazione del processo di riproduzione per opera di un aumento di valore della parte del capitale costante che va sostituita col valore del prodotto. Inoltre ha luogo, benché il saggio di profitto si abbassi, un rincaro del prodotto. Se questo prodotto entra come mezzo di produzione in altre sfere di produzione, il suo rincaro causa qui la stessa perturbazione nella riproduzione.

Se esso entra come mezzo di sussistenza nel consumo generale, allora o entra contemporaneamente in quello degli operai o no. Se si verifica il primo caso, esso coincide negli effetti con una perturbazione nel capitale variabile, di cui si parla in seguito. Ma in quanto in genere entra nel consumo generale, la domanda di altri prodotti può con questo (se non diminuisce il consumo di esso) ridursi, perciò può essere impedita la loro ritrasformazione in denaro nel volume corrispondente al loro valore e così può essere perturbato l'altro lato della loro riproduzione, non la ritrasformazione di denaro in capitale produttivo, ma la ritrasformazione di merci in denaro. In ogni caso, in questa branca, la massa del profitto e la massa del salario diminuiscono e quindi diminuisce una parte delle entrate necessarie per la vendita di merci di altre branche di produzione.

Questa inadeguatezza della materia prima, però, può anche sopravvenire senza influenza delle stagioni o della produttività naturale del lavoro che fornisce la materia prima. Cioè, se una parte eccessiva del plusvalore, del pluscapitale, è spesa in macchinario ecc., in questa branca, allora, benché il materiale fosse sufficiente per la vecchia scala di produzione, sarà insufficiente per la nuova. Ciò deriva quindi da una trasformazione sproporzionata del sovraccapitale nei suoi diversi elementi. È un caso di sovrapproduzione di capitale fisso e provoca tutti gli stessi fenomeni come nel primo caso.

[…]

Oppure [le crisi] si basano su una sovrapproduzione di capitale fisso e perciò su una sottoproduzione proporzionale di quello circolante. Poiché il capitale fisso come quello circolante consta di merci, non c'è niente di più ridicolo del fatto che gli stessi economisti che negano la sovrapproduzione di merci siano quelli che ammettono la sovrapproduzione di capitale fisso.

[…]
 

12. Contraddizioni fra la produzione e il consumo nelle condizioni del capitalismo. Trasformazione della sovrapproduzione di articoli di consumo dominanti nella sovrapproduzione generale.

[…] L'operaio può comprare […] solo merci che entrano nel consumo individuale, perché egli non valorizza da sé il suo lavoro, quindi anche non possiede da sé le condizioni della sua realizzazione – strumenti di lavoro e materiale di lavoro. Questo, dunque, esclude già la maggior parte dei produttori (gli operai stessi, dove la produzione è sviluppata capitalisticamente) come consumatori, come compratori. Essi non comprano materia prima e strumenti di lavoro, essi comprano solo mezzi di sussistenza (merci che entrano immediatamente nel consumo individuale). Perciò niente di più ridicolo che parlare di identità di produttori e consumatori, perché per una massa straordinariamente grande di rami d'industria – per tutti quelli che non forniscono articoli di consumo immediato – la massa di coloro che partecipano alla produzione è assolutamente esclusa dalla compra dei loro propri prodotti. Essi non sono mai consumatori immediati o compratori di questa grande parte dei loro propri prodotti, benché essi paghino negli articoli di consumo che comprano parte del valore dei medesimi. Si vede qui anche l'ambiguità della parola consumatore e l'erroneità di identificarla con la parola compratore. Industrialmente sono proprio gli operai che consumano le macchine e la materia prima, che le utilizzano nel processo lavorativo. Ma non le utilizzano per sé. Perciò non ne sono neanche compratori. Per essi [per i proletari, NdR] non sono valori d'uso, merci, ma condizioni oggettive di un processo del quale essi stessi sono le condizioni soggettive.
 

Si può però dire che colui che li impiega [il capitalista, NdR] li rappresenta nell'acquisto di strumenti di lavoro e di materiale di lavoro. Egli però li rappresenta in condizioni diverse da come essi [i proletari, NdR] rappresenterebbero se stessi. Cioè sul mercato. Egli deve vendere una massa di merci, che rappresenta plusvalore, lavoro non pagato. Essi avrebbero da vendere solo una massa di merci che riproducesse il valore anticipato nella produzione – nel valore degli strumenti di lavoro, del materiale di lavoro e del salario. Egli abbisogna perciò di un mercato più ampio di quanto essi avrebbero bisogno. Ma allora dipende da lui e non da loro mantenere le condizioni di mercato abbastanza favorevoli per cominciare la riproduzione. Dunque, essi sono produttori senza essere consumatori […] per tutti gli articoli che non devono essere consumati individualmente, ma industrialmente. Dunque, niente di più sciocco, per negare le crisi, dell'affermazione che consumatori (compratori) e produttori (venditori) si identificano nella produzione capitalistica. […] È altrettanto inversamente errato che i consumatori siano produttori. Il landlord (la rendita fondiaria) non produce e tuttavia consuma. Allo stesso modo stanno le cose con l'intero interesse monetario.

Le frasi apologetiche per negare la crisi, in tanto sono importanti, in quanto esse dimostrano sempre il contrario di ciò che vogliono dimostrare. Esse – per negare la crisi – affermano unità dove esiste antitesi e contraddizione. [… Esse] dimostrano che, se di fatto le contraddizioni da esse eliminate con la fantasia non esistessero, non esisterebbe neanche la crisi. Ma di fatto la crisi esiste, perché esistono quelle contraddizioni. Ogni motivo che esse adducono contro la crisi è una contraddizione eliminata con la fantasia, quindi una contraddizione reale, quindi un motivo della crisi. Il voler eliminare con la fantasia le contraddizioni è contemporaneamente l'espressione di contraddizioni realmente esistenti che secondo il pio desiderio non devono esistere.

Ciò che gli operai di fatto producono è plusvalore. Finché lo producono, essi hanno da consumare. Non appena cessano di produrlo cessa il loro consumo perché cessa la loro produzione 1. Ma in nessun modo essi hanno da consumare perché producono un equivalente per il loro consumo. Piuttosto, non appena essi producono semplicemente tale equivalente, cessa il loro consumo, non hanno da consumare alcun equivalente. O il loro lavoro viene arrestato o accorciato o in tutti i casi il loro salario viene abbassato. Nell'ultimo caso – se il grado di produzione resta lo stesso – essi non consumano alcun equivalente per la loro produzione. Ma allora questi mezzi mancano loro non perché essi non producono abbastanza, ma perché ricevono in appropriazione troppo poco del loro prodotto. Dunque, se il rapporto si riduce semplicemente a quello fra consumatori e produttori, si dimentica che l'operaio salariato che produce e il capitalista che produce sono due produttori di genere del tutto diverso, prescindendo dai consumatori che non producono affatto. L'antitesi viene nuovamente negata per il fatto che si fa astrazione da una antitesi realmente esistente nella produzione.
 

[Riassumendo:]

Il semplice rapporto fra operaio salariato e capitalista include:

1. che la maggior parte dei produttori (gli operai) non sono consumatori (compratori) di una grandissima parte del loro prodotto, cioè degli strumenti di lavoro e del materiale di lavoro;

2. che la maggior parte dei produttori, gli operai, possono consumare solo un equivalente per il loro prodotto, finché producono più di questo equivalente – il plusvalore o il plusprodotto. Essi devono essere sempre sovrapproduttori, produrre al di là del loro bisogno, per poter essere consumatori o compratori entro i limiti del loro bisogno. Per questa classe di produttori, dunque, l'unità fra produzione e consumo risulta prima facie in ogni caso falsa.

Quando Ricardo dice che l'unico limite della domanda è la produzione stessa, e questa è limitata dal capitale, ciò non significa […] altro se non che la produzione capitalistica trova la sua misura solo nel capitale, dove però contemporaneamente per capitale s'intende insieme la capacità lavorativa incorporata al capitale (da esso acquistata) come una delle sue condizioni di produzione. Ci si chiede appunto se il capitale come tale sia anche il limite per il consumo. In ogni caso questo limite è negativo, cioè non può essere consumato più di quanto ne venga prodotto. Ma la questione [è] […] se può e deve essere consumato tanto – in base alla produzione capitalistica – quanto viene prodotto. La tesi di Ricardo analizzata correttamente dice proprio il contrario di ciò che deve dire – cioè che la produzione non avviene tenendo conto dei limiti esistenti del consumo, ma è limitata solo dal capitale stesso. E ciò è caratteristico appunto per questo modo di produzione.

Dunque, secondo il presupposto, il mercato è saturo per esempio di tessuti di cotone, così che essi in parte sono invendibili, del tutto invendibili o vendibili solo molto al di sotto del loro prezzo. (Diciamo anzitutto valore, perché esaminando la circolazione o il processo di riproduzione abbiamo ancora a che fare col valore, non ancora col prezzo di [produzione] e ancor meno col prezzo di mercato.)

Del resto […] non si può negare che in singole sfere si può sovrapprodurre e perciò in altre si può produrre troppo poco; possono quindi scaturire crisi parziali da produzione sproporzionata (ma la produzione proporzionata è sempre soltanto il risultato della produzione sproporzionata in base alla concorrenza) e una forma generale di questa produzione sproporzionata può essere sovrapproduzione di capitale fisso o d'altra parte sovrapproduzione di capitale circolante. Come per le merci è una condizione che esse siano vendute al loro valore, che [sia] contenuto in esse solo il tempo di lavoro socialmente necessario, così per un'intera sfera di produzione del capitale è una condizione che del tempo di lavoro complessivo della società sia impiegata in questa sfera particolare soltanto la parte necessaria, solo il tempo di lavoro che è richiesto per il soddisfacimento del bisogno sociale (domanda). Se ne viene impiegato di più, ogni singola merce può invero contenere solo il tempo di lavoro necessario; la somma contiene più del tempo di lavoro socialmente necessario, in tutto come la singola merce che ha sì un valore d'uso, ma la somma, ai presupposti dati, perde una parte del suo valore d'uso.

Ciò non pertanto noi non parliamo qui della crisi in quanto poggia su una produzione sproporzionata, cioè su una sproporzione fra la divisione del lavoro sociale fra le singole sfere di produzione. Se ne può parlare solo in quanto si parla della concorrenza dei capitali. Poiché si è già detto che un aumento o una diminuzione del valore di mercato in seguito a questa sproporzione ha per conseguenza il trasferimento e ritiro di capitale da una branca d'industria all'altra, emigrazione di capitale da una branca d'industria all'altra. Tuttavia in questa perequazione stessa è già presente il fatto che essa presuppone il contrario della perequazione e può dunque includere una crisi, la crisi stessa può essere una forma della perequazione. Questo genere di crisi, però, Ricardo l'ammette, ecc.

Nel processo di produzione abbiamo visto che tutto l'anelito della produzione capitalistica [consiste nell'] accaparrare il massimo di pluslavoro, quindi di materializzare il massimo di tempo di lavoro immediato con un dato capitale, sia mediante prolungamento del tempo di lavoro, sia mediante accorciamento del tempo di lavoro necessario, mediante lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, impiego di cooperazione, divisione del lavoro, macchinario, ecc., per farla breve mediante una produzione su scala maggiore, quindi mediante una produzione in massa. Nell'essenza della produzione capitalistica è insita quindi una produzione senza riguardo ai limiti del mercato.

Nella riproduzione viene anzitutto presupposto che il modo di produzione resti lo stesso, e questo resta tale per qualche tempo nell'allargamento della produzione. Qui la massa delle merci prodotte [viene] aumentata, perché viene impiegato più capitale, non perché esso venga impiegato più produttivamente. Ma il semplice aumento quantitativo del capitale implica contemporaneamente che la forza produttiva del medesimo venga aumentata. Se il suo aumento quantitativo è una conseguenza dello sviluppo della forza produttiva, questa allora a sua volta inversamente si sviluppa sul presupposto di un fondamento capitalistico più largo, allargato. […] La riproduzione su base più larga, l'accumulazione, […] si rappresenta perciò a un certo punto sempre anche qualitativamente come maggiore fertilità delle condizioni nelle quali procede la riproduzione.

[…]

Ora, se sono non solo le cotonerie, ma anche le tele, sete e lanerie in cui ha avuto luogo una sovrapproduzione, si comprende come la sovrapproduzione in questi pochi, ma dominanti articoli susciti sull'intero mercato una sovrapproduzione più o meno generale (relativa). Da un lato eccesso di tutte le condizioni di riproduzione ed eccesso di ogni genere di merci invendute sul mercato. Dall'altro lato capitalisti in bancarotta e masse d'operai prive di tutto, mancanti del necessario.

Questo argomento, tuttavia, è a doppio taglio. Se è facilmente comprensibile come la sovrapproduzione in alcuni articoli di consumo dominanti debba avere come conseguenza una sovrapproduzione più o meno generale, […] con ciò non si comprende ancora affatto come possa aver luogo la sovrapproduzione in questi articoli [dominanti, NdR]. […] il fenomeno della sovrapproduzione generale è derivato dalla dipendenza degli operai occupati non solo immediatamente in queste industrie, ma in tutte le branche d'industria che producono i primi elementi del loro prodotto, il loro capitale costante in diverse fasi. Per quest'ultime la sovrapproduzione è un effetto. Ma donde deriva nelle prime? Perché le ultime vanno avanti […] finché le prime vanno avanti, e con questo andare avanti appare assicurata una crescita generale del reddito, quindi anche del loro proprio consumo.

13. Arretratezza del mercato rispetto all'aumento della produzione. La concezione ricardiana della domanda illimitata e dell'impiego illimitato di capitale
 

Se si volesse rispondere che la produzione sempre allargantesi (che si allarga annualmente per due motivi: in primo luogo perché il capitale investito nella produzione cresce continuamente; in secondo luogo perché viene impiegato continuamente in modo più produttivo; durante la riproduzione e l'accumulazione si ammucchiano continuamente piccoli miglioramenti che alla fine hanno modificato l'intera scala della produzione. Ha luogo un [accumularsi] di miglioramenti, uno sviluppo accatastantesi delle forze produttive) [la produzione sempre allargantesi] ha bisogno di un mercato sempre allargato e che la produzione si allarga più rapidamente del mercato, si è solo diversamente espresso il fenomeno che va spiegato, anziché nella sua forma astratta lo si è espresso nella sua forma reale. Il mercato si allarga più lentamente della produzione ovvero nel ciclo che il capitale percorre durante la sua riproduzione – un ciclo in cui esso non si riproduce semplicemente, bensì su scala allargata, non descrive un circolo, ma una spirale – sopraggiunge un momento in cui il mercato appare troppo stretto per la produzione. Questo è alla fine del ciclo. Ma ciò significa semplicemente: il mercato è saturo. La sovrapproduzione è manifesta. Se l'allargamento del mercato avesse tenuto il passo con l'allargamento della produzione, allora non ci sarebbe saturazione del mercato, sovrapproduzione.

Tuttavia con la semplice ammissione che il mercato si deve allargare con la produzione, sarebbe già data d'altro canto anche la possibilità di una sovrapproduzione, poiché il mercato è geograficamente circoscritto esternamente, il mercato interno appare come limitato di fronte ad un mercato che è interno ed esterno, e quest'ultimo a sua volta è limitato rispetto al mercato mondiale il quale però, in ogni istante, è a sua volta limitato, [pur essendo] capace in sé di allargamento. Se perciò è ammesso che il mercato deve allargarsi, che nessuna sovrapproduzione deve avere luogo, è anche ammesso che possa aver luogo una sovrapproduzione, perché è possibile allora, in quanto mercato e produzione [sono] due [momenti] indifferenti l'uno rispetto all'altro, che l'allargamento dell'uno non corrisponda all'allargamento dell'altro, che i limiti del mercato non si allarghino abbastanza rapidamente per la produzione oppure che nuovi mercati – nuovi allargamenti del mercato – possano essere rapidamente superati dalla produzione, così che ora il mercato allargato appaia come un limite, tanto quanto prima quello più stretto.
 

Ricardo perciò nega conseguentemente la necessità di un allargamento del mercato con l'allargamento della produzione e la crescita del capitale. Tutto il capitale che esiste in un paese può essere impiegato anche vantaggiosamente in questo paese. Egli perciò polemizza con A. Smith, che da un lato ha enunciato la sua (di Ricardo) opinione e col suo istinto abitualmente ragionevole l'ha anche contraddetta. Smith non conosce ancora il fenomeno della sovrapproduzione, delle crisi da sovrapproduzione. Ciò che egli conosceva erano semplici crisi di credito e monetarie che compaiono comunemente col sistema creditizio e bancario. Di fatto egli vede nell'accumulazione del capitale un accrescimento incondizionato della ricchezza popolare e del benessere generale. D'altro canto egli concepisce il semplice sviluppo del mercato interno verso il mercato estero, coloniale e mondiale come prova di una sovrapproduzione (esistente in sé) per così dire relativa sul mercato interno.

[…]

14. La contraddizione fra l'inarrestabile sviluppo delle forze produttive e la limitatezza del consumo come base della sovrapproduzione. Carattere apologetico della teoria della impossibilità della sovrapproduzione generale.

II termine sovrapproduzione induce in sé in errore. Finché i bisogni più urgenti di una gran parte della società non sono soddisfatti o lo sono solo i suoi bisogni immediati, naturalmente non si può assolutamente parlare di una sovrapproduzione di prodotti – nel senso che la massa dei prodotti sarebbe sovrabbondante in rapporto ai bisogni di essi. Si deve dire al contrario che in base alla produzione capitalistica si sottoproduce, in questo senso, continuamente. Il limite della produzione è il profitto dei capitalisti, in nessun modo il bisogno dei produttori. Ma sovrapproduzione di prodotti e sovrapproduzione di merci sono due cose del tutto diverse. Se Ricardo crede che la forma della merce sia indifferente per il prodotto, inoltre che la circolazione di merci sia solo formalmente diversa dal baratto, che il valore di scambio sia qui soltanto una forma transeunte dello scambio materiale, che quindi il denaro sia semplicemente un mezzo formale di circolazione, questo si risolve di fatto nel suo presupposto che il modo di produzione borghese sia quello assoluto, quindi

che sia anche un modo di produzione senza una precisa determinazione specifica, e che di conseguenza ciò che in esso è determinato sia solo formale. Non può dunque neanche essere ammesso da lui che il modo di produzione borghese implichi un limite per il libero sviluppo delle forze produttive, un limite che viene alla luce nelle crisi e fra l'altro nella sovrapproduzione – il fenomeno fondamentale delle crisi.

[…]

Tutte le difficoltà che Ricardo e altri sollevano contro una sovrapproduzione, ecc., poggiano sul fatto che essi considerano la produzione borghese come un modo di produzione in cui o non esiste differenza fra compra e vendita – baratto immediato – o come produzione sociale tale che la società, come secondo un piano, ripartisca i suoi mezzi di produzione e le sue forze produttive nel grado e nella misura in cui sono necessari al soddisfacimento dei loro diversi bisogni, così che ad ogni sfera di produzione tocchi il Quotum del capitale sociale richiesto al soddisfacimento del bisogno al quale essa corrisponde. Questa finzione scaturisce in genere dall'incapacità di comprendere la forma specifica della produzione borghese e quest'ultima a sua volta dall'essere sprofondati nella produzione borghese intesa come la produzione semplicemente. Così come un tipo che crede ad una determinata religione, vede in essa semplicemente la religione e fuori di essa solo false religioni.

Al contrario sarebbe piuttosto da chiedere: in base alla produzione capitalistica dove ognuno lavora per sé e il lavoro particolare deve contemporaneamente rappresentarsi come il suo contrario, come lavoro astrattamente generale, e in questa forma deve rappresentarsi come lavoro sociale, la perequazione e l'omogeneità necessarie delle diverse sfere di produzione, la misura e la proporzione fra le medesime, come saranno possibili se non mediante un continuo superamento di una continua disarmonia? Questo è ancora ammesso quando si parla delle perequazioni della concorrenza, perché queste perequazioni presuppongono sempre che qualcosa sia da perequare, che quindi l'armonia sia sempre un risultato del movimento del superamento della disarmonia esistente.

Perciò anche Ricardo ammette la saturazione per singole merci. L'impossibile consisterà solo in

una simultanea, generale saturazione del mercato. Quindi la possibilità della sovrapproduzione

non viene negata per una qualunque sfera particolare di produzione. L'impossibilità della sovrapproduzione generale consisterà nella simultaneità di questi fenomeni per tutte le sfere di produzione e perciò in una generazione saturazione del mercato (un'espressione che va presa sempre cum grano salis, perché in momenti di generale sovrapproduzione, la sovrapproduzione in alcune sfere è sempre solo risultato, conseguenza della sovrapproduzione negli articoli di commercio dominanti; [essa è] sempre solo relativa, sovrapproduzione perché esiste sovrapproduzione in altre sfere).

L'apologetica ribalta questo proprio nel contrario, [affermando che si ha] sovrapproduzione negli articoli di commercio dominanti, in cui si mostra solo la sovrapproduzione attiva – sono questi in genere articoli che possono essere prodotti solo in massa e fatti in fabbrica (anche nell'agricoltura), perché esiste sovrapproduzione negli articoli in cui si manifesta una sovrapproduzione relativa o passiva. Secondo questa tesi, esiste semplicemente sovrapproduzione perché la sovrapproduzione non è universale. La relatività della sovrapproduzione – il fatto che la sovrapproduzione reale in alcune sfere la provochi in altre – viene così espressa: non c'è nessuna sovrapproduzione universale perché se la sovrapproduzione fosse universale, tutte le sfere di produzione conserverebbero lo stesso rapporto reciproco; quindi sovrapproduzione universale equivale a produzione proporzionata, il che esclude la sovrapproduzione. E ciò deporrà contro la sovrapproduzione universale.

[…]

[…] in altre parole, nient'altro che questo: nessuna sovrapproduzione avrebbe luogo se domanda e offerta si corrispondessero, se il capitale fosse ripartito in tutte le sfere di produzione in modo così proporzionato che la produzione dell'un articolo includesse il consumo dell'altro, quindi il suo proprio consumo. Non ci sarebbe nessuna sovrapproduzione se non ci fosse nessuna sovrapproduzione. Ma poiché la produzione capitalistica non può darsi libero corso altro che in certe sfere, a certe condizioni, non sarebbe in genere possibile nessuna produzione capitalistica se essa dovesse svilupparsi in tutte le sfere simultaneamente e uniformemente. Poiché in queste sfere ha luogo una sovrapproduzione in senso assoluto, essa ha luogo relativamente anche nelle sfere in cui non si è sovrapprodotto.

Questa spiegazione della sovrapproduzione da un lato, mediante la sottoproduzione dall'altro, non significa dunque altro che: se avesse luogo una produzione proporzionale, non avrebbe luogo alcuna sovrapproduzione. Parimenti, se domanda e offerta si corrispondessero. Parimenti, se tutte le sfere includessero le stesse possibilità della produzione capitalistica e del suo allargamento – divisione del lavoro, macchinario, esportazione in mercati lontani, ecc., produzione in massa – , se tutti i paesi che commerciano l'uno con l'altro possedessero uguale capacità di produzione (e precisamente una produzione diversa e integrantesi). Dunque, ha luogo una sovrapproduzione perché tutti questi pii desideri non hanno luogo. O ancor più astrattamente: non avrebbe luogo nessuna sovrapproduzione da una parte, se avesse luogo uniformemente da tutte le parti una sovrapproduzione. Ma il capitale non è sufficientemente grande da sovrapprodurre così universalmente, e perciò ha luogo una sovrapproduzione parziale.

[…]

Si nega la sovrapproduzione di merci e viene invece ammessa la sovrapproduzione di capitale. Ora il capitale consta esso stesso di merci o, in quanto consta di denaro, deve essere ritrasformato in merci in una maniera o nell’altra per poter funzionare come capitale. Cosa significa dunque sovrapproduzione di capitale? Sovrapproduzione delle masse di valore che sono destinate a generare plusvalore (o, considerata secondo il contenuto materiale, sovrapproduzione di merci che sono destinate alla riproduzione) – quindi riproduzione su scala troppo grande, il che equivale a sovrapproduzione semplicemente.

Definito più da vicino, ciò non significa altro se non che si produce troppo al fine dell'arricchimento o che una parte troppo grande del prodotto è destinata non ad essere consumata come reddito, ma a fare più denaro (ad essere accumulata) non a soddisfare i bisogni privati del suo possessore, ma a creargli la ricchezza sociale astratta, denaro e più potere sul lavoro altrui, a creare capitale – o ad accrescere questo potere. Da una parte si dice questo. […] E dall'altra con che cosa si spiega la sovrapproduzione delle merci? Affermando che la produzione non è diversificata abbastanza, che determinati oggetti del consumo non sono stati prodotti in massa a sufficienza.

Che qui non possa trattarsi del consumo industriale [è] chiaro, perché il fabbricante che sovrapproduce in tela aumenta con ciò necessariamente la sua domanda di filo, macchinario, lavoro, ecc. Si tratta dunque del consumo privato. Si è prodotta troppa tela, ma forse troppo poche arance. Poc'anzi è stato negato il denaro per rappresentare [come inesistente] la separazione fra compra e vendita. Qui si nega il capitale per trasformare i capitalisti in gente che compie la semplice operazione M-D-M e che produce per il consumo individuale, non come capitalisti, con lo scopo dell'arricchimento, con lo scopo di ritrasformare una parte del plusvalore in capitale.

[…]

La sovrapproduzione in modo speciale ha per condizione la legge generale di produzione del capitale, di produrre nella misura delle forze produttive (cioè della possibilità di sfruttare, con una data massa di capitale, una massa di lavoro la più grande possibile) senza riguardo per i limiti del mercato esistenti o per i bisogni solvibili, e di realizzare questo per mezzo di un continuo allargamento della riproduzione e dell'accumulazione, quindi una continua ritrasformazione di reddito in capitale, mentre d'altro canto la massa dei produttori resta limitata alla misura media di bisogni e deve restare limitata secondo l'organizzazione della produzione capitalistica. 

1 Per queste ultime due frasi, ci siamo basati sull’edizione Einaudi 1955 (pag.573), che ci pare più aderente all’originale.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°02 - 2014)

 
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