DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Per la crescita del capitale, le spese militari sono assolutamente necessarie. Lo Stato finanzia con quelle la sicurezza di cui i suoi capitalisti hanno bisogno per garantirsi le fonti di ricchezza estere, l’assoggettamento dei lavoratori sia all’interno che all’estero, l’uso diretto e immediato delle risorse naturali, la gestione delle fabbriche e il potere del capitalismo nazionale. Per garantire i profitti, lo Stato mette “sotto sequestro” la natura e il lavoro non solo nazionale, ma anche mondiale. Per questo, le spese militari e la potenza distruttiva di un esercito sono davvero la vera forza produttiva del capitalismo, la vera garanzia della continuità del processo produttivo. Nagasaki, Hiroshima, Dresda, Berlino, Varsavia sono luoghi esemplari della potenza distruttiva del capitale: nient’altro! I musei dell’orrore che sono stati costruiti nelle città bombardate, come i musei dell’Olocausto e i monumenti al Milite ignoto, servono da deterrenti contro la rivoluzione proletaria e non contro la guerra borghese, di cui si esaltano anzi le virtù patriottiche. Tra spese militari e forza produttiva nazionale, esiste una relazione diretta: le spese per le forze armate e per gli armamenti sono tanto maggiori quanto più capitale si è accumulato in una nazione e di conseguenza quanto più esteso è il raggio d’interessi degli affari e, a maggior ragione, quanto più capitale è già impiegato all’estero. Le spese militari sono produttive per il capitalismo in quanto fonti di immensi profitti, al pari delle spese per le infrastrutture e per l’edilizia. Il profitto è realizzato usando la forza-lavoro nei sofisticati armamenti come in ogni altra merce capitalistica. Il fatto che le armi abbiano un valore d’uso distruttivo non cambia assolutamente niente: al contrario, mostra soltanto la natura socializzata della ricchezza, il suo valore di scambio, che è al centro di tutta l’attività economica nella società capitalista. Ad aumentare questa ricchezza servono tanto i carri armati e i bombardieri quanto le macchine per la costruzione di strade, i proiettili come i giocattoli, le mine antiuomo come i lecca-lecca. In un certo senso, gli armamenti valgono forse anche di più dell’offerta di merci “civili” da vendersi a ognuno: lo Stato, con la sua quasi inesauribile forza d’acquisto, con le sue enormi necessità, la sua pianificazione a lungo termine, la sua disponibilità, può associare generali e ingegneri, imprenditori e fisici, per inventare le future necessità di guerra.

Le spese militari sono anche un solido contributo alla crescita in genere. La creazione di plusvalore permette al capitalismo di accrescere la ricchezza della società attraverso la produzione di pura potenza distruttiva, sicché un bilancio militare fiorente è, per il capitale e il suo Stato, non un danno ma una vera benedizione. Le potenti nazioni capitaliste ritengono che sia certamente giustificato contrarre più credito per i loro progetti nel campo dei loro armamenti: con la stretta cooperazione fra l’industria e le forze armate, i governi promuovono il progresso della tecnologia industriale in ogni settore, dalla scienza dei materiali all’industria farmaceutica e a quella elettronica, e assicurano le migliori risorse tecniche alle imprese nazionali a tutto profitto della capacità concorrenziale. Inoltre, i mezzi di guerra sono sottoposti a una forte “usura morale” (come la chiama Marx), molto più che nell’industria: ovvero, gli armamenti sono rapidamente sorpassati da nuove tecnologie e tuttavia non escono di mercato, perché una folla di acquirenti di tutte le specie si mostra pronta a allargare i propri arsenali. E ancora: la vocazione dell’industria moderna è la grande produzione, la produzione in massa, l’aumento del valore complessivo di produzione e la diminuzione del valore unitario. La produzione di guerra segue tutto l’iter che va dalla scoperta scientifica fino alle sue applicazioni tecniche più ampie e da qui alla realizzazione del plusvalore attraverso il grande circuito delle merci. Le nuove armi si pagano a qualunque prezzo, e la loro produzione è condizione indispensabile per lo sviluppo generalizzato dell’indotto “civile”. Il mercato trova facilmente i suoi acquirenti e con questi la riproduzione su grande scala per un profitto superiore alla media è assicurata. I mezzi finanziari in questo settore sono i veicoli più potenti per ingigantire e velocizzare la circolazione del prodotto bellico, la vendita degli armamenti permette la valorizzazione rapida del capitale investito: ma l’industria bellica deve consumare quelle merci, e i compratori stranieri (gli Stati), avendo seminato tensioni esplosive, sanno come impiegarle. Lo dimostrano le centinaia di guerre più o meno estese che si sono combattute dalla fine della Seconda guerra mondiale a oggi: per numero, potenza di fuoco, qualità tecnica, complessità della gestione militare e massa di capitali, ciascuna di esse ha superato in alcuni casi quella degli eserciti e degli armamenti del primo e del secondo conflitto mondiale.

C’è dell’altro. Le armi sono oggi moneta di scambio: sono concepite e prodotte appositamente per scambiarle con prodotti energetici (petrolio, gas, materie prime ferrose e radioattive). Scrivevamo in “Armamenti: un settore che non è mai in crisi” (Quaderni del Programma comunista, n°2, giugno 1977): “I complicati contratti di compensazione nelle trattative in materia di armamenti dimostrano come l’arma sia indissolubilmente compenetrata nell’economia capitalistica. Ma la merce è tale perché possiede un valore d’uso. La corsa agli armamenti è una cambiale che prima o poi scade, non si può prescindere dal valore d’uso della merce. […] Si ha un bel dire che il valore d’uso di un’arma può essere rappresentato dal deterrente contro gli avversari e quindi non necessariamente dal suo ‘consumo’. La guerra capitalistica è distruzione di surplus e ricostruzione; perciò in quel processo l’arma deve essere consumata. E lo è”.

 

Per la maggior parte dei nuovi prodotti, l’avvio della produzione di massa richiede un semplice maggior anticipo di capitale, per cui il committente deve possedere grandi risorse finanziarie per acquistarle. Lo Stato capitalista è quello che, attraverso le imposte, può diventare il migliore committente dell’industria bellica. Nell’epoca dell’imperialismo, tutti gli Stati alimentano la propria industria di punta, quella militare, e divorano percentuali di spesa pubblica che fagocitano ogni altra possibilità: spese enormi in ogni tempo. Nella fornace della guerra, si consumeranno presto o tardi le cattedrali di una civiltà ormai putrescente.

 

 

Partito Comunista Internazionale

 

(il programma comunista n°05 - 2013)

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