DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Come sempre, l’esplodere delle contraddizioni generate dall’intrinseca natura anarchica del capitale illumina e fa risaltare con maggior chiarezza, come su un campo di battaglia (perché il capitalismo è un campo di battaglia), gli schieramenti, le posizioni, gli avamposti di tutti i contendenti. Così è stato con l’ampio fronte di rivolte che ha colpito (e continua a colpire) il Nord-Africa, spingendosi ben dentro il Medio Oriente. All’articolo precedente, abbiamo dato conto delle posizioni interne al “dissenso” piccolo-borghese e “di sinistra” in Egitto, e ci siamo occupati nei numeri precedenti di questo giornale delle reazioni di tutto lo schieramento democratico e piccolo-borghese europeo – il mefitico pacifismo, l’anti-imperialismo di maniera, l’inguaribile natura guerrafondaia e sciovinista di tanti autoproclamatisi “sinistri”. Ma la confusione è tanta e va ben di là da queste, peraltro prevedibili, prese di posizione. Nella frenesia internettista di bloggers vari, di siti proliferati come altrettante velenose Amanite Muscarie dove chiunque si sente motivato a spararle grosse, affiorano alcuni punti che mostrano il grado penoso di assorbimento del materialismo storico e l’enorme lavoro di chiarificazione che tocca fare al partito rivoluzionario, per sgombrare il campo di battaglia da finti amici e pretesi alleati.

Ora, a noi non interessa la paternità di queste posizioni, quanto le posizioni stesse, perché sono queste a mostrarci il grado di confusione che regna in certi ambienti. Citiamo dunque un brano da uno dei bollettini che, pubblicato da un gruppo di “studenti e lavoratori per l’internazionalismo di classe”, in questi ultimi tempi ci è capitato fra le mani:

“Quella stessa sudditanza [della quasi totalità della “sinistra” all’ideologia dominante, NdR] porta a non comprendere come le parole di democrazia, libertà e diritti individuali perdono completamente il loro senso e la loro portata in contesti come quello nordafricano in cui il tessuto sociale è ancora fortemente imperniato da modi di produzione asiatici e precapitalistici, in cui la logica tri-bale, familiare e comunitaria è tuttora predominante [corsivo nostro - NdR]. Senza la Rivoluzione Francese, senza l’artigiano-mercante che diventa borghese, senza quello sviluppo di forze produttive che permette alla borghesia la presa del potere e la distruzione delle vecchie strutture feudali, senza il borghese-cittadino, la democrazia e libertà perdono il senso, che i sinistri nostrani vorrebbero dare, vincolati in quel terreno, dai confini della tribù e della famiglia. La democrazia significa ritorno al vecchio, alla tradizione reazionaria, alle decisioni prese dal consiglio delle tribù. Ed estremizzando al potere degli Ulema o della Sharia. I ribelli di Bengasi perdono così le vesti dei novelli giacobini, rappresentanti del presunto risorgimento arabo, rimettendosi gli abiti tribali e famigliari cirenaici, in opposizione alle famiglie tripolitane influenzate e/o sottomesse al clan di Gheddafi: la loro lotta per la liber-tà è la lotta per disporre liberamente della rendita petrolifera, per redi-stribuire liberamente tale rendita se-condo nuovi equilibri tra clan, famiglie e tribù”.

Dunque, riassumendo: nel Nordafrica, avremmo ancora un modo di produzione asiatico e precapitalista; ne deduciamo che la produzione capitalistica e le classi fondamentali che la caratterizzano, proletariato e bor-ghesia, sarebbero assenti; la democrazia, la libertà, ”cose nostre” (Rivoluzione Francese, etc.), non avrebbero ancora varcato il Mare no-strum; la democrazia in specie sarebbe ancora la forma organizzativa tribale, quella del Consiglio delle tribù; ergo, la lotta in corso è reazionaria, perché vorrebbe conservare il vecchio sistema, i vecchi rapporti di produzione tribali. Ora, certamente il cosiddetto “risorgimento africano” è una bufala, non è fatto né da giacobini né da girondini, ma non perché nel Nordafrica si lotterebbe… per “ridi-stribuirsi la rendita tra clan e famiglie” (sic!).

Poveri studenti! Capiamo la delusione: si aspettavano un’ulteriore rimessa in gioco del vecchio sogno antimperialista dei piccolo-borghesi – una bella “rivoluzione culturale cinese”, un novello “movimento zapatista”, un rilancio del movimento guevarista, un Chavez non avrebbe fatto male, con tanto di magliette co-lorate arancione, viola e... gelsomino, 5stelline, iPod. Che delusione! Conclusione: “i borghesi che si ribellano” non sono borghesi, sono dei reazionari! E perché? Perché lottano “per disporre liberamente della rendita petrolifera e dividersela all’interno dei clan e delle tribù”. Ordunque, Mubarak, Gheddafi, Ben Ali che dividevano la rendita con le grandi imprese multinazionali del petrolio (con l’Eni, ad esempio, con l’ita-lica madrepatria), erano progressisti, riformisti?

Un modo di produzione asiatico e precapitalistico nel Nordafrica? … azzo, che durata! Non ci sono dunque aziende capitalistiche nel Maghreb? Non ci sono proletari nell’industria, braccianti in agricoltura, salariati nelle aziende petrolifere, nelle raffinerie, nel commercio? Non ci sono organizzazioni sindacali (di Stato)? Non ci sono scioperi?

 

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Per quanto riguarda gli scombussolamenti sociali, entriamo in un altro pasticcio: se ci fosse stata una vera rivoluzione democratica “non ci sarebbero stati effetti così pesanti sulla realtà concreta”. Infatti, “assistiamo a intensi flussi migratori provenienti proprio da quei paesi in cui la supposta rivoluzione, proprio quella rivoluzione portatrice di democrazia e libertà, avrebbe vinto e trionfato”. Di grazia, che cosa si vuol dire? Avrebbe dovuto la massa rimanere, felice e contenta, in attesa che le venisse cucinato lo sviluppo capitalistico in casa propria, trascinato dalla rivoluzione democratica trionfante? Date le premesse “teoriche” (la presenza del modo di produzione asiatico), se ne deve dedurre che a scappare sarebbero o i numerosissimi figli dei capi clan caduti in miseria o la gigantesca massa di diseredati, di mi-serabili, senza arte né parte. Non gli passa per la testa che le fughe, le traversate, gli esodi sono gli stessi che si compiono in ogni parte del mondo dalle periferie (non precapitalistiche, che non esistono più) verso le metropoli capitaliste? E che questa è la realtà economica e sociale del Maghreb?

E si insiste: chi fugge viene a cercare la democrazia e la libertà qui da noi, viene a cercare quelle “utopie che tanti si sono fatti nella propria testa inneggiando alle ‘rivoluzioni’ dei paesi arabi” – utopie che non hanno potuto realizzare a casa loro, ma anche illusioni di disperati in cerca di un lavoro salariato (che, a causa della predetta… arretratezza precapitalista, ovviamente non potrebbero trovare nei loro paesi), poveri, che la borghe-sia imperialista usa come concorrenti contro i nostri lavoratori, abbassando i nostri salari. Aiuto!

 

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Strano, ma tutto questo a noi appare come un tentativo, contorto e mascherato da “sentimento solidaristico”, di voler salvaguardare il “proprio miserabile reddito” contro i nuovi arrivati.  Sbagliamo? Ci par di sentire l’invocazione del May Day: “Che san Precario ci protegga da questi affamati! Esportiamo nei loro paesi la democrazia, senza alcuna violenza, educhiamoli al lavoro salariato e tutto si rimetterà in ordine!”. Lunga esperienza insegna (partiti e sindacati riformisti sono maestri in questo) che un lungo corso demo-cratico finisce per suscitare diritti, di-gnità e anche il voto… e, se poi si azzecca un 51% elettorale, anche una vera rivoluzione democratica!

L’organizzazione operaia e sindacale quindi dovrebbe lottare qui da noi a questo punto per (frase storica: udite, udite!) “calmierare la concorrenza”, pretendendo un aumento dei salari. Certamente la faccenda diventa difficile, soprattutto con la guerra in corso: bisogna perciò combattere la borghesia imperialista di casa nostra che spende denaro per la guerra, “occorre togliere soldi ai loro armamenti [così, “il discorso da astratto diventa concreto”!] per darli ai nostri biso-gni e consumi”.

L’“internazionalismo studentesco” consiste nel salvare possibilmente le proprie condizioni di reddito: altro che porsi sul piano della lotta di classe, del legame tra proletari di qualunque provenienza contro la borghesia! Solo l’organizzazione della forza potrebbe impedire la concorrenza tra lavoratori, solo la difesa e l’attacco alle condizioni presenti di esistenza del proletariato possono spezzare il fronte di classe nemico. Il cosiddetto “solidarismo internazionalista” è quindi solo una maschera della condizione piccolo-borghese, che ha certo sempre odiato i ricchi, l’aristocrazia finanziaria, le plutocrazie democratiche, il disordine sociale, ma in cambio di elemosine ha avuto affidato il compito di rintuzzare, attaccare, spegnere (da “sinistra” e da destra) ogni lotta. Il suo più grande assillo è il “concorrente” che le fa ombra, la carriera è il suo sogno e il suo cruccio, ogni ostacolo deve essere tolto di mezzo.

 

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Capiamoci: il Nordafrica non è terra del sottosviluppo e dei sottosviluppati; gli avvenimenti di rivolta, di cui il proletariato è stato protagonista almeno iniziale, vengono da uno sviluppo capitalistico giunto a una soglia insopportabile prodotta dalla stessa crisi di sovrapproduzione. I moti sono stati caval-cati dalla piccola e media borghesia caduta in basso – proprio a causa dello sviluppo capitalistico (polarizzazione tra ricchezza e miseria!) – ma sempre sognante il paradiso occidentale. La presenza in questi paesi delle classi sociali moderne (proletariato e borghesia) risale a molto prima dei moti di liberazione anticoloniali, moti che sono avvenuti in presenza di un ampio fronte proletario, che lo stalinismo internazionale (il Partito comunista francese in Tunisia e Algeria in primis) ha spinto verso l’alleanza (castrandolo orribilmente) con la borghesia nazionale, la quale ha trovato nell’esercito la propria unità di classe. Le famiglie, le tribù di cui si ciancia, possiedono mezzi finanziari straordinari, partecipano alla grande alle borse internaziona-li, non percepiscono rendite in natura, ma in denaro, che non nascondono certo sotto le mattonelle e dentro i materassi. I fondi sovrani sono titoli, capaci di sottrarre plusvalore internazionale. Le imprese multinazionali, le industrie statalizzate e quelle liberalizzate di recente, le monocolture fanno parte per caso di uno scenario precapitalistico?

I proletari di Tunisia, Egitto, Libia, Algeria, Marocco non sono dei “non-lavoratori”, che andranno a ingrossare, qui da noi, le file dell’esercito industriale di riserva (si teme forse che ci strappino il sussidio di disoccupazione, gli ammortizzatori sociali, la pensione?), ma a riempire settori economici ove nessun lavoratore nazionale metterebbe piede (cantieri edili, campi di raccolta, ambienti ad alto rischio). Non si tratta di “concorrenti” (come li dipinge la borghesia mettendo l’uno contro l’altro i proletari), ma di “autentica forza proletaria” (ridotta allo stato di disperazione non dall’arretratezza precapitalista, ma dallo sviluppo capitalistico, e già esercito di riserva nei loro paesi allo stato di fame e di oppressione). Sono dunque fratelli di classe, vera forza-lavoro, che la borghesia usa nel mondo intero per strappare ovunque – nelle fabbriche, nei campi, nel commercio – profitti extra (prolungamenti dell’orario di lavoro, bassi salari, condizioni di lavoro terribili).

Non si tratta allora di far intervenire i sindacati o fantomatici organismi operai per “calmierare la concorrenza”, che puzza di pacifismo disfattista. La concorrenza nasce dall’abbandono, dalla solitudine, dall’assenza di scioperi o dalla loro trasformazione in farse, in esibizione d’impotenza, in scioperi preavvisati, concertati, spezzettati per località, per categoria, per nazionalità. A calmierare la concorrenza provvedono i respingimenti, gli affondamenti, la caccia per le strade, i Centri di identificazione ed espulsione, il controllo sociale massiccio, gli arresti cui la “sinistra” ha dato un sostanziale aiuto con la legge Turco-Napolitano ben prima della Bossi-Fini, la reclusione per settori-galere. L’aumento del numero dei proletari può divenire ed è un parametro di forza, se questo esercito è organizzato e se è consapevole della propria forza. Occorre liberarlo dagli istigatori di pace e di legalità, dai consiglieri fraudolenti responsabili della loro concorrenza e del crumiraggio impiegatizio e sottoproletario (base dell’ari-stocrazia operaia sindacale e politica).

Cessate la guerra, le ostilità, le spese militari e l’afflusso dei cosiddetti stranieri (se mai cesseranno), tutto non tornerà per il meglio e lo Stato non verrà a ridistribuire redditi, posti di lavoro e caramelle. Per unificare il fronte di classe occorre passare dalla solidarietà caritatevole, dall’internazionalismo di maniera, alla lotta di classe dura, aspra, togliendosi dalla mente e dal cuore, e per sempre, come un marchio, la collocazione economica e sociale (la divisione del lavoro) in cui si è stati collocati.

Non studenti, ma militanti del partito di classe.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2011)

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