DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

La dittatura del Capitale

 

Il piano di sfruttamento proletario, da cui unicamente potrà essere ricavato l’intero fatturato Fiat (sempre che la crisi di sovrapproduzione e - come speriamo - una dura risposta di classe non sconvolgano lo schema cartaceo presentato alle banche, dato che la sua credibilità si fonda solamente su uno sfruttamento “dichiarato”, cioè su una  “probabile” realizzazione di plusvalore) è stato messo nero su bianco tra il plauso generale di Governo, Confindustria, opposizione e media e tra le geremiadi costituzionaliste di alcune oche capitoline di “sinistra”, starnazzanti per l’arrivo “dei barbari”. Sancito dagli accordi del Lingotto (relativi a Pomigliano e Mirafiori, essendo Termini Imerese ormai fuori gioco) e sottoscritto dalle sigle sindacali Cisl, Uil, Ugl, Fismic, (a cui si accoderà prima o poi la Cgil), viene confermato un sistema di relazioni sindacali tipico dello stato imperialista – quello di una concertazione corporativa che si fa forza di un dichiarato ricatto: “o si firma o si chiude e si delocalizza”, sintesi democratica di un’oppressione operaia senza confini, di un terrorismo senza veli e di una dittatura del Capitale, che solo la forza organizzata proletaria potrà spezzare. Le “nuove regole” della “imprevedibile” globalizzazione non muteranno le dinamiche e le necessità del Capitale: maggiore massa di sfruttamento su un numero sempre più ridotto di lavoratori e aumento della massa di profitto per una maggiore centralizzazione e concentrazione delle imprese. Cioè: una più feroce dittatura d’impresa che avrà bisogno di un maggior controllo sindacale – naturalmente per mezzo delle rappresentanze sindacali d’azienda – esercitata dalla rete dei capi reparto.

Gli scioperi, soffocati in anticipo per quello che sono, cioè atti di forza, non saranno tollerati (i lavoratori che sciopereranno potranno essere licenziati, perché legati con doppio nodo scorsoio al nuovo contratto), il pagamento dei primi giorni di malattia non sarà concesso quando il tasso di assenteismo per malattia, stress, incidente, è giudicato… eccessivo, i”diritti” sindacali (le rappresentanze) saranno rigidamente regolati e concessi solo a chi avrà sottoscritto gli accordi e riconosciuto la propria funzione di agente della direzione.

Sarà messa dunque in atto una piena, e adeguata alle condizioni odierne, subordinazione della merce forza- lavoro alle necessità imprescindibili del capitale per sostenerlo nella concorrenza mondiale in questo tempo di crisi, col tentativo disperato di rilanciare la produzione: non per nulla si parla in Europa di spingere formalmente il limite dell’orario di lavoro settimanale oltre le 48 ore, dopo avere portato il limite dell’età pensionistica oltre i 65 anni di età. Il contratto integrativo di secondo livello, cambiando di nome, si subordinerà ulteriormente alla richiesta di aumentare sempre più la produttività, proseguendo quel che la piattaforma unitaria dei tre sindacati Cgil, Cisl, Uil aveva già cominciato, per essere poi rintuzzata dalla Confindustria che aveva insistito affinché fosse limitato al massimo il carattere universale del contratto nazionale, svincolandolo da qualunque relazione che non fosse una maggiore produttività azienda per azienda, distretto per distretto. La crisi economica sopravvenuta ha solo dato un’altra spinta, ha accelerato la decisione di dare un colpo finale alla vecchia impalcatura della concertazione, in un quadro già preparato ben prima dell’arrivo di Marchionne. Quel che temono oggi di perdere le organizzazioni sindacali è quel “diritto di rendita permanente”, acquisito nella gestione della forza-lavoro: il “monopolio” delle rappresentanze sindacali unitarie che sancisce la possibilità di raccogliere le quote sindacali (le deleghe) direttamente dalla busta paga gestito dalle imprese (prelievo che, in questa nuova relazione contrattuale, viene sospeso per chi non firma). Si tratta di una vera e propria struttura di finanziamento (non l’unica!), finora concordata e sostenuta dalle organizzazioni imprenditoriali: una pacchia per le burocrazie degli apparati sindacali, che si avvalgono del silenzio-assenso dei lavoratori, assicurandosi in questo modo vere e proprie rendite utilizzate per mantenere un potere clientelare, composto di apparati di funzionari e di dipendenti (contabili, avvocati, precari, disoccupati, pensionati) pronti all’uso per salti “qualitativi” in… consigli di amministrazione di aziende pubbliche (per non parlare poi del sottobosco economico di piccole cooperative di servizi). Tutto per svolgere la funzione di pompieri e gendarmi nei confronti di eventuali e reali lotte spontanee e improvvise dei lavoratori.

I 4600 metalmeccanici di Pomigliano nel 2011 saranno riassunti (?!), dicono, da una newco, sganciata da Confindustria e Federmeccanica, come previsto dall’accordo di giugno, portando in Campania la produzione della nuova Panda, in cambio di maggiore flessibilità e produttività del lavoro. I criteri d’inquadramento professionale sono stati già definiti così come la stessa parametrizzazione dei salari. La Fiom, che protesta a parole, sarà dunque messa fuori dalle rappresentanze sindacali…  sempre supponendo che gli accordi firmati siano applicati.

Ma esiste un “metodo Marchionne”?

La risposta è “no”. Non esiste un “metodo Marchionne”, non esiste un “metodo individuale” di attacco alla classe operaia. Esiste un solo e unico attacco, quello condotto dalla classe capitalistica. In ogni tempo e ovunque, la borghesia ha addestrato i propri cani da pastore – dai Valletta ai Romiti fino ai Marchionne – così come ha utilizzato i cani da guardia sindacali bene addestrati dal riformismo – dai Di Vittorio ai Lama ai Bertinotti alle Camusso. Ha usato governi di destra, di centro e “di sinistra”, con l’unico scopo di mantenere la nostra classe alla catena. Non c’è mai stata discontinuità tra il metodo monarchico-liberale prima e fascista poi e il metodo repubblicano antifascista, tra l’assassinio delle avanguardie operaie negli anni venti, l’arruolamento corporativo nel ventennio mussoliniano per la preparazione allo sforzo bellico e la messa in riga dei proletari nella ricostruzione nazionale del dopoguerra, sotto la scorta della Celere di Scelba, degli attentati eseguiti da fascisti rimessi in libertà e della tutela nazionalcomunista del Pci.

L’attacco alla classe operaia non è mai cessato, fin da quando la crisi degli anni settanta ha cominciato ad aggredire più duramente salari e condizioni di vita e di lavoro, con il consenso del Pci e della sua cinghia di trasmissione sindacale (la Cgil), tra operaismo e attivismo anarchico: tutti, senza esclusione, alleati contro la rinascita del partito di classe. La sconfitta alla Fiat nel 1980, riassunta nella pagliacciata scenografica della marcia dei quarantamila di Torino, frutto dell’alleanza strategica tra le diverse frazioni della borghesia (Pci, Dc, sindacati nazionali e code operaiste), inaugura, cinque anni dopo l’esplosione della crisi, l’attacco diretto a quelle “conquiste minime” ottenute con le lotte dei due decenni precedenti. Si rende così operativa la “politica dei sacrifici”, reclamata dai sindacati nazionali per bocca dell’allora segretario Lama e tradotta in pratica dai governi di unità nazionale. Flessibilità, precarietà, disoccupazione, lavori interinali non sono piombati tra capo e collo ai proletari d’improvviso, ma sono il portato dei governi “di sinistra” tra la fine degli anni novanta e i primi anni del nuovo secolo (vedi Legge Treu e Legge 30), poi ripresi, fomentati ed estesi dalla destra. Tutte le cosiddette “conquiste” (“statuti del lavoro”, “diritti sindacali”), con cui si alimenta la nostalgia in mala fede del riformismo postbellico, sono state solo pretesti per piegare la schiena ai lavoratori: le promesse di occupazione, di miglioramento delle condizioni di vita, di sicurezza e di progresso sociale in pieno regime capitalista sono solo pie illusioni e per questo vengono sparse abbondantemente tra le file della nostra classe.

La denuncia da parte della Fiom dell’attacco alla “democrazia e ai diritti”, da parte dell’”uomo dell’anno Marchionne”, non potrà muovere davvero i lavoratori, perché “democrazia e diritti” non si mangiano: da quando esiste il capitalismo, sono le catene che legano l’operaio all’azienda, sono l’altra faccia delle minacce, dei controlli, delle denunce, degli arresti, che i lavoratori subiscono fuori e dentro la fabbrica – sono le foglie di fico che nascondono la violenza, che in caso di vera lotta, di veri scioperi contro la disciplina di fabbrica e di vera ribellione sociale, verrà scatenata (come sempre è stata scatenata) contro i lavoratori. Solo per questo, e non per altro sostanziale scopo, esistono le forze dell’ordine, la polizia, i carabinieri, l’esercito. Nei periodi di crisi, per il capitale esiste solo e unicamente la necessità di accorciare la catena dell’organizzazione coatta del lavoro. Tutti gli “statuti del lavoro”, tutti i contratti firmati e da firmare si allineano alla legge dell’“organizzazione scientifica dello sfruttamento della forza-lavoro”, che recita, come nei lager nazisti, “ il lavoro rende liberi”.

Non è il signor Marchionne che avanza come un rullo compressore da una parte e dall’altra dell’Atlantico, ridisegnando quadri normativi e salariali, certo di non trovare ancora una resistenza significativa, di non essere intralciato nell’unico piano di riduzione drastica dei salari, di delocalizzazione di aziende, di compravendita a prezzi stracciati d’imprese industriali. E’ il Capitale che corre da un capo all’altro, da un sistema di banche e da un distretto industriale all’altro. Gli ergastoli cui sono condannati i proletari di Pomigliano e Mirafiori sono solo un episodio dell’attacco generale del Capitale che si sforza di sopravvivere a se stesso: basta volgere lo sguardo intorno per vedere le migliaia di Pomigliano cinesi, giapponesi, indiane, americane, tedesche. Noi comunisti sappiamo che il Capitale è impersonale e che obbedisce alle rigorose leggi della propria accumulazione: quel vortice infernale è arrivato ad un punto obbligato, oltre il quale si presenta come in passato la sola prospettiva di una nuova guerra mondiale. Il cosiddetto “metodo Marchionne” non è altro che il meccanismo del Capitale, di cui Marchionne è solo un burattino.

Poteva mancare l’accusa da “sinistra” di non essere l’Uomo nuovo, l’Innovatore, l’Uomo della Provvidenza? Secondo costoro, la sua miopia non gli permetterebbe di comprendere la… tendenza storica del rapporto tra Capitale e Lavoro caratterizzata (sbavano a più non posso, nei loro deliri) da “più diritti, consumo e consenso” (un paradiso, non c’è che dire!). Quest’italo-americano, tenuto in palmo di mano dall’idolo della “sinistra” oltre Atlantico (niente meno che il presidente Obama!) sarebbe esaltato dalla destra perché, prediligendo il plusvalore assoluto, ovvero il prolungamento della giornata lavorativa e la diminuzione dei salari (si legga Il Manifesto del 5/1!), “rinuncerebbe al terreno più avanzato di competizione (la percezione del plusvalore relativo grazie all’impiego di sapere, all’uso dell’innovazione, all’ampliamento del capitale costante)”. Parafrasando Shakespeare, si potrebbe dire che, di tutte le bestie, la più bestia è… il piccolo borghese riformista!

Quale sarebbe invece la nuova ricetta del riformismo, cioè della borghesia di “sinistra”? Più plusvalore relativo, più capitale costante, più innovazione, più consumo, più consenso. Ora, guarda caso, per Marx queste rivendicazioni sono proprio quelle con cui il Capitale avanza come un carro armato, mettendo a ferro a fuoco le Metropoli proletarie e avviandosi con ciò verso la crisi di sovrapproduzione. Marchionne non fa nient’altro e non vuole nient’altro, quando vuole mantenere la classe operaia in una massa informe: vuole più profitti, più accumulazione e più consenso (una grattatina di diritti non dispiacerà!). Niente di nuovo dunque nella rancida brodaglia della cultura borghese.

Lo sviluppo a rotture verticali – le crisi – è la prassi normale della dinamica del modo di produzione capitalistico. Le crisi preannunciano tuttavia anche un cambiamento nell’asservimento operaio precedente e il passaggio ad un grado più alto di asservimento, se non ci si difende anche attaccando il nemico. Le crisi aprono la possibilità (ma solo la possibilità) della ripresa della lotta di classe, anche alla scala mondiale. La debolezza del sistema capitalistico nei grandi paesi imperialisti, con i suoi ritmi d’accumulazione sempre più in affanno, mostra, a dispetto degli annunciatori di morte della classe operaia, l’apertura possibile della grande faglia sismica da cui potrà emergere l’eruzione di classe. Il vecchio tessuto organizzativo della classe operaia, la sua vecchia pelle riformista, si sfalda al calor bianco della crisi. Ideologie liberali, socialdemocratiche, nazionalsocialiste e nazionalcomuniste, che non riuscivano più a contenere le forze produttive del lavoro e i vecchi rapporti di produzione, declinano; forme organizzative antioperaie messe a guardia della classe si avvicinano al tramonto; il vecchio tessuto sociale si va lentamente sfilacciando. E tuttavia l’alba della lotta di classe è ancora lontana.

Il 28 gennaio: di che sciopero si tratta?

Uno sciopero di categoria: per che cosa? Per difendere i “diritti di sfruttamento precedenti”? per mantenere la lunghezza della vecchia catena ai piedi? Come possono essere invertite le condizioni d’isolamento e di solitudine a causa delle quali i lavoratori non vedono altra scelta che l’accettazione delle dure condizioni imposte per sopravvivere e preferiscono vivere alla catena, piuttosto che morire di fame? Come può essere diminuita la concorrenza tra operai, se non si presenta ai loro occhi una vera sfida in campo aperto, anche se non ci fosse una pur minima speranza di vittoria o di cedimento del nemico?

Uno sciopero che non rivendica niente quanto alle condizioni di vita e di lavoro nelle condizioni di produttività e intensità odierni non è uno sciopero: è una farsa. Uno sciopero che, nelle dure condizioni proposte di aumento delle turnazioni (5 giorni lavorativi a otto ore a turno per 3 turni, oppure 6 giorni lavorativi a otto ore a turno per 3 turni, oppure 6 giorni lavorativi a dieci ore a turno per due turni: introducendo perciò il principio delle dieci ore più una di straordinario), di aumento degli straordinari (fino a 120 ore, cioè il triplo delle attuali 40, con l’obbligo di contrattare altre 80 ore per ogni lavoratore), di diminuzione delle pause (3 in totale per ciascun turno, fino a 10 minuti per la durata di 30 minuti, mentre oggi ammontano a 40 minuti), non contrattacca con l’imperativo di una riduzione drastica dell’orario di lavoro e l’aumento sostanziale del salario non è l’espressione di un sindacato: è una realtà miserabile e in quanto tale è votato alla sconfitta più cocente e più disperante.

Un’organizzazione che si china ai piedi del signor amministratore delegato e non lotta anche contro lo Stato, il “comitato d’affari della borghesia nazionale”, illudendosi invece di portarlo dalla sua parte, e che chiede per giunta alla Confindustria un’alleanza impossibile, non è un sindacato, ma un giocattolino nelle mani di un piccolo topo d’azienda che esibisce capitali inesistenti che solo lo sfruttamento intensivo della classe operaia gli consentiranno di accumulare e di restituire alle banche. Un’organizzazione sindacale che non promuove lotte ad oltranza e obiettivi consistenti rivolti a tutti i lavoratori, ai migranti, ai precari, ai disoccupati, soprattutto a coloro che gravitano per necessità obiettive (e perché stanchi di scioperi-farsa e sindacalisti trasformatisi in dirigenti politici o d’azienda o dello Stato) tra le file di sindacati fascisti, corporativi, aziendali, pagati per il crumiraggio di massa, non è un sindacato, ma un’impresa di vecchi illusionisti.

Un’organizzazione di categoria che non denuncia di tradimento la sua stessa Federazione, la Cgil, la quale si rifiuta di dichiarare lo sciopero generale di tutte le categorie a tempo indeterminato, disposta a firmare (una firma tecnica!?) con il sangue operaio un infame contratto, è solo un sindacato di servi.

Un’organizzazione di categoria che firmerebbe per un aumento della produttività quali che siano le condizioni odierne, solo se fossero assicurati i privilegi dei gestori sindacali e la loro esistenza di garanti dell’oppressione e di pompieri a vita, non è un’organizzazione che merita di essere salvata, perché non è uno strumento della classe e per la classe. Il fatto che i proletari metalmeccanici non abbiano più fiducia nella loro organizzazione è evidente ed è reso più che giustificabile dalle migliaia di “omicidi in fabbrica”, dalla caccia ai fratelli immigrati, dai licenziamenti e dall’aumento dello sfruttamento, dalle forme di precariato ormai dominanti, dall’innalzamento dell’età pensionabile, dall’autodisciplina del diritto di sciopero e delle assemblee interne.

Che cos’altro pretenderebbe la Fiom? Quanti padroni bisogna servire? La “democrazia operaia” di cui tanto ci si riempie la bocca in quanto pura forma organizzativa non è fondamento di alcuna forza di classe: una forza, che non sia unitaria e compatta contro la borghesia e il suo Stato, diventa solo una scimmiottatura, illude ancora una volta gli operai lasciando intendere che un giorno Santa democrazia, all’interno o all’esterno dei luoghi di lavoro, potrà mutare la loro condizione di classe sfruttata.

Sciopero generale? Basta leggere le modalità con cui sarà organizzato per capire quale ennesima pagliacciata si prepara. Se non è sostenuto da una forza organizzata, pronta a sfidare lo stato d’allarme in cui è stata posta la società tutt’intera, esso finirà in un flop e il ripiegamento sarà assicurato. Il 28 gennaio, lo sciopero categoriale di otto ore articolato per regioni e con presidi nei luoghi di lavoro, invece di unire, servirà a disgregare e disperdere le forze della classe.

E cosa faranno le altre organizzazioni sindacali concorrenti (l’USB, lo Slai Cobas, etc.: non c’è limite alla frantumazione del sindacalismo di base!)? Si faranno gli scioperetti in famiglia al posto di partecipare allo sciopero generale o se ne dissoceranno? E poiché, per convenienza, per il timore di perdita di deleghe, forse parteciperanno, quali indicazioni daranno, quali metodi di lotta proporranno?

La sfida del Capitale non è roba per vecchie corporazioni minoritarie, non è un semplice conflitto di lavoro: è un ordine di battaglia. Ce ne vorranno di lotte, per uscire dalla solitudine tremenda in cui si dibatte la classe, dalla paura che incombe sulla vita dei proletari, dal servilismo in cui sono stati fatti piombare – senza futuro, senza la speranza di poter scavalcare il muro della società presente, senza un proprio Stato maggiore che diriga le operazioni della guerra di classe. Non sarà l’ultimo sciopero: ma quello che deve diventare senso comune è il baratro in cui è precipitata la classe operaia ad opera del tradimento sindacale e politico. Solo da qui si può ricominciare: con la lotta ci si libererà della vecchia merda.

L’unica risposta è la lotta di classe organizzata e aggressiva

Non poteva mancare l’accorata indignazione dei “Cavalieri del salotto buono” (i Bertinotti, Rossanda, Rodotà, Tronti) di fronte alle “scellerate imposizioni” del rude Marchionne. Le colombelle tubano costernate: “Com’è possibile che di fronte alla distruzione sistematica di un secolo di conquiste di civiltà sui temi del lavoro non vi sia una risposta all’altezza della sfida?... Bisogna ridare centralità politica al lavoro, riportare il lavoro, il mondo del lavoro al centro dell’agenda politica: nell’azione di governo, nei programmi dei partiti, nella battaglia delle idee” (da Il Manifesto del 29/12).

Solo una robusta pernacchia potrebbe rispondere a tali domande e proposte. La difesa dei diritti democratici dei lavoratori (di cui costoro si fanno portavoce nell’associazione creata allo scopo, “Lavoro e Libertà”) farebbe andare in bestia anche il… “rinnegato Kautsky”! Queste anime candide  sventolano le bandiere della borghesia (di cui essa stessa non ha più bisogno) con una disinvoltura da fare invidia agli stessi fascisti. La realtà di merda in cui sono immersi i proletari, la dittatura che si esercita su di loro nella società e in fabbrica, non li turbano: qui si gioca di fino, di diritti dell’Uomo e del Cittadino, di Democrazia, di Sovranità popolare, di Costituzione, di Civiltà, di Nazione… Altro che lotta di classe!… Non si parla di uomini in carne ed ossa, ma d’immagini retoriche, di mitologie, di astrazioni, perché è di questa sostanza eterea che hanno nutrito e vorrebbero continuare ancora a nutrire i proletari, passando dalle buone maniere alle armi quando ce n’è bisogno: quando cioè la “canaglia pezzente”, in tutta la propria materialità, non vorrà più saperne di idiozie evangeliche. Questi apostoli della sconfitta hanno giurato sull’ideologia borghese, hanno giurato di non consentire alla violenza proletaria di esprimere la propria sentenza di morte alla borghesia e al suo Stato: di questa stessa pasta erano fatti i socialdemocratici che, nella Germania di Scheideman e nella Russia staliniana, ordinarono di sparare sui proletari insorti.

Le vicende di Pomigliano e di Mirafiori (e le centinaia, migliaia, di altre situazioni simili in giro per il mondo, e quelle che sempre più si verificheranno, se la classe operaia non saprà rialzare la testa e tornare a combattere) sono la dimostrazione del terrorismo aperto teorizzato e praticato contro i proletari di ogni nazione, al pari di quello (ancor più sanguinario e spietato) esercitato da tempo contro i migranti, contro le masse proletarizzate d’intere aree del mondo, contro tutti quei proletari che vengono trattati alla stregua di carne da macello in guerre inter-imperialistiche, in contese nazionali di ogni tipo.

Il terrorismo del capitale potrà cessare solo se i lavoratori cominceranno a sentire la necessità di riorganizzarsi sul terreno della lotta senza quartiere contro la borghesia, solo se cominceranno a prendere in mano il proprio destino cacciando a pedate i collaborazionisti sindacali dalle proprie file. Oggi, sono ancora costretti a segnare il passo, ad arretrare, a sprofondare nella crisi individualmente e collettivamente. Ma per quanto tempo ancora? Chi guarda sconsolatamente all’oggi non vede quel che l’oggi prepara: ma i comunisti lo vedono, e si preparano. E’ la ripresa della lotta di classe che richiamerà i combattenti.

Per quei compagni che, tenendosi per mano, hanno rifiutato per ben più di mezzo secolo di finire nel pantano opportunista, per quei compagni tenuti separati e isolati dal gigantesco muro mondiale della controrivoluzione, si tratta di riprendere i contatti: per essi, si riproporranno i problemi della tattica, della strategia, dell’organizzazione politica rivoluzionaria. Oggi si può cominciare a riprendere la lotta di difesa economica: metodi, obiettivi e organizzazione saranno l’occasione per allenare la nostra classe alla futura lotta rivoluzionaria. La speranza di poter conquistare dall’interno gli organismi sindacali attuali è dispersa dai fatti: nessun organismo sindacale nato dal seno delle attuali corporazioni nazional-democratiche concederà mai più ai proletari combattivi un ruolo qualsiasi nelle sue file, perché già oggi essi sono cacciati e denunciati e domani verranno denunciati e arrestati. La prospettiva di riorganizzare un tessuto di organismi di difesa territoriali, oltre che di fabbrica, in uno spazio internazionale, è ancora lontana, ma è l’unica praticabile: i proletari stessi saranno costretti a promuoverli durante e attraverso la lotta, boicottando e rovesciando nello stesso tempo, non appena le condizioni storiche lo permettano, l’organizzazione reazionaria dei sindacati attuali. La rinascita dei “sindacati di classe” non dipende dalla volontà di nessuno, ma dalla ripresa internazionale della lotta di classe e dal lavoro che i comunisti sapranno portare avanti tra le file del proletariato.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2011)

 

 

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