DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

Marx, Lenin e l’economicismo

La questione delle lotte spontanee, delle rivendicazioni economiche e del cosiddetto “economicismo” in relazione alla dinamica della lotta di classe occupa un posto rilevante nel rapporto tra partito e classe e va considerata sia da un punto di vista generale che da quello legato alla situazione storica concreta. Sul piano storico, il problema va visto tenendo presente il rapporto tra lotta economica rivendicativa e lotta politica per l’abbattimento del potere borghese: da questo punto di vista, il marxismo sottolinea sempre il legame stretto tra lotta economica e lotta politica (“I comunisti lottano per raggiungere gli scopi e gli interessi immediati della classe operaia, ma nel movimento presente rappresentano in pari tempo l’avvenire del movimento stesso”, Manifesto del partito comunista,1848). Le lotte rivendicative economiche (per esempio: per il salario, per la riduzione della giornata lavorativa, ecc.) sono necessarie non tanto e non solo per riportare il valore della forza lavoro a quello “suo proprio”, cioè alla quantità dei mezzi di produzione necessari per riprodurla (senza di cui le sue condizioni si porterebbero al di sotto delle condizioni più miserabili), ma perché attraverso tale lotta economica i proletari possono superare il proprio stato d’isolamento per aziende, settori e categorie, unendosi in organismi di lotta che in prospettiva si aprono a una visione di classe rispetto alla stessa lotta rivendicativa: allenano cioè alla comprensione degli scopi finali.

Gli organismi sindacali, le organizzazioni di lotta, rappresentano le condizioni senza le quali la lotta di classe difficilmente potrà svilupparsi, in quanto lotta politica. La lotta economica rivendicativa e le organizzazioni di classe che possono nascere solo sulla sua base sono necessarie come “leve” per permettere il passaggio alla lotta politica. Quest’ultima non si produce dal nulla o dalle semplici lotte spontanee: ha bisogno di una unità di lotta e organizzazione attraverso cui consistenti settori del proletariato facciano valere la propria forza. E’ solo sul terreno di quelle lotte economiche, di quella forza, di quelle associazioni di classe, che potrà rendersi operativo il compito dei comunisti: che è proprio quello di trasformare in prospettiva la lotta economica in lotta politica e di fare degli organismi di classe delle “cinghie di trasmissione“ del partito. Negare la lotta economica rivendicativa in difesa delle condizioni di lavoro e di vita dei proletari significa dunque negare la possibilità stessa che essi possano rompere il proprio isolamento; significa negare la possibilità che possano sorgere organismi di classe, e quindi le condizioni materiali sulla cui base sarà possibile il passaggio alla lotta politica. I proletari che non hanno saputo difendersi sul piano economico dagli attacchi del capitale, che non hanno saputo affrontare e vincere le famose “scaramucce” di cui parla Engels, non potranno spingersi verso la rivoluzione, la quale richiederà uno sforzo di unità e di combattimento enormemente superiori.

Chiediamoci quindi che cosa ha rappresentato in Russia l’economicismo e come mai Lenin l’ha combattuto nel Che fare? Voleva forse Lenin contrastare la necessità della lotta economica, “sorvolare” su di essa per propugnare direttamente la lotta politica? Per comprendere bene la questione, bisogna dare uno sguardo alla situazione storica in cui si trovava la Russia e la fase che essa attraversava. Sul piano teorico generale, anzitutto, Lenin, combattendo l’economicismo, non dice niente di nuovo: anche Marx , mentre propugnava la lotta economica rivendicativa, avvertiva di non esagerare la sua importanza, laddove ciò avveniva, sia come effetto della stessa spontaneità operaia che come elargizione provvisoria della borghesia per paura che le lotte assumessero un carattere politico.

Così, scriveva Marx: “[…]la tendenza generale della produzione capitalistica non è all'aumento del livello medio dei salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più basso. Se tal è in questo sistema la tendenza delle cose, significa forse ciò che la classe operaia deve rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni che le si presentano tutto ciò che può servire a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più dare nessun aiuto. Credo di avere dimostrato che le lotte della classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili da tutto il sistema del salario che, in 99 casi su 100 i suoi sforzi per l'aumento dei salari non sono che tentativi per mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità di contrattare con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta a vendersi come merce. Se la classe operaia cedesse per viltà nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi movimento più grande. Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla servitù generale che è legata al sistema del lavoro salariato, non deve esagerare a se stessa il risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di questi effetti; che essa può soltanto frenare il movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa applica soltanto dei palliativi,ma non cura la malattia. Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato. Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie per una ricostruzione economica della società. Invece della parola d'ordine conservatrice:’Un equo salario per un’equa giornata di lavoro’, gli operai dovrebbero scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario:’Abolizione del lavoro salariato’”[1].

La lotta economica dunque, per quanto necessaria e importante per il passaggio materiale alla lotta politica, non è “lo scopo”, ma solo il mezzo, la leva, lo strumento. Fino a quando il potere politico resta nelle mani della borghesia, le condizioni di lavoro e di vita dei proletari saranno sempre soggette agli alti e bassi della congiuntura economica e le lotte avranno sempre come obiettivo solo quello di impedire che il salario scenda al di sotto di un limite miserabile.

Le condizioni della Russia quando Lenin scrive il Che fare? nel 1902, a tre anni dalla prima rivoluzione del 1905, sono quelle in cui cominciavano a maturare le condizioni della lotta politica contro il regime zarista – una lotta politica, che poteva assumere sia una direzione proletaria che una borghese. In tali condizioni, i compiti principali all’ordine del giorno non erano più quelli “embrionali, primitivi” della fase precedente, né le stesse lotte di difesa economiche, ma quelle della preparazione politica, tra cui, principalmente, la formazione del partito, ancora indefinito nei suoi contorni organizzativi. In quella fase, la lotta economica si sovrapponeva alla lotta politica, assumeva caratteri di classe, mentre la formazione del partito stringeva sui tempi, sulla necessità dell’organizzazione dei rivoluzionari di professione, del giornale per tutta la Russia, della propaganda politica nella classe.

La lotta contro l’“economicismo” non era rivolta ovviamente contro la lotta economica, di cui anzi si aveva bisogno: era rivolta contro il suo abuso, contro la sua esagerazione. Essa nasceva nel momento in cui, mentre erano maturate le condizioni per la lotta politica, si andava formando tra le file dei socialdemocratici russi la componente operaista (soprattutto di sinistra, che attaccava il partito rivoluzionario perché “pretendeva di sostituirsi alla classe”). L’operaismo era una componente moderna e modernista, la faccia economicista del menscevismo in Russia. La sua posizione, che si riassumeva nello slogan “contro i padroni e contro il governo”, propugnava soprattutto la lotta economica come mezzo e scopo della lotta politica contro lo zarismo: l’assolutizzava, idealizzandola come la “vera lotta” dei proletari per il cambiamento sociale e quindi politico. In questa veste, lasciava il campo libero alla borghesia, “legittima titolare” della sola rivoluzione possibile, quella borghese.

Il Che fare? sembra a prima vista una sorta di “levata di scudi” contro le lotte economiche e rivendicative in generale. In realtà, si tratta della lotta contro il loro abuso in rapporto ad una determinata fase storica, quella in cui si sta aprendo la possibilità della lotta di classe più generale, che in quanto tale spinge verso la lotta politica – che è lotta per il potere. Mentre alle organizzazioni opportuniste, sindacaliste, riformiste serve un proletariato intento alla lotta puramente economico-sindacale, all’organizzazione rivoluzionaria bolscevica serve un proletariato che vada oltre la lotta immediata, per assumere la consapevolezza della realtà della lotta di classe: serve quindi il suo rapporto stretto con il partito.

Non si trattava dunque di una critica nei confronti della lotta di difesa economica. Nella fase precedente al 1902 e al Che fare?, è lo stesso Lenin a sostenere e spingere le lotte economiche, ad esempio con scritti come quello sulle “multe nelle fabbriche”. La critica all’economicismo è critica all’opportunismo operaista e sindacale russo, che esalta l’esperienza delle organizzazioni sindacali in Occidente, considerate il non plus ultra delle forme organizzative moderne, mentre si stavano trasformando in enclaves della borghesia nelle file del proletariato. La dinamica sociale raggiungerà il paradosso con la nascita dei sindacati cosiddetti  rivoluzionari, che nel 1907 si staccheranno in Francia e in Italia (ma il processo era di più ampia portata) dal corpo riformista, per diventare (soprattutto in Italia) punte avanzate dell’economicismo nazionalista e poi fascista.  

Riportiamo ad esempio alcuni brani di uno scritto di Lenin del 1895, dal titolo “Progetto e spiegazione del programma del partito socialdemocratico russo”:

“C'è stato un tempo in cui l’ostilità degli operai contro il capitale si esprimeva soltanto in un confuso sentimento di odio contro i loro sfruttatori, nella confusa coscienza della loro oppressione e schiavitù, nel desiderio di vendicarsi dei capitalisti. La lotta si esprimeva allora in rivolte isolate degli operai, i quali distruggevano gli edifici, infrangevano le macchine, bastonavano i dirigenti delle fabbriche, ecc. E' stata questa la prima forma, la forma iniziale del movimento operaio; questa forma era indispensabile, perché l'odio per il capitalista è stato sempre e dappertutto il primo impulso che ha destato negli operai l'aspirazione a difendersi. Ma il movimento operaio russo ha ormai superato questa fase iniziale. Invece di odiare in modo vago il capitalista, gli operai hanno cominciato a comprendere l'antagonismo fra gli interessi della classe degli operai e gli interessi della classe dei capitalisti. Invece di sentire confusamente di essere oppressi, essi hanno cominciato a capire in che cosa e cosa precisamente il capitale li opprime, e insorgono contro l'una o l'altra forma di oppressione, ponendo un limite alla pressione del capitale, difendendosi dalla cupidigia del capitalista. Invece di vendicarsi dei capitalisti, cominciano oggi a lottare per ottenere delle concessioni, cominciano a presentare alla classe dei capitalisti una rivendicazione dopo l'altra e chiedono il miglioramento delle condizioni di lavoro, l'aumento dei salari, la riduzione della giornata lavorativa. Ogni sciopero concentra tutta l'attenzione e tutti gli sforzi degli operai ora sull'una ora sull'altra delle condizioni in cui è posta la classe operaia. Ogni sciopero costringe a discutere queste condizioni, aiuta gli operai a valutarle, a comprendere in che cosa consiste l'oppressione del capitale, con quali mezzi è possibile lottare contro quest’oppressione. Ogni sciopero arricchisce l'esperienza di tutta la classe operaia. Se lo sciopero è vittorioso, esso dimostra quale forza rappresenta l'unione degli operai, e induce gli altri operai ad avvalersi della vittoria dei compagni, Se fallisce, induce a discutere sulle cause del fallimento e a ricercare metodi di lotta migliori. Il passaggio – che si è iniziato in tutta la Russia – degli operai alla lotta inflessibile per i propri bisogni vitali, alla lotta per ottenere delle concessioni, migliori condizioni di vita e salariali, la riduzione della giornata lavorativa, costituisce un grande passo in avanti compiuto dagli operai russi; e a questa lotta e al sostegno che è necessario fornirle debbono dedicare la propria attenzione il partito socialdemocratico e tutti gli operai coscienti” [2].

Quindi, Lenin parla di un momento di nuova consapevolezza degli operai, quella della lotta economica, che rappresenta un passo avanti rispetto a quella ancora più embrionale e confusa precedente, di distruzione delle macchine o di legnate ai dirigenti, ecc. – un momento che verrà però a sua volta superato ai primi del secolo, quando maturano le condizioni oggettive e soggettive di una lotta con caratteri più decisamente politici, di cui la fase precedente della lotta economica era stata l’incubatrice.

Quel periodo precedente di lotta economica di cui parla Lenin non era da sottovalutare. Nel 1895, egli infatti parla di aiuto da dare alla stessa lotta economica:

“Aiutare gli operai significa indicare le esigenze più urgenti per le quali si deve lottare, esaminare le ragioni che aggravano particolarmente la situazione di questi o quegli operai, spiegare le leggi e i regolamenti sulle fabbriche, la cui violazione (oltre ai trucchi fraudolenti dei capitalisti) espone tanto spesso gli operai a una duplice rapina. Aiutare gli operai vuol dire esprimere in modo più esatto e più preciso le loro rivendicazioni e formularle pubblicamente, scegliere il momento più opportuno per la resistenza, scegliere il metodo di lotta, discutere la situazione e valutare le forze delle due parti impegnate nella lotta, ricercare se esiste un metodo migliore di lotta” [3].

Quindi, nel momento in cui i proletari russi superano le forme primitive di ribellismo e intraprendono lotte economiche, superiori per consapevolezza alle prime (quelle attraversate dalla famosa “scintilla”, ma nelle quali ancora l’inconciliabilità sul piano economico non si è trasformata in lotta politica), i marxisti rivoluzionari aiutano i proletari prendendo parte attiva a quel processo. E’ loro compito non solo portare dall’esterno il programma politico, ma anche aiutare il movimento rivendicativo a spingersi oltre il puro ribellismo e spontaneismo e a non cadere dentro l’abuso della lotta puramente economica, l’economicismo, che intralciava il cammino verso la direzione di classe.

Nel momento successivo, superiore, quello politico, i comunisti non abbandonano ovviamente la lotta economica, ma danno più risalto alla costituzione del proletariato in classe: il mezzo della lotta economica si trasforma immediatamente in scopo politico. La cinghia delle lotte economiche rivendicative si trasforma in cinghia politica di classe. Da qui, la lotta, nel Che fare?, contro gli opportunisti che, assolutizzando la lotta economica, la contrappongono alla preparazione di classe, politica, del proletariato. “Quasi in contemporanea“, si svolgono dunque in Russia tre momenti della lotta proletaria: la prima ribellista, spontanea e primitiva; la seconda, di vera lotta economica, di difesa delle condizioni di vita e di lavoro; la terza, verso cui convergono – scontrandosi – i due partiti moderni, la sinistra borghese (il menscevismo) nelle sue vesti sindacali, economiche e riformiste e il partito rivoluzionario dei bolscevichi, che tenta di trasportare i proletari da un livello puramente rivendicativo a un livello superiore di lotta di classe. La doppia rivoluzione [4] pulsa nella viscere della società feudale e il partito della borghesia avanzata (quella riformista) intreccia la sua storia con quella dell’organizzazione rivoluzionaria del proletariato.

Dalle “Tesi di Roma” e dal “Rapporto del C.E. del PCd’Italia” (1922)

Un brano delle nostre “Tesi di Roma” 1922 ci permette di inquadrare la relazione tra lotta economica e lotta politica: “La natura di questi rapporti discende dal modo dialettico di considerare la formazione della coscienza di classe e della organizzazione unitaria del partito di classe, che trasporta un’avanguardia del proletariato dal terreno dei moti spontanei parziali suscitati dagli interessi dei gruppi su quello dell’azione proletaria generale, ma non vi giunge con la negazione di quei moti elementari, bensì consegue la loro integrazione e il loro superamento attraverso la viva esperienza, con l’incitarne la effettuazione, col prendervi parte attiva, col seguirli attentamente in tutto il loro sviluppo” [5].

Il punto 12 è ancor più efficace. Esso dice: “[…] è un banale errore considerare contraddittoria la partecipazione a lotte per risultati contingenti e limitati con la preparazione della finale e generale lotta rivoluzionaria. La esistenza stessa dell’organismo unitario del partito […] dà la garanzia che mai verrà attribuito alle parziali rivendicazioni il valore di fine a sé medesime, e si considera soltanto la lotta per raggiungerle come un mezzo di esperienze e allenamento per la utile e fattiva preparazione rivoluzionaria”.

Il “Rapporto del C.E. del PCd’I al Comintern sulla tattica del partito e sulla questione del fronte unico”, anch’esso del 1922, chiarisce poi: “Lo spirito della proposta comunista è stato pienamente compreso tra le masse; queste sono pienamente convinte che non ha alcuna speranza di successo contro l’offensiva borghese l’azione parziale di gruppi, e che s’impone l’affasciamento di tutte le vertenze che l’offensiva borghese con le sue forme molteplici va sollevando in una lotta unica di tutti i gruppi nell’interesse di tutti, perché se le sconfitte proletarie continuano, nessuno sarà risparmiato. Tuttavia questa convinzione si costruisce appunto attraverso le lotte parziali: a queste i comunisti hanno sempre partecipato per prendere parte diretta alla lotta e nello stesso tempo per condurre le masse a forzare i capi verso l’azione generale [….]” [6]. 

La situazione del 1922 era tale che una buona parte degli stessi operai avevano maturato la convinzione, attraverso quel processo rivoluzionario ancora non spento, che occorresse unire tutte le lotte e il partito chiamava dunque i proletari, proprio per raggiungere quella esigenza generale e politica, a utilizzare ampiamente le lotte parziali per unirle in un fronte unico sindacale, come mezzo del fronte unico proletario.

Oggi, quella fase in cui convergevano la lotta economica indipendente e quella rivoluzionaria di classe diretta dal partito, è ancora un’aspettativa lontana. Quella debolezza contingente del fronte economicista, tradunionista, corporativo, che tentava di negare il fronte di classe cacciando i comunisti dalle Camere del lavoro, allacciando patti di pacificazione con il fascismo, corporativizzando la classe, non esiste più: al suo posto, c’è una forza conservatrice compatta, che inquadra la classe operaia e la spinge verso terreni sempre più paludosi. Allora, non erano le organizzazioni tradizionali a essere “rosse”: lo erano i proletari che si battevano dietro le indicazioni del partito di classe e per quegli obiettivi le sedi sindacali divenivano luoghi di convergenza, di organizzazione e di difesa del fronte di classe.

La situazione attuale

Sono passati più di cento anni dal Che fare? di Lenin. E, riguardo al rapporto tra lotta economica rivendicativa e lotta politica per l’abbattimento del potere della classe dominante borghese, in che “momento” ci troviamo? Nel “momento” più buio in assoluto. E’ forse lecito ritenere che in questo secolo il proletariato abbia maturato, solo in forza del “passare del tempo”, un’esperienza materiale tale da metterlo oggi nella condizione di lottare per il potere politico, senza attraversare la dura e tormentata ma necessaria esperienza preparatoria delle lotte economiche di difesa? La realtà è purtroppo ben diversa e bisogna riconoscere che le condizioni dei proletari non sono quelle di chi, avendo attraversato un tempo il calvario delle lotte di difesa e della riorganizzazione classista, dispone di tutti gli anticorpi per affrontare i compiti ancora più difficili della lotta per il potere. Sono piuttosto quelle di chi dovrà subire ancora duri colpi da parte del capitale, prima di trovare la forza disperata di intraprendere vere lotte di difesa delle proprie condizioni di lavoro e di vita. 

Spesso si ritiene, da parte di componenti ribelliste ed anarcoidi (e non avanguardie di lotta) che la lotta di difesa economica, la cosiddetta lotta sindacale, in quanto parziale o limitata, vada respinta, per il semplice motivo che tale lotta è stata sempre propugnata dai sindacati di regime o dai piccoli sindacati corporativi. E si fa il seguente ragionamento: loro, i sindacati di regime e reggicoda, portano avanti, come sempre, la lotta economica rivendicativa, minuta, di fabbrica, di categoria, ecc., mentre occorrono rivendicazioni economiche generali che ci portino già allo scontro politico. Occorre, sostengono, passare dalla lotta di difesa all’attacco. Il ragionamento non tiene conto tuttavia che i sindacati di regime non sono pure ombre di cui ci si può liberare cambiando il punto di vista: la loro esistenza è giustificata dal compito materiale e necessario di riuscire a mettere la forza lavoro sul mercato del lavoro a un prezzo tale che non intacchi, non solo gli interessi capitalistici, ma nemmeno la stessa loro propria pesante esistenza di Agenzie del lavoro, su cui viaggiano commissioni, deleghe, personale impiegatizio, relazioni economiche burocratiche di grande rilievo sociale. Non tiene conto, quel ragionamento, che quegli apparati, nei periodi di grande prosperità del capitalismo (gli anni d’oro del dopoguerra) e dietro la pressione degli operai, sono riusciti a cavalcare le lotte e a contrattare un salario “accettabile” e, nei decenni successivi alla crisi apertasi nel 1975, sebbene la difesa del salario sia stata del tutto oscurata, il compito della difesa non è stato del tutto omesso. Tale ragionamento non giustificherebbe la “cintura di sicurezza” che queste organizzazioni parassitarie rappresentano per una consistente parte dei lavoratori, e non solo della cosiddetta aristocrazia operaia. Non giustificherebbe l’elasticità del “cordone sanitario” con cui esse riescono a delimitare il campo delle lotte operaie che, pur faticosamente, talvolta tentano di aprire un varco alla conservazione sociale.

Quella che si chiama “concertazione” (la politica sindacale in genere) garantisce in primo luogo la loro esistenza di Agenzie parastatali, non solo economicamente, ma politicamente. Il loro economicismo ha la piena fiducia dello Stato; la contrattazione nazionale ha l’avallo della borghesia; la Costituzione “fondata sul lavoro” non è una finzione legale: il capestro contrattuale gode di un alto grado di consenso tra gli stessi lavoratori. Si tratta di apparati sindacali ben incuneati nel corpo del proletariato. Su questa natura contrattuale e concertativa, a difesa della produzione nazionale, e sulla Carta costituzionale figlia della fascista Carta del Lavoro, giura un’immensa corte di piccola borghesia di sinistra, garantendo che le catene rimangano solide e per sempre.

Nell’attuale grave situazione di crisi economica, gli operai si trovano in realtà senza armi e metodi di lotta di difesa economica, senza alcuna memoria storica. Non hanno roccaforti da difendere né alcuna ombra remota di organismo di classe che possa costituire una sponda di garanzia. La difesa aperta degli interessi del capitale da parte delle organizzazioni sindacali corporative, solo formalmente non statalizzate, comunque non è mai stata facile, in quanto un disinvolto appiattimento sulle posizioni imprenditoriali avrebbe significato scelte di campo apertamente antioperaie, capaci di far saltare ogni “patto di concertazione” con perdita della fiducia delle masse di lavoratori nei loro confronti e avvio di un processo incontrollabile e irreversibile. In forza della dittatura totalitaria del capitale, che le crisi ricorrenti hanno maggiormente imposto, gli operai si ritrovano sempre più, a livello mondiale, in un momento in qualche modo precedente, ad esempio, a quello russo del 1895, nel quale Lenin descrive il risveglio delle lotte economiche di difesa e ribadisce la necessità che i rivoluzionari si dispongano ad aiutare e appoggiare praticamente il movimento.

Oggi, gli operai si ritrovano in uno stato di coscienza molto primitiva, embrionale, che riflette il loro stato di forte isolamento, fra continui suicidi e “infortuni”, proteste “sui tetti”, ricerca di visibilità o di attenzione dai media, qualche occasionale pestaggio o sequestro di dirigenti, ecc. – tutte forme, queste, più che di lotta, di semplice protesta, distanti ancora molto da vere lotte di difesa economica. Manca l’azione del blocco improvviso e duraturo della produzione, la fermata di tutti i reparti, il coordinamento della lotta in una sede appropriata (che funga anche da punto di riferimento materiale, fisico, logistico), la raccolta di fondi per il sostegno della lotta stessa, la volontà di estenderla a scala più ampia. Mancano i metodi che caratterizzerebbero una consapevolezza “di classe”. E’ un grave errore di valutazione della situazione scambiare il rivendicazionismo di facciata, inconsistente, fumoso, portato sempre avanti dai sindacati di regime e dagli stessi sindacatini di base, con metodi “civili e rispettosi delle esigenze nazionali” o della cosiddetta “pubblica opinione”, degli utenti, ecc., con la reale difesa degli interessi immediati dei proletari. In questo consiste il carattere economicista (e nazionalista) che ancora recita gli slogan “contro i padroni e contro il governo” per tenersi incollati sulla schiena dei proletari – slogan che mascherano invece lo stretto legame  con lo Stato garante di quel lavoro che... “rende liberi”. Lungo questa china è avvenuta la traversata verso lo Stato, che ha portato in un secolo alla “trasformazione reazionaria” dei sindacati operai.

La lotta reale, e non le sue rappresentazioni sceniche, trovando contro di sé un muro durissimo rappresentato dalle esigenze immediate del capitale, non potrà esprimersi se non attraverso una lotta senza quartiere che dovrà riprendere le rivendicazioni di difesa economica immediata, superando l’attuale terribile impasse in cui gli operai sono stati condotti a regredire a forme di lotta e a “stati di coscienza” del tutto primordiali. Solo da una tale ripresa della lotta rivendicativa, indipendente, costituita da avanguardie di classe, potrà esprimersi una vera organizzazione di classe, una lotta di classe. Ma come potrebbe sorgere?

Nella situazione attuale, gli operai non hanno ancora iniziato a combattere vere lotte di difesa economica, anche a partire dai limiti in cui si trovano ordinariamente, della fabbrica, del settore, della categoria. Non hanno ancora riconosciuto, per loro stessa esperienza, la limitatezza di quelle lotte: non si sono rafforzati attraverso quelle lotte stesse, in modo tale da intraprenderne poi di più generali ed estese. Non hanno messo in piedi, attraverso quelle lotte, proprie organizzazioni di difesa in grado di portare avanti lotte ancor più decisive. D’altronde, l’estensione delle lotte, il superamento dei loro limiti, non è un qualcosa che i proletari possano realizzare per un’astratta “presa di coscienza”, per una astratta “negazione” della limitatezza dello scontro, o per la “semplice propaganda” fatta in tal senso dall’esterno: lo possono fare solo per la pratica esperienza, attraverso la lotta che parta dai suoi limiti, ma condotta con più decisione e con metodi adeguati.

Pretendere un facile superamento di quei limiti, un’immediata unificazione generale delle situazioni di conflitto, significa concepire il percorso oggettivo in modo astratto. Prima di arrivare a quello stato di unificazione generale, gli operai dovranno necessariamente attraversare un processo materiale che è fatto di lotte immediate, le quali non possono non partire dalle fabbriche, dalle categorie e da rivendicazioni generiche e particolari al tempo stesso. D’altro canto, immaginare un percorso lineare che dal ribellismo porti al rivendicazionismo indipendente di classe è porsi ancora da un punto di vista astratto: prima di tutto, per il fatto che non è possibile concepire un percorso puramente economico che la classe possa svolgere da sé. Il percorso si svolgerà sotto la guida, più o meno evidente, chiara o mascherata, delle forze di classe (borghesi e rivoluzionarie) e quindi dei partiti che le rappresentano. Il percorso sarà più accidentato, meno lineare: giocheranno, da una parte, l’inerzia profonda in cui è sprofondata la classe e dall’altra la necessità di uscirne sotto la spinta di crisi che si faranno sempre più frequenti. Un percorso semplice è quindi impensabile: il carico d’inerzia, di resistenza, richiederà un’energia di attivazione molto alta. Le cinghie di trasmissione, i programmi, le linee tattiche d’azione, non possono non venire dall’esterno, anche se solo la lotta di classe può esserne il motore. In ogni caso, il proletariato dovrà essere il protagonista di questa uscita dalla trappola.

 

I comunisti, come indicava Lenin, in nessun momento possono permettersi di vagheggiare superamenti idealistici di processi che possono essere solo materiali: essi devono aiutare e sostenere gli operai, partecipando attivamente, in un doppio compito di appoggio e sostegno delle lotte immediate e di indirizzo, affinché siano superati i limiti ed esteso il fronte di lotta.

Le rivendicazioni che essi propongono sul piano della concretezza immediata e che riguardano il salario, l’orario di lavoro, la sicurezza, le condizioni di esistenza, sia dentro che fuori il luogo di lavoro, possono sembrare astratte perché non entrano nel merito specifico, spesso contraddittorio e aclassista; possono sembrare svincolate dagli avvenimenti concreti, perché si propongono l’obiettivo di concepire la difesa e l’attacco entro parametri che affascino la classe oltre la nazione, l’azienda, la categoria, la professionalità, il genere, l’età, le convinzioni ideologiche. Quanto all’organizzazione, i comunisti non entrano nel merito delle più generali forme di organizzazione che le lotte potrebbero assumere, non ne promuovono di nuove; quanto ai metodi, ribadiscono la necessità dell’estensione delle lotte sul terreno nazionale e internazionale, propongono scioperi generali ad oltranza senza limiti di tempo (e non perché ripudino quelli a tempo determinato). La battaglia contro l’economicismo, il rivendicazionismo interclassista, l’operaismo, il corporativismo, non significa rifiuto delle lotte economiche di difesa e di attacco: è il carattere di classe (o potenzialmente di classe) che deve essere valutato, anche quando date forme probabilmente saranno costituite anticipatamente solo da piccole minoranze operaie d’avanguardia, spesso politicizzate, veicoli di un più ampio sviluppo di classe e di massa, fatto però anche di arretramenti e di ricadute anarchiche e operaiste.

Certamente, non si può prevedere con esattezza, ma solo in via generale, come, in quali forme, avverrà in futuro il processo di ripresa. Può anche darsi che la classe operaia non sia in grado di fronteggiare e tenere testa a tutti i suoi nemici, coalizzati tra l’altro sul piano internazionale sempre più strettamente contro di essa, come può darsi che le lotte si esprimeranno attraverso canali non strettamente rivendicativi ma più sociali o addirittura politici. Nell’impossibilità di stabilire previsioni sicure, i comunisti hanno il compito di vagliare tutte le ipotesi. Ovviamente, tra queste, le lotte di difesa immediata, con rivendicazioni e metodi classisti, sono quelle che auspichiamo, proprio perché man mano abilitano i proletari a spezzare l’interclassismo oggi imperante, a riconoscersi di conseguenza come una classe per sé, con interessi autonomi e particolari rispetto a tutte le altre, a individuare finalmente nello stato borghese il principale nemico.

Il rapporto tra i comunisti e la lotta economica comunque non può essere affrontato in astratto, a prescindere dalla fase storica attraversata. Occorre valutare, come faceva Lenin nel Che fare?, in che stato si trova il movimento proletario di classe, non in forma generica, ma concretamente, senza false illusioni, e in che stato si trova l’organizzazione comunista, la nostra (senza nessuna sopravvalutazione). Occorre dare la valutazione più realistica possibile, sia della fase della lotta del movimento proletario, sia dello stato del suo organo politico, del suo nucleo rivoluzionario.

La tentazione di sostituire allo stato reale di prostrazione in cui si trova ancora la classe il lancio continuo di espressioni rivendicative “forti”, con le quali si crede di cambiare la situazione generale “stimolando”, per così dire, la reazione della classe, è vecchia quanto lo sparafucilismo. L’assenza di valutazione della situazione della classe e del proprio stato, ricalcando magari tale e quale la situazione di altre fasi storiche, porta a confusioni tragiche. D’altra parte, la valutazione realistica della situazione, non accompagnata da un intervento adeguato alla dinamica della classe, lascia il terreno al controllo dell’opportunismo politico e sindacale di tutte le specie.

La realtà storica, espressa molto bene proprio dal Che fare?, dimostra che il rapporto tra i comunisti e la classe non è sempre uguale a se stesso: esso muta perché sia la classe che l’organizzazione comunista attraversano processi diversi, che influenzano il loro rapporto e che da esso sono, a loro volta, condizionati. La valutazione della situazione, come pure del loro rapporto fra partito e classe, è fondamentale ai fini della indicazione dei compiti da portare avanti. Senza una buona valutazione della situazione, chiunque può dire tutto e il contrario di tutto, con l’aggravante di cadere nell’indeterminatezza, nella confusione e nell’eclettismo.

                                                                                                           

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°05 - 2010)



[1] Marx, Salario, prezzo e profitto (1865), in Marx-Engels, Opere scelte, Editori Riuniti, pp.825-826.

[2] Lenin, “Progetto e spiegazione del programma del partito socialdemocratico” (1895-96), in Opere Complete, Vol. II, pp.103-105

[3] Idem.

[4] Ricordiamo che con l’espressione “doppia rivoluzione” s’intende quel processo rivoluzionario, chiaramente indicato da Marx ed Engels prima e da Lenin poi, per cui, nei paesi arretrati, in cui la borghesia debba ancora compiere la propria rivoluzione anti-feudale (o anti-coloniale), il proletariato guidato dal suo partito compie, in piena autonomia politica, organizzativa e militare, un tratto di strada insieme a essa, proponendosi però sempre di prendere la testa del processo rivoluzionario contro di essa e accollandosi così anche compiti (economici e politici) di tipo strettamente democratico-borghesi – come avvenne esattamente in Russia fra il febbraio e l’ottobre 1917.

[5] “Rapporti tra il partito comunista e la classe proletaria”, in Storia della sinistra comunista, vol. IV, Edizioni Il programma comunista, Punti 11 e 12, pag. 398.

[6] “Rapporto del C.E. del PCd’I al Comintern sulla tattica del partito e sulla questione del fronte unico”, in Storia della sinistra comunista, Vol. IV, cit., pag. 356.

 

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