DISTINGUE IL NOSTRO PARTITO: La linea da Marx a Lenin alla fondazione dell’Internazionale comunista e del Partito Comunista d’Italia; alla lotta della sinistra comunista contro la degenerazione dell’Internazionale; contro la teoria del socialismo in un Paese solo e la controrivoluzione stalinista; al rifiuto dei fronti popolari e dei blocchi partigiani e nazionali; la dura opera del restauro della dottrina e dell’organo rivoluzionario a contatto con la classe operaia, fuori dal politicantismo personale ed elettoralesco.

 

Nel numero precedente di questo giornale, con la ripubblicazione delle “Direttive dell’azione sindacale” emanate dal Partito Comunista d’Italia nel 1921, abbiamo sottolineato alcuni degli aspetti del conflitto di classe in Italia, e in particolare dello scontro apertosi all’interno della più importante organizzazione sindacale del tempo, la Cgl (Confederazione Generale del Lavoro). Tramite quelle direttive e la conseguente attività dei nostri compagni si cercava di imporre, sul miserabile tradunionismo al servizio della borghesia, il carattere formale e il contenuto del sindacato di classe, cinghia di trasmissione del partito rivoluzionario, conquistando la direzione dell’organizzazione sindacale e impedendo a tutti i livelli, nel mezzo della crisi economica e con una massiccia disoccupazione, la campagna di espulsione (già in atto) dei comunisti dai posti di responsabilità, e contemporaneamente denunciando il “patto di pacificazione” che si stava allacciando, tramite il Psi, con il fascismo. La tattica di conquista della Cgl poggiava sul suo ancora non del tutto spento contenuto di classe e si mostrava realistica, in quanto una straordinaria resistenza di base si era opposta, negli anni precedenti (Biennio rosso 1919-20) e fino allora, allo smantellamento di quelle Camere del Lavoro che erano state le roccaforti della difesa operaia e bracciantile, soprattutto contro le bande legali e illegali dello Stato.

D’altra parte, l’organizzazione politica del PCd’I era programmaticamente e praticamente, alla data della fondazione del partito nel gennaio 1921, ben presente all’interno delle organizzazioni sindacali: la struttura politico-organizzativa del partito (Comitato Esecutivo) si avvaleva infatti del Comitato Sindacale per tutto quanto concerneva le questioni di azione e di tattica sindacale; federazioni e sezioni politiche (quindi, di zona) avevano anch’esse un corrispettivo Comitato esecutivo sindacale comunista, costituito da membri del CE e del CS. A tal proposito, le “Norme per l’azione sindacale”, pubblicate su “L’Ordine Nuovo” del 21 novembre dello stesso anno, così spiegavano: “A questo Comitato devono essere disciplinati nella loro azione tutti i compagni che lavorano nei sindacati […] Il Comitato discute di tutti i più importanti problemi del movimento sindacale della zona (agitazione, scioperi, ecc); e tutti i compagni debbono essere disciplinati alle sue disposizioni. Nei problemi di natura più generale e di maggiore importanza, quando si tratti dello sviluppo dell’azione per la conquista dei sindacati da parte del Partito e per la diffusione dei metodi di azione sindacale sostenuti dal Partito su base nazionale, i Comitati esecutivi sindacali attueranno senz’altro le decisioni dei Comitati esecutivi politici […]. In generale il lavoro dell’Esecutivo sindacale e di quello politico in ogni federazione deve procedere con la stessa armonia con cui si svolgono i rapporti tra l’Esecutivo del partito e l’Esecutivo sindacale, essendo riservate al primo le grandi questioni di tattica anche nel campo sindacale”.

Alla base di tutto, il Partito disponeva poi dei gruppi comunisti di azienda e di lega e della rete di comitati sindacali nei sindacati di zona. Questa struttura “sindacale” di partito, nei sindacati e nelle aziende, sarà smantellata politicamente (e fisicamente) dal fascismo, mentre verrà “rimodellata” in senso corporativo quella sindacale propriamente detta. Già da allora cominciava a rifluire l’intensità della lotta (in quell’anno 1921, solo 1045 scioperi con 645.000 scioperanti, quando un anno prima erano stati rispettivamente 1881 e 1.268.000 e nel 1919 1663 e 1.049.000)[1]. Della Cgl, già a partire dal 1925 non rimarrà traccia fino al 1943-’44. Le risorgenti tendenze sindacali, emerse prima e dopo la conclusione della seconda guerra mondiale (soprattutto nel Sud), saranno rapidamente soffocate dal diktat del borghesissimo Fronte di Liberazione Nazionale e sostituite da vere e proprie organizzazioni costruite ad hoc – quelle che saranno poi Cgil, Cisl Uil, modellate sulle diverse componenti politiche nazionali. Da questo diktat discenderà, in perfetta continuità con quello fascista, l’attuale asservimento democratico, che avrà un contenuto e una dimensione internazionale. Quella che verrà ripristinata sarà la costituzione corporativa sindacale dello Stato fascista, mediata da puri feticci democratici, garanti del diritto d’oppressione della classe borghese sul proletariato. Sarà quella costituzione a imprimerle il contenuto nazionale e statale. La “democrazia sindacale”, un tempo naturale convergenza collettiva della “democrazia operaia” in difesa degli interessi economici “indipendenti” della classe, si trasforma in pochi decenni in uno strumento aperto di controllo da parte dello Stato e la stessa “democrazia operaia” sarà lo strumento “nazionalpopolare per eccellenza” della dittatura sulla classe.

Di seguito, riportiamo alcuni brani tratti dal nostro opuscolo Partito di classe e questione sindacale [2], che ci permetteranno di dare uno sguardo d’insieme agli scenari sindacali ancora aperti.

Il primo dopoguerra vide le grandi centrali sindacali schierate sul fronte della socialdemocrazia, di cui d’altronde, coi gruppi parlamentari, formavano i pilastri: schierate quindi sul fronte della conservazione dello status quo, dall’estremo tedesco della collaborazione coi governi socialdemocratici nella repressione dei moti proletari o da quello americano nel sabotaggio degli scioperi e della salvaguardia dell’ordine costituito in funzione degli interessi della manodopera qualificata, fino all’estremo (per esempio italiano) di un imbelle minimalismo e di un più o meno larvato accostamento agli istituti della democrazia parlamentare borghese. La straordinaria vitalità della classe, la persistenza di una tradizione di lotta sindacale, l’afflusso nelle organizzazioni tradizionali di masse imponenti spinte ad agire dalla pressione inesorabile della crisi post-bellica e composte in prevalenza da operai non qualificati, ebbero tuttavia per effetto che l’opportunismo, il quale attraverso i vertici sindacali, giocava il ruolo di cinghia di trasmissione delle ideologie e quindi delle pratiche borghesi contro le organizzazioni operaie, non poté impedire che i sindacati vivessero dell’intensa vita sindacale e anche politica di una “base” che in diversi paesi era in impetuoso fermento, accesa dalla fiamma dell’Ottobre rosso e perciò accessibile alla propaganda comunista. Così, pur riflettendo le tendenze oggettive della fase imperialista, l’opportunismo non fu in grado di fungere allora, nella stessa misura di oggi, da agente diretto dell’infeudamento delle organizzazioni sindacali allo Stato.

L’Internazionale ricostruita sulla base della restaurazione integrale della dottrina marxista non solo poté quindi propugnare la necessità per i comunisti di svolgere un lavoro rivoluzionario, senza esclusione di mezzi legali e illegali, nei “sindacati anche più reazionari”, ma poté anche non escludere – salvo casi come quello dell’A.F.L. [americana], di chiusura dichiarata non pure alla propaganda rivoluzionaria, ma alla grande massa dei salariati – la loro conquista, comunque nei casi specifici questa dovesse o potesse effettuarsi (e in ogni caso si sarebbe effettuata attraverso violente battaglie contro l’opportunismo annidato ai vertici e in larghi strati della “base” delle organizzazioni esistenti). Nello stesso tempo, si dava però la direttiva di appoggiare le organizzazioni sorte in antitesi alle centrali ufficiali sotto la pressione del disgusto dei proletari combattivi per la prassi dei “bonzi” e della volontà di battersi sul terreno della lotta di classe aperta e diretta, aiutandoli così a liberarsi dei loro pregiudizi anarcosindacalisti e non esitando, ove ciò s’imponesse per ragioni obiettive, a favorire su scala generale la scissione dai vecchi e imputriditi organismi economici (cfr. Tesi sul movimento sindacale, i consigli di fabbrica e la III Internazionale, 1920). […]

Le tre organizzazioni che [in Italia] a buon diritto si chiamavano “rosse” – Cgl, Usl e Sf – si contrapponevano [...] alle associazioni di chiara origine padronale che passavano sotto il nome di “gialle” e “bianche”: erano nate per iniziativa di partiti o correnti dichiaratamente classisti, propugnavano e, nella misura compatibile con le propensioni opportuniste delle loro direzioni, applicavano i metodi della lotta di classe e dell’azione diretta contro il padronato, mantenevano (e non avrebbero mai potuto accettare di sacrificare) la propria tendenziale autonomia da poteri o uffici di Stato. Avevano dunque alle spalle una tradizione che non era una formula astratta o un articolo di statuto, ma si incarnava da un lato in masse organizzate generalmente molto combattive e, dall’altro, in una struttura articolata in una fitta rete di Leghe e Camere del Lavoro […] da difendere con le armi in pugno dagli attacchi congiunti delle forze dell’ordine democratico e delle squadre fasciste. […] Aperte a tutti i salariati di qualunque fede politica e religiosa quindi anche all’influenza del partito rivoluzionario marxista, le tre organizzazioni errano – e restavano malgrado la loro direzione opportunista – “sindacati di classe”.

La controprova di questa loro natura organicamente “rossa” è data, da una parte, dal fatto che la classe borghese disperatamente tesa a stringere le sue membra sparse in un tipo di organizzazione centralizzato e centralizzatore, quindi a sopprimere in primo luogo l’autonomia del movimento operaio, dovette prendere direttamente d’assalto le sedi sindacali, Leghe e Camere del Lavoro e , conquistandole, distruggere la rete organizzativa tradizionale per costruirsene una nuova a proprio uso e consumo. E’ data, d’altra parte, dal fatto che nella fase terminale dello scontro con i fascisti, la Sinistra poté agitare la parola d’ordine della difesa dei sindacati rossi tradizionali e della necessità del risorgere di essi quando fossero stati distrutti, in una posizione – per contro – di aperto sabotaggio dei sindacati corporativi e statali (cfr. Tesi di Lione, parte III, §11).

***

E’ nel primo dopoguerra dunque che la borghesia passa, dopo gli anni della cosiddetta tolleranza, all’assoggettamento delle organizzazioni sindacali e al loro utilizzo come strumenti di gestione dell’economia capitalistica e quindi al loro riconoscimento giuridico e istituzionale. Il primo conflitto mondiale segna il punto di svolta, lo spartiacque: da quel momento, nel corso della guerra stessa e da lì in avanti, l’inquadramento delle organizzazioni sindacali sarà indirizzato al controllo diretto della classe operaia, sia in pace che in guerra. Da allora fino alla definitiva incorporazione nello Stato, diciamo fino al 1924-‘25 ci saranno ancora spinte contrastanti che porteranno a lotte imponenti, ma anche a nuove illusioni riformiste su diversi terreni. Fra queste, ancora e sempre le male piante dello spontaneismo aziendalista e soprattutto della ”democrazia operaia”, vista anche in chiave di “fronte unico politico” (e non di “fronte unico proletario”). La pericolosità di quest’ultima non fu colta fino in fondo, in quegli anni, tra le nostre stesse file, sebbene il Partito Comunista d’Italia ne denunciasse nelle sedi dell’ Internazionale gli effetti devastanti, che conducevano al rifiuto ideologico e tattico della direzione politica unica della classe.

Dal secondo conflitto mondiale, davanti al fronte unito delle borghesie nazionali, la classe operaia uscirà sconfitta e si stringeranno ai suoi piedi le catene, grazie a organizzazioni sindacali dirette emanazioni degli Stati borghesi. Come l’antifascismo “nazionale e patriottico” sarà la matrice della Costituzione repubblicana postfascista, così anche la nuova struttura sindacale sarà impregnata di corporativismo fin nei suoi fondamenti, condito di un’illusoria libertà di azione indipendente (la “non statalizzazione” delle strutture sindacali, capolavoro della democrazia borghese). La “democrazia sindacale” sarà ancora la fonte battesimale che consacrerà, nella libertà borghese, il legame profondo del Sindacato con lo Stato. E, se l’antifascismo sarà il prodotto più genuino del fascismo, allo stesso modo la cosiddetta “democrazia del lavoro” (“l’Italia fondata sul lavoro”) sarà l’arma più sicura per la difesa degli interessi storici della borghesia: non è un caso che tutte le sinistre sindacali la brandiscano come arma antiburocratica, genuino strumento di vera libertà sindacale, mezzo più sicuro per... “farsi Stato”. Si tratta di un processo irreversibile: non si potrà più combattere per ripristinare una “democrazia operaia” all’interno delle organizzazioni sindacali esistenti; non si potrà più ricostruire al loro interno una rete di legami (cinghie di trasmissione) che permettano al Partito rivoluzionario di conquistarne la direzione. Si potrà e si dovrà invece attendere e far sì che la dinamica stessa di classe, sostenuta dal Partito e spinta in superficie da crisi profonde (anche a partire dalla difesa delle condizioni di vita e di lavoro), entri in un fronte d’urto con le vecchie strutture sindacali passate al nemico di classe – scontro che sarà il primo segnale della ripresa della lotta di classe contro la borghesia. Scompare così, dal secondo dopoguerra, ogni contenuto di classe: appaiono strutture formali amplificate, vuote come gusci fossili; riappaiono copie di “ sinistra” e di “ destra”, corporazioni nazionalizzate “tricolori” e minicorporazioni parassite dello Stato borghese in ogni nicchia produttiva (soprattutto nel pubblico impiego e nei servizi). Il contenuto fascista è transitato compiutamente nel corpo di quelle nuove strutture sindacali, che pure un tempo s’erano battute contro l’annientamento delle sedi, centri di resistenza e di lotta di classe. Gli scioperi e le manifestazioni di lotta economiche diventano vuoti rituali che si fermano sulla soglia della concertazione con Governo e imprenditori. La mutazione non permette più la rivitalizzazione di una politica di classe, in quanto a essere assente è proprio il contenuto di classe. Solo una crisi rivoluzionaria potrà attivare un’energia di classe che cova sempre sotto la cenere, anche dopo un così lungo periodo di controrivoluzione.

Il brano seguente, tratto dall’articolo “Movimento operaio e internazionali sindacali”, apparso il 29 giugno 1949 su quello che allora era il nostro organo quindicinale Battaglia comunista, chiarisce la dinamica della mutazione avvenuta:

Il problema dell'ingranamento tra organi politici e organi sindacali di lotta proletaria nella sua impostazione deve tenere conto di fatti storici della più grande importanza sopravvenuti dopo la fine della Prima Guerra mondiale. Tali fatti sono, da una parte il nuovo atteggiamento degli Stati capitalistici verso il fatto sindacale, dall'altra lo scioglimento stesso del secondo conflitto mondiale, la mostruosa alleanza tra la Russia e gli Stati capitalistici e i contrasti tra i vincitori. Dal divieto dei sindacati economici, coerente conseguenza della pura dottrina liberale borghese, e dalla loro tolleranza, il capitalismo passa alla sua terza fase della loro inserzione nel suo ordine sociale e statale. Politicamente la dipendenza si era già ottenuta nei sindacati opportunisti e gialli e aveva fatto le sue prove nella Prima Guerra mondiale. Ma la borghesia per la difesa del suo ordine costituito doveva fare di più. Fin dal primo tempo la ricchezza sociale e il capitale erano nelle sue mani e li andava concentrando sempre più nel continuo respingere nella nullatenenza gli avanzi delle classi tradizionali di liberi produttori. Nelle sue mani fin dalle rivoluzioni liberali era il potere politico armato dello Stato e più perfettamente nelle più perfette democrazie parlamentari, come, con Marx ed Engels, dimostra Lenin. Nelle mani del proletariato suo nemico, i cui effettivi crescevano col crescere dell'espropriazione accumulatrice, era una terza risorsa: l'organizzazione, l'associazione, il superamento dell'individualismo, divisa storica e filosofica del regime borghese. La borghesia mondiale ha voluto strappare al suo nemico anche questo suo unico vantaggio [...]

Poiché il divieto del sindacato economico sarebbe un incentivo alla lotta di classe autonoma del proletariato, in questo metodo la consegna è divenuta del tutto opposta. Il sindacato deve essere inserito giuridicamente nello Stato e deve divenire uno dei suoi organi. La via storica per arrivare a tale risultato presenta molti aspetti diversi e anche molti ritorni, ma siamo in presenza di un carattere costante e distintivo del moderno capitalismo. In Italia e in Germania i regimi totalitari vi giunsero con la diretta distruzione dei sindacati rossi tradizionali e perfino di quelli gialli. Gli Stati che in guerra hanno sconfitto i regimi fascisti si muovono con altri mezzi nella medesima direzione. Temporaneamente, nei loro territori e in quelli conquistati, hanno lasciato agire sindacati che si dicono liberi e non hanno vietato e non vietano ancora agitazioni e scioperi. Ma ovunque la soluzione di tali movimenti confluisce in una trattativa in sede ufficiale con gli esponenti del potere politico che fanno da arbitri tra le parti economicamente in lotta, ed è ovviamente il padronato che fa per tal modo la parte del giudice ed esecutore. Ciò sicuramente prelude alla eliminazione giuridica dello sciopero e della autonomia di organizzazione sindacale, già di fatto avvenuta in tutti i paesi, e crea naturalmente una nuova impostazione dei problemi dell'azione proletaria. Gli organismi internazionali riappaiono come emanazione dei poteri statali costituiti.

Questa realtà ci consegna oggi una sola parola d’ordine: la direzione rivoluzionaria, e non altro, può assicurare la difesa degli interessi immediati, nonché storici della classe. Il carattere totalitario assunto dai sindacati nell’epoca imperialista impedisce di svolgere un lavoro al loro interno che non sia cospirativo: il che significa che il campo di contatto con la classe è impedito a tutti i livelli da un cordone sanitario. L’azione di espulsione dei comunisti dai sindacati è già avvenuta e ai proletari rivoluzionari e alle avanguardie di classe non resta che riconoscere questo risultato per proseguire oltre, adattando la propria propaganda e agitazione allo stato di cose presente, senza alcuna velleità di mobilitazione di massa della realtà operaia. Quelle condizioni, che portarono al processo di integrazione della classe in organizzazioni sindacali vendute al nemico, si apriranno quando lo scontro si porterà all’altezza della lotta rivoluzionaria.

I mezzi di azione e i metodi di lotta, che abbiamo di recente sintetizzato in un opuscolo di propaganda (“Per la difesa intransigente delle condizioni di vita e di lavoro dei proletari”), hanno lo scopo di contribuire a quella ripresa della lotta di classe, così da lungo tempo assente. Non si può invertire il corso degli eventi con la pura propaganda, non si può passare dalla difesa all’attacco con l’attivismo agitatorio e con il semplice lancio di parole d’ordine (come quella del “sindacato di classe”) che appartengono a un’altra fase, perché manca oggi ancora il fuoco vivificatore delle lotte. Il ché non vuol dire tacere la sua necessità in un tempo ancora non maturo. Come abbiamo visto, l’integrazione della classe operaia nella società borghese non è il semplice frutto della sua condizione economica, perché a essa è connessa una fitta trama di relazioni sociali, politiche e ideologiche, il suo passato di lotte, la sua passività e le sue sconfitte, che costituiscono insieme una barriera potenziale difficile da superare senza un’energica azione di lotta. E questa energia non può avere i caratteri della spontaneità: deve possedere fin dall’inizio una tendenza al fine. Finché rimane spontaneità essa sarà costretta a ripercorrere all’infinito il suo inferno.

Occorre, come scrivevamo nella prima parte di questo articolo, nel numero scorso di questo giornale, prepararsi a una lotta di difesa economica dura e senza tentennamenti: per tutti i proletari che non riescono più a sopportare il continuo peggioramento delle proprie condizioni di vita e di lavoro, che vedono continuamente abbattersi su di loro la scure dei licenziamenti, delle ristrutturazioni, delle delocalizzazioni, e ridursi il potere d’acquisto dei salari, è indispensabile avere chiaro il cammino (sempre impervio) che li attende, conquistare il terreno di lotta da cui furono cacciati, rimettere di nuovo in piedi le forme organizzative economiche di combattimento, impedire che la spontaneità accechi e disperda il contenuto e le finalità dello scontro di classe – e quindi e soprattutto riconoscere nel Partito la guida sicura per la trasformazione rivoluzionaria e la successiva dittatura proletaria.



[1] Cfr. Storia della Sinistra Comunista (1912-1919), Vol. I, Edizioni Il programma comunista, pag. 166.

[2] Partito di classe e questione sindacale, Quaderni del Partito comunista internazionale, n.1, 1994, p. 4-5.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2010)

 

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