Berlino: 9 novembre 2009

 

C’erano tutti, i banditi di ieri e di oggi: dal duo Gorbaciov-Walesa al duo Clinton-Merkel, con la benedizione da lontano di Papa Ratzinger e di Nobel Obama (mancava solo, per cause di forza maggiore, Papa Woytila: ma di certo la sua anima svolazzava sopra Berlino). Il grande party cui sono convenuti i potenti della terra, apparentemente per festeggiare il ventennale dell’abbattimento del muro di Berlino, eretto dai massacratori antioperai della DDR (con l’aiuto indiretto della Repubblica Federale Tedesca) per consolidare la divisione del proletariato tedesco stabilita dagli accordi di Yalta nel 1945, ha acceso e spento le sue luci hollywoodiane (il “muro di polistirolo” fatto cadere a mo’... di domino è simbolo eloquente della paccottiglia ideologica borghese).

Non si festeggiava un semplice ventennio: era la riconferma della “Santa Alleanza” antiproletaria, nel mezzo di una crisi economica che evoca lo spettro di grandi catastrofi. Più o meno negli stessi giorni, la Francia commemorava insieme alla Germania la fine del primo conflitto mondiale; e, per non esser da meno, l’Italia ricordava la vittoria nazifascista di El Alamein contro le truppe alleate della democrazia (con qualche distinguo, è vero: che però non ha intaccato la decisione congiunta di dedicare il 12 novembre ai morti di Nassiriya, nella recente “Santa Guerra imperialista” in Medioriente). Che sta accadendo? Che cos’è questa grande voglia di festeggiare, di trovare consenso universale in nome del feticcio democratico? Che cosa cucina la crisi del capitalismo globale? Lo spettro del comunismo si è di nuovo messo in moto per atterrire e atterrare i suoi nemici?

Che la borghesia abbia una fottuta paura del comunismo non c’è dubbio. Che il “popolo dell’abisso”, spinto dalle contraddizioni sociali ed economiche, venga infine allo scoperto, con le sue lotte prima parziali e poi sempre più antagoniste, è inevitabile (come inevitabile sarà la sua sconfitta, se non si doterà di uno Stato maggiore: il partito comunista internazionale). Non a caso, la “Santa Alleanza” antiproletaria ha scelto Berlino per le sue celebrazioni, a suon di sorrisi e abbracci (attenzione, proletari: più si parla di pace, più si prepara la guerra!). In primo luogo, ha cercato di rinverdire quell’anticomunismo di bassa lega che per decenni ha caratterizzato il pensiero dominante, grazie alla collaborazione diretta e indiretta, immediata e a lunga scadenza, dello stalinismo: un anticomunismo fondato cioè sull’assunto che, in Russia come nei paesi dell’est europeo, vigesse il comunismo – mentre noi sappiamo e abbiamo dimostrato che vi dominava un industrialismo di stato prettamente capitalistico, caratterizzato da tutte le categorie economiche proprie del capitalismo (merce, salario, mercato, azienda, ecc.). In secondo luogo, immersi tutti in una crisi devastante (di cui, più si proclama la fine più si rivela la paura di uno sprofondamento catastrofico), i banditi della “Santa Alleanza” antiproletaria hanno cercato di esorcizzarla, celebrando il trionfo della democrazia, il “volèmose bene” collettivo, la fiducia nella solidità del sistema vigente, l’impossibilità di altre vie e prospettive: questa è la minestra e ti tocca mangiarla. In terzo luogo, la “Santa Alleanza” ha scelto Berlino non a caso, e non solo per la squallida celebrazione dell’abbattimento del muro vent’anni fa: ha scelto Berlino come simbolo eloquente della rivoluzione (i moti spartachisti del 1918-19, guidati da Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Leo Jogisches e tanti altri meravigliosi compagni; la rivolta operaia del 1953 al canto dell’“Internazionale”) e del suo strangolamento a opera della socialdemocrazia (che massacrò i comunisti nel 1919 e negli anni seguenti), del nazismo (che, con la strada spianata dalla socialdemocrazia, portò a termine il suo sporco lavoro) e dello stalinismo (che, secondo un copione ripetutosi nei decenni, tacciò di “fascisti” e “pagati dagli americani” gli operai che lottavano in nome del comunismo). Come dire: Berlino non si tocca, il nostro regime (dittatoriale, fra un sorriso e l’altro) è solido, l’abbiamo dimostrato nei fatti.

Ma il Re è sempre più nudo.

 

Le “ Sante alleanze” della borghesia

 

La prima “Santa Alleanza” fra forze della borghesia e forze feudali (che decise lo status quo nel 1814, dopo le guerre napoleoniche), si sciolse nel 1848, con il risveglio dei popoli e delle nazioni nell’Europa (della borghesia “rivoluzionaria” europea) e con la prima dichiarazione di guerra aperta, programmatica e attiva, del proletariato: il Manifesto del partito comunista. La seconda “Santa Alleanza” si costituì a Parigi nel 1870-71, durante la guerra franco-prussiana: la Comune proletaria si trovò di fronte i due eserciti fino a quel momento in guerra e ora uniti nella sua spietata repressione, che si concluse con il massacro di decine di migliaia di proletari e con l’incarcerazione di centinaia di migliaia d’essi nelle terre d’Oltremare. La terza “Santa Alleanza” seguì la prima guerra mondiale, dopo il macello di quindici milioni di proletari e contadini, e fu congegnata a Versailles dal maggiordomo americano, il presidente USA Wilson; nel medesimo tempo, si dichiarava guerra totale alla Rivoluzione proletaria in Russia, accerchiata da ogni parte da eserciti accorsi per seppellirla, e si scatenava la caccia al proletariato combattente e ai comunisti rivoluzionari da parte della socialdemocrazia tedesca, austriaca, ungherese, su incarico della grande borghesia vincitrice e in cambio di una pace onorevole. Storia diversa, ma parallela, in Italia, dove i transfughi del partito socialista e del sindacalismo rivoluzionario, chiamati all’appello dalla grande borghesia, si costituiscono in Partito fascista, seminando il terrore tra i proletari, a braccetto di socialisti pacificatori, di sindacalisti opportunisti e di forze armate “legali”.

La crisi economica del 1929 destabilizzerà quella fragile alleanza: le uova messe a covare si riapriranno su uno scenario del tutto mutato. In nome di un fantomatico “socialismo nazionale” e di un “nazionalsocialismo” espressione del dominio capitalistico nella sua fase imperialista, la borghesia russa e quella tedesca procedono sistematicamente a fare tabula rasa dei resti di ogni opposizione rivoluzionaria, uccidendo e incarcerando gli oppositori politici: la prima, cercando di cancellare ogni traccia storica (teorica, programmatica, organizzativa) del Partito bolscevico e dell’Internazionale comunista, come via obbligata per la nuova mobilitazione di guerra, il nuovo conflitto mondiale; la seconda, dando il colpo di grazia a un proletariato battutosi eroicamente per più di un decennio, ma privo della guida di un vero partito rivoluzionario e troppo spesso sviato e illuso dall’ingannevole socialdemocrazia. Il risultato? Alleanza di guerra prima con la Germania e poi con gli eserciti democratici, scioglimento del Comintern, rilancio della difesa della “Russia socialista”: un bilancio di settantacinque milioni di morti con la repressione di milioni di proletari civili d’ogni nazione, etnia, gruppo sociale, un bagno di sangue di enormi proporzioni sul corpo del proletariato russo che per primo aveva osato attaccare la borghesia mondiale. La seconda guerra mondiale inaugurerà poi il terrorismo di Stato borghese contro le popolazioni e sul territorio: la strategia del massacro per difendere il proprio modo di produzione.

La quarta “Santa Alleanza” uscita dalla “pace di Yalta” nel 1945 divide il continente europeo: con tratti di penna, i briganti della terra (Churchill, Eisenhower, Stalin) si dividono popoli e territori, ma quello che più sta loro a cuore è impedire che il secondo dopoguerra sia una ripetizione del primo, illuminato da bagliori di rivolta in tutta l’Europa. Occorre dividere la Germania e il suo proletariato, occorre dividere Berlino: il “muro” è la conseguenza di quel gioco infernale atto a garantire la stabilità nella divisione. Sarà però la crisi economica del 1974-’75 a dettar legge, con il crollo finale dell’intera economia russa ed est-europea. Da allora, l’instabilità crescente ha compattato la Germania riunificandola; ha disfatto l’Urss; ha balcanizzato i Balcani; ha messo in moto guerre civili, sociali, etniche; ha devastato tutta l’area mediorientale.

Oggi, a vent’anni da allora, la borghesia mondiale ha bisogno di illudere che la pace dei cimiteri sia ancora assicurata. Noi sappiamo invece che presto o tardi si costituiranno le nuove alleanze per il prossimo conflitto.

 

Malgrado tutto!

 

Scriveva Karl Liebknecht, uno dei fondatori, insieme a Rosa Luxemburg, dello Spartakus Bund (La Lega di Spartaco), poco prima d’essere rapito, torturato e assassinato dalle squadracce dei Freikorps, a Berlino, in quei giorni d’insurrezione proletaria, nel gennaio 1919:

 

“ ‘Spartakus sopraffatto!’

“Sì, gli operai rivoluzionari di Berlino sono stati battuti! Sì, centinaia dei loro uomini migliori massacrati! Sì, centinaia dei loro più fidi gettati in carcere! […]

“E la loro forza è stata paralizzata dall’indecisione e dalla debolezza dei loro dirigenti. E la mostruosa marea di fango controrivoluzionaria delle parti più retrive della popolazione e delle classi possidenti li ha sommersi.

“Sì, sono stati battuti. E che fossero battuti era un imperativo storico. Perché l’ora non era ancora matura. E tuttavia, la lotta era inevitabile. […]

“Sì, gli operai rivoluzionari di Berlino sono stati battuti! E hanno vinto gli Ebert-Scheidemann- Noske [il trio di massacratori socialdemocratici - NdR]. E hanno vinto perché erano con loro i generali, la burocrazia, gli Junker dell’industria e delle campagne, i preti e i portafogli e tutto ciò che è angusto, limitato, retrivo. Ed hanno vinto per loro con la mitraglia, le bombe a gas e i lanciamine. Ma vi sono sconfitte che sono vittorie; e vittorie più infauste di sconfitte. I vinti della sanguinosa settimana di gennaio hanno vissuto gloriosamente; hanno lottato per qualcosa di grande, per l’obiettivo più nobile dell’umanità sofferente, per la redenzione spirituale e materiale delle masse bisognose; hanno versato per qualcosa di sacro il loro sangue, che ne è stato così santificato. E da ogni goccia di questo sangue, semente di draghi per i vincitori di oggi, nasceranno i vendicatori dei caduti, da ogni fibra lacerata nuovi combattenti della grande causa, che è eterna e imperitura come il firmamento.

“Gli sconfitti di oggi saranno i vincitori di domani. Perché la sconfitta è la loro lezione. Il proletariato tedesco è ancora privo di tradizione e di esperienza rivoluzionarie. E soltanto attraverso tentativi incerti, giovanili errori, dolorosi rovesci e insuccessi potrà acquistare l’addestramento pratico che garantirà il futuro successo. […]

 “‘Spartakus, sopraffatto!’

“Adagio! Noi non siamo fuggiti, non siamo battuti. E se anche ci metteranno in ceppi, qui noi siamo e qui resteremo! E la vittoria sarà nostra.

“Perché Spartakus significa fuoco e spirito, significa anima e cuore, significa volontà e azione della rivoluzione del proletariato. E Spartakus significa ogni bisogno e anelito alla felicità, ogni volontà di lotta del proletariato che ha coscienza di classe. Perché Spartakus significa socialismo e rivoluzione mondiale. […]

“E se non saremo più in vita quando essa sarà raggiunta, vivrà il nostro programma; regnerà il mondo dell’umanità redenta. Malgrado tutto! […]”[1]

 

E’ questa ancor oggi la nostra consegna, di fronte ai macellai passati e presenti, riunitisi a Berlino.

 

 

 

Note

 


 

 

1. Karl Liebknecht, “Malgrado tutto!”, in Scritti politici, Feltrinelli, pag.375.
 
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°06 - 2009)

 

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