Nella morsa imperialista da più di un secolo

E’ difficile districarsi nel ginepraio mediorientale senza una bussola di classe. Per fortuna, possiamo attingere all’immenso patrimonio del nostro Partito: sono infatti molti i lavori che abbiamo dedicato al Libano e al Medio Oriente e conserviamo così la memoria storica dei conflitti in quell’area, strategica per il convergere degli interessi imperialistici, di tutti gli imperialismi [1]. Attingendo a quei lavori cercheremo di dare una breve presentazione delle premesse storiche che hanno condotto alla situazione attuale, avendo in mente i giovani lettori che magari hanno sempre sentito parlare di guerra in Libano senza mai riuscire a comprendere le ingarbugliate spiegazioni della stampa borghese, basate su rivendicazioni nazionali o religiose, quindi impotenti a spiegare alleanze tra Nazioni che si fanno e si disfano senza un filo conduttore.

Non si può capire nulla della tragedia che ormai da mesi insanguina il Libano, se non si ricorda che esso è una creazione artificiale dell'imperialismo, soprattutto francese, eretta sulle rovine dell'impero ottomano alla fine della prima guerra mondiale”. Queste parole non state scritte in occasione delle proteste recenti e per commentare le visite del presidente Macron, ma più di 50 anni fa, davanti ad una guerra civile in corso ed in riferimento a fatti storici di inizio 900 [2].

Recentemente, il patriarca cristiano maronita libanese ha fatto appello alla comunità internazionale perché il Libano conquisti la sua indipendenza, e tale appello ha trovato calorosa accoglienza nella stampa occidentale.  Come al solito la storia si ripete, ma alla tragedia sempre più si aggiunge la farsa…dopo più di un secolo. Scrivevamo, sempre nel 1975:

Clemenceau [primo ministro francese, in carica alla fine della prima guerra mondiale, ndr] risponde con interessata sollecitudine alle invocazioni del patriarca maronita, sognante un Libano «indipendente» sotto egemonia cristiana: le regioni destinate a costituire il Libano vengono perciò sottratte al controllo militare di Damasco, dove re Feysal si adatta a questa concessione al governo parigino nella speranza di un riconoscimento dell'indipendenza della Siria[3].

E’ passato più di un secolo: mettete Macron al posto di Clemencau, il patriarca attuale al posto del suo omologo di inizio ‘900… e la situazione attuale, o perlomeno il suo naturale sviluppo, risulterà la stessa, con poche variazioni di sostanza: è del marzo 2021 la “notizia”, diffusa con enfasi dai giornali occidentali, relativa al discorso del cardinale maronita Béchara Boutros Raï che, di fronte a una folla di almeno quindicimila libanesi, ha chiesto “Lunga vita al Libano, unito e unificato, attivamente e positivamente neutrale, sovrano e indipendente, libero e forte, che difende la coesistenza e la tolleranza”. Il porporato ha, inoltre, chiesto che si tenga una conferenza internazionale sul Libano, sotto l’egida delle Nazioni Unite. Come se il Libano non avesse avuto abbastanza conferenze di pace, appelli alla pace, interventi delle forze di pace… nella sua storia secolare di guerre…

Ma torniamo allo Stato libanese delle origini, nato sulla carta, sotto il controllo francese, alla fine della prima guerra mondiale: “Come è ovvio, la minoranza cristiano maronita si vede assegnare [dalla Francia, ndr] la parte del leone nell'apparato statale: in base alla costituzione del '26, sostanzialmente riconfermata nel 1943 (quando il Libano viene graziosamente eretto in repubblica indipendente) e tuttora in vigore [4], i 99 deputati al parlamento si dividono cosi: «30 maroniti, 11 greco-ortodossi, 6 greci melciti, 3 armeni ortodossî, 1 armeno cattolico, 1 protestante, 39 fra musulmani sunniti e musulmani sciiti, 6 drusi, e 2 fra latini, ebrei ed altre minoranze beyrutiane». Ma, dietro questa ripartizione in veste confessionale, si celano precisi interessî economici: i cristiano-maroniti sono infatti gli esponenti della grande proprîetà terriera e della nuova borghesia parassitaria cresciuta all'ombra del traffico di intermediazione fra l'Occidente imperialîstico e i paesi petroliferi, e prosperante al sole di grandi operazioni speculative e finanziarie; come un po' dovunque nel cosiddetto Terzo Mondo, una struttura sociale arcaica, fossilizzata nel suo oscurantismo religioso, trae dalla simbiosi con l'imperialismo la forza non solo di sopravvivere, ma di rafforzarsi, sulle spalle di plebi orrendamente sfruttate. L'imperialismo, a sua volta, si incarica di presentarla al mondo come un raro gioiello di democrazia progressiva, come un'oasi di pace e di progresso nel Medio Oriente barbaro e semifeudale[5]

Ecco la storiella della Svizzera del Medio Oriente, baluardo di democrazia, che resiste contro i barbari di Hezbollah, spiegata molto semplicemente, oltre gli schieramenti su base religiosa e settaria.

Se si prendessero per buone la base religiosa e l’indipendenza nazionale, come spiegazione degli schieramenti e delle guerre, non si comprenderebbero le mille giravolte e cambi di campo, mentre la spiegazione su base economica e di classe offre una chiara chiave di lettura per comprendere come i vari imperialismi abbiano potuto fare e disfare alleanze nel corso di un secolo, per la spartizione del bottino e per il controllo sociale delle plebi affamate e combattive. Si pensi, ad esempio, al fatto che recentemente Israeliani e governo libanese si sono lanciati segnali di pace, pur di condividere lo sfruttamento delle risorse energetiche al largo delle loro coste. I Sauditi hanno cambiato spesso alleato fino ad arrivare a fare affari con Israele, e gli stessi Cristiani maroniti così come gli Sciiti e i Sunniti sono divisi al loro interno per motivi di interesse economico e controllo del territorio. Gli americani combattono gli Sciiti in Libano ma li appoggiano, temporaneamente, in Iraq, dopo avergli fatto la guerra per anni… Tutto un guazzabuglio che solo la lente degli interessi del capitale e di classe può dipanare.

La spirale di guerre civili e scontri imperialisti

L’articolo del 1975, da cui abbiamo tratto le citazioni precedenti, fu scritto nell’ambito della guerra civile appena scoppiata e si concludeva con la facile previsione della prosecuzione della lotta armata delle plebi in Libano, strette nella morsa degli imperialismi concorrenti e delle varie frazioni borghesi.

Il Libano aveva già conosciuto un periodo di guerra civile, disordini politici e scontri di guerriglia, in particolare tra maggio e ottobre del 1958. Da un lato i sostenitori del presidente libanese, cristiano maronita (secondo la costituzione anche le cariche istituzionali sono rigidamente spartite tra le varie confessioni religiose) sostenuto dal capitale occidentale, e dall'altro la galassia di movimenti di pseudo sinistra, movimenti radicali democratici, panarabismo pseudo-marxista, guidati dal Partito Socialista Progressista, insieme con il primo ministro Rashid Karame, musulmano sunnita, appoggiato dall’Egitto. L’esercito libanese si dimostrò incapace di fermare l'ondata di violenza. Il conflitto si risolse in pochi mesi con la vittoria del fronte occidentale, grazie all’intervento diretto degli USA con più di 80 navi da guerra che sbarcarono le truppe americane nella… repubblica indipendente del Libano.

La guerra civile iniziata nel 1975, invece, come previsto nel nostro articolo citato sopra, si protrasse per decenni, fino al 1990. In tale periodo, il Libano ha infatti subito l’invasione israeliana del 1982, chiamata “pace in Galilea” o “Prima guerra israelo-libanese”, e l’intervento di eserciti sotto il controllo di capitali iraniani, siriani, sauditi, americani, francesi e italiani, seppure mascherati da forze di pace…

Di fronte al pericolo sociale costituito dal combattivo proletariato palestinese confinato in Libano (ad oggi sono presenti 450 mila profughi palestinesi in Libano), la borghesia di tutti gli imperialismi, occidentali e arabi, si è macchiata le mani di sangue, complice diretta o indiretta delle stragi di Damur (1976) e del massacro nei campi-profughi di Sabra e Shatila (1982) a Beirut: a dimostrazione di come la religione e la nazionalità siano solo una copertura degli interessi contingenti dei vari capitali, regionali, nazionali o imperialistici.

Ormai da 10 anni, il Libano subisce le tremende conseguenze della guerra in Siria, sia perché la Siria è il maggior “finanziatore” delle banche libanesi (42 miliardi di dollari statunitensi di depositi siriani sono andati perduti nelle banche libanesi), sia per l’ondata di profughi, circa un milione e mezzo, che si è riversata nel paese dei cedri.

La base economica

Anche qui, nulla è cambiato, se non che dalla forma parassitaria a prevalenza di rendita terriera si è passati alla sua forma moderna di rendita finanziaria. La struttura parassitaria ha bloccato lo sviluppo industriale. Il paese vive di debito pubblico, ossia di prestito dall’estero che si auto-alimenta in un circolo vizioso, e questo spiega il collasso attuale. Il Libano ha dichiarato default circa un anno fa, non potendo restituire il prestito in eurobond di circa 30 miliardi. I paesi occidentali chiedono riforme di struttura, ossia austerità e sacrifici, per finanziare altro debito, ma questo creerebbe altra tensione sociale… Il Libano non ha una autosufficienza alimentare, importa il 60 % delle merci necessarie; quindi il porto e l’aeroporto, controllati dalle varie sette confessionali costituiscono punti strategici fondamentali. Teniamo a mente questo quando pensiamo all’esplosione avvenuta nel porto di Beirut il 4 agosto 2020.

Secondo l’ultimo rapporto dell’Undp, l’agenzia Onu per lo sviluppo umano, il Libano è tra i paesi con maggiore ineguaglianza nella distribuzione del reddito. L’1% più ricco possiede il 25% dell’intero reddito nazionale. Nel 2017 il 20% di tutti i depositi era concentrato in 1.600 conti correnti: lo 0,1% del totale dei depositi nelle banche libanesi. Almeno un milione, dei sei milioni di libanesi, è considerato “povero”. L’arrivo in questi anni di un milione e mezzo di rifugiati siriani ha spinto nella povertà altri 200mila libanesi: offrendosi per salari inferiori, i profughi hanno abbassato il costo del lavoro non specializzato. La Banca Mondiale ha stanziato 100 milioni di dollari per cercare di arginare il problema, ma sono quattro soldi di fronte al pericolo destabilizzante del conflitto siriano ai confini e all’ondata dei profughi. Eppure il piccolo Libano ha 142 istituti bancari, contati dalla Commissione governativa per il controllo sul credito. Il profitto totale delle prime 14 banche equivale al 4,5% del Pil nazionale. Per avere un termine di paragone, come unità di misura, le più importanti banche in Gran Bretagna – altro paese a forte base finanziaria – arrivano all’1, in Germania allo 0,2 per cento.

Finché tutto andava bene tutti se ne avvantaggiavano... a debito. Ma ora anche i politici di vecchio pelo, libanesi ed esteri, che su quel sistema hanno prosperato, hanno la faccia tosta di puntare l’indice sul sistema bancario e sul debito insostenibile, non sapendo però con che cosa sostituirlo. Prima di arrivare a questa crisi, Riad Salameh, l’uomo al timone della Banca centrale da 26 anni, le aveva provate davvero tutte. Ricorrendo a quella che lui stesso aveva definito “ingegneria finanziaria”, l’autorevole tecnico è stato nominato tre volte nella sua carriera “miglior governatore di banca centrale del mondo”.

In questa realtà fra estrema povertà e grande ricchezza, opera lo Stato, diviso al suo interno, costituzionalmente, per confessioni religiose che in effetti rappresentano altrettanti capitali stranieri: con regole teoricamente assillanti ma facilmente ignorabili. Lo Stato e il suo braccio operativo, il governo, vivono di debito. Il deficit di bilancio è all’8% del Pil, il debito pubblico al 152,8% e i libanesi importano, cioè consumano, molto più di quanto esportino. PIL collassato del 19,2% nel 2020 e atteso in calo a doppia cifra anche quest’anno; cambio a -85% sul mercato nero dall’ottobre 2019; riserve valutarie prosciugate; inflazione sopra il 145% a dicembre; carenza diffusa di beni; almeno il 60% della popolazione sotto la soglia della povertà e assenza di aiuti internazionali per mancanza dei requisiti politici fondamentali, tra cui l’esistenza di un governo nel pieno delle sue funzioni e con un programma di riforme. Molti cittadini libanesi che facevano affidamento su forti risparmi in valuta sono caduti in povertà a causa dei controlli sui capitali, poiché le banche limitano i prelievi in dollari. Più di un terzo della popolazione è disoccupato.

Per la sua storia e per quello che il Libano rappresenta in termini di equilibri inter-imperialistici, l’Europa non vuole vedere il paese affondare di nuovo, come nei 15 anni di guerra civile, fra il 1975 e il 1990. Da tempo la Conferenza di Parigi finanzia il paese. L’ultima tranche da 11 miliardi di dollari è pronta, ma perché arrivi a Beirut occorre che il governo faccia le riforme economiche richieste. Lo Stato libanese non ha la capacità né la volontà di raccogliere le imposte sul reddito che dovrebbero garantire i servizi ed il welfare: il 60% delle entrate fiscali viene da tasse indirette, che quindi pesano relativamente di più sulle fasce più povere. Ciò che la comunità internazionale chiede, in cambio degli 11 miliardi di dollari promessi, sono proprio le riforme che i manifestanti osteggiano: le telecomunicazioni, la riforma dell’IT, dell’energia elettrica, le privatizzazioni in molti altri settori. Due vecchi signori della guerra civile come il druso Walid Jumblatt e il maronita Samir Geagea si sono subito messi dalla parte della protesta, contro il governo. Sono fra i leader politici che più fanno ostruzione alle riforme. Jumblatt controlla il lucroso mercato dei generatori elettrici, senza i quali da Tripoli a Sidone i libanesi resterebbero senza elettricità per ore, ogni giorno. È l’ultimo a volere una riforma del sistema energetico. Così come l’inesistente raccolta dei rifiuti che l’anno scorso aveva chiamato in piazza un altro movimento cresciuto dal basso, detto “Tu puzzi”. Anche su quello le sette fanno affari.

E qui arriviamo alla cronaca delle proteste, alle manifestazioni e alla cosiddetta “Rivoluzione”; ma è proprio la paura della “rivoluzione” che tiene il paese in stallo…Nulla però sta fermo, soprattutto quando manca il pane…

Le masse in piazza, da Ottobre 2019

A dare retta alla stampa borghese a scatenare la protesta sarebbe stata una tassa su… WhatsApp. In seguito ad una proposta del governo di tassare le chiamate tramite l’applicazione di messaggistica, il 16 Ottobre 2019 manifestanti in tutto il Paese hanno bloccato strade e bruciato copertoni. Dopo tre giorni di proteste, diverse vittime e centinaia di arresti, l’allora premier Saad Hariri, ha dato 72 ore al governo per un piano di riforme che risponda alle esigenze del Paese. Eppure, quando la tassa è stata ritirata, le rivolte sono proseguite – guarda un po’ – sfociando in scontri tra fazioni, con il capo di Hezbollah, Hassan Nasrallah, che ha paventato una guerra civile. Le proteste vanno avanti da più di un anno, con migliaia di arresti e feriti, decine di morti, assalti alla banche e al parlamento (blindato) e blocco delle vie di comunicazione. E’ chiaro che la tassa su WhatsApp rappresenta solo la proverbiale goccia che fa traboccare il vaso di un malcontento ben più radicato: “Non stiamo protestando per WhatsApp, siamo qui per tutto il resto: per il carburante, il cibo, il pane, per tutto” è il grido della piazza a Beirut. Le banche vengono chiuse per mancanza di liquidità. Le università e le scuole di ogni grado sono chiuse per ragioni di sicurezza. I principali assi stradali da e per Beirut sono bloccati. Non ultimo, il fenomeno dell’immondezza selvaggia visibile per ogni dove. La corrente elettrica è razionata e ci si affida ai generatori, la cui produzione è controllata anch’essa da una setta confessionale. Le conseguenze sociali sono gravi per la mancanza di liquidità che impedisce il pagamento dei fornitori di grano, medicine, petrolio ed altri beni di prima necessità. Il costo della vita è aumentato vertiginosamente, mentre i salari sono crollati. La disoccupazione, specie quella di settori giovanili, è cresciuta insieme all’emigrazione dei più istruiti. La piazza chiede… “un cambio di governo ed una classe politica efficiente”. Ma è proprio l’efficienza della classe politica nello scaricare la crisi economica sulla popolazione ad aver portato a questa situazione.

A Tripoli, i manifestanti hanno indirizzato la loro rabbia contro le sedi delle banche, lanciando anche bombe molotov contro i soldati, che hanno risposto con gas lacrimogeni. Le banche sono incolpate, dalla massa, per i problemi finanziari del paese.

“Per i miei diritti” è il nome del movimento che più di tutti ha portato i libanesi nelle strade. Diritti: di nuovo, richieste che nascono da esigenze materiali delle classi lavoratrici s’impantanano in rivendicazioni tipicamente piccolo borghesi. Con un utilizzo come al solito abusato del termine, molti si spingono a  definire la protesta in corso una “rivoluzione”. Sicuramente si tratta di una crisi economica, e sociale, in un’area al centro di una gigantesca destabilizzazione regionale. Di fatto la protesta supera la coscienza che ha di se stessa, supera la banale richiesta di diritti, il movimento a più riprese ha preso d’assalto i ministeri dell’economia, dell’energia e ambiente, nonché la sede del cartello delle banche, alla quale hanno appiccato il fuoco. Nel quartiere a maggioranza cristiana di Achrafieh, un gruppo nutrito di manifestanti – costituito principalmente da veterani dell’esercito – ha occupato il palazzo storico Bustros, sede del ministero degli Esteri, proclamandolo subito come quartier generale dei rivoltosi. Sulla facciata dell’edificio sono stati stesi grandi striscioni rossi raffiguranti il pugno chiuso con le scritte «Beirut capitale della rivoluzione» e «Beirut città disarmata».

Niente pane. Fine della fiducia nelle sette

Fino ad ora, il racconto del profilo economico libanese poteva essere simile a quello di decine di altri paesi di vari continenti. Ora si entra nella specificità locale. Non c’è nel Medio Oriente arabo un luogo dove le libertà individuali siano così rispettate; dove il diritto di critica della stampa sia così scontato. Ma come? Non era un problema di democrazia e libertà?

Le libertà collettive sono invece protette da una specie di “democrazia settaria”, secondo la stessa costituzione imposta dalla democratica Francia: ognuna delle 17 comunità religiose ha una rappresentatività e cariche nelle istituzioni, e quindi nella ricchezza pubblica; e all’interno di ogni comunità (geograficamente più omogenee dopo la guerra civile) la setta provvede a distribuire la sua ricchezza. Il sistema sociale, che a livello nazionale manca, è garantito a livello religioso, sovvenzioni comprese. Ad esempio, Hezbollah costruisce per la sua gente scuole, ospedali, case popolari che lo Stato non avrebbe i mezzi per finanziare. E all’interno Hezbollah è divisa per clan, che controllano porto, aeroporto e settori dell’esercito e dei servizi. Ma questo è valido anche per le altre confessioni, come spesso si dimenticano di dire gli osservatori occidentali.

Molti dei manifestanti in questi giorni in piazza, chiedono uno Stato più moderno e meno settario. Evidentemente i benefici che prima erano garantiti dalle sette non sono più sufficienti. Gli strumenti di rincoglionimento di massa funzionano benissimo… ma solo finché distribuiscono il pane. La strategia del panem et circenses funziona benissimo… finché c’è il pane. Questa sembra proprio la verifica della vecchia e testarda teoria del marxismo rivoluzionario, che tutti pensavano superata!

Ecco da che cosa nasce la mancanza di fiducia attuale. In poco più di un anno, la lira libanese ha perso più dell’80% del suo valore, la svalutazione rispetto al dollaro statunitense ha toccato un nuovo record a marzo 2021. Per un dollaro ora servono più di 13.500 lire, mentre solo 18 mesi fa ne bastavano 1.500. I distributori di benzina hanno cominciato a razionare la vendita di combustibile per timore di rimanere senza scorte a causa dell'assenza di fondi in dollari per acquistare il carburante. Da settimane, la Società elettrica libanese (Edl) raziona ulteriormente la fornitura di energia elettrica per uso domestico a causa dell'assenza di combustibile per alimentare le centrali. E il crollo dell’economia non sembra arrestarsi. “Immaginate – dice a Vatican News padre Michel Abboud, presidente di Caritas Libano – che un salario di 1000 dollari passi dopo un mese a 250 dollari. Un cambiamento radicale che porta alla fame il Libano e questa fame è già cominciata. La gente non riesce a sopportare la crisi e lo si evince dalle richieste di aiuto per cibo e medicine di quanti si rivolgono alla Caritas”.

Gli analisti borghesi più intelligenti hanno colto questa perdita di fiducia nelle sette: una svolta nella società libanese. I manifestanti hanno messo sotto accusa e sotto attacco tutta la classe politica. Questo è uno slogan ricorrente in piazza: “Tutti! E tutti vuol dire tutti”. Chiedono che vadano tutti a casa, senza distinzione religiosa, compresi Hezbollah. Ma era proprio questa fiducia, basata sull’assistenza economica fornita dalle sette, a garantire il controllo sociale. Quando le pance sono vuote, si aprono gli occhi.

La richiesta dei manifestanti, però, come alternativa al sistema precedente, è un “governo di tecnici”. Se fosse mai accolta, borghesia e piccola borghesia di diversa ispirazione e nazionalità comincerebbero a litigare se il premier o il ministro delle Finanze oppure dell’Educazione debba essere cristiano maronita, greco ortodosso, sciita, sunnita o druso. 

Che cosa ha da guadagnare il proletariato libanese, di qualsiasi religione o nazionalità, da tutto questo? E’ proprio speculando sulle legittime aspirazioni di migliori condizioni di vita e di lavoro del proletariato che le diverse fazioni della piccola borghesia e della borghesia libanese combattono una vera e propria guerra, per cercare di perpetuare la propria esistenza parassitaria, a debito. Una guerra che ha avuto anche la sua espressione nella tragica esplosione del 4 Agosto 2020, la più grande esplosione dal 1945 a oggi, seconda solo agli ordigni nucleari:  circa 190 morti e oltre 6mila feriti,  mezza città danneggiata. Come un atto di guerra, gli effetti sono stati quelli di frenare, ma solo temporaneamente, la protesta di piazza ed accelerare i negoziati già in corso con il Fondo monetario internazionale per il programma di aiuti da 11 miliardi di dollari. L’esplosione ha inoltre distrutto le riserve di grano della nazione: all’emergenza economico-sanitaria si è sommata così quella alimentare, visto che il principale silo di grano del paese è stato distrutto dalle esplosioni. Le autorità annunciarono che le riserve sarebbero bastate per un solo mese. L’Agenzia delle Nazioni Unite per l'agricoltura e l'alimentazione, la Fao, ha accolto l’allarme: ”Le scorte sono gravemente danneggiate e temiamo che presto avremo un problema con la disponibilità di farina per il Paese”. Il paese importa circa l’80% dei suoi prodotti alimentari. Subito il presidente francese si è presentato in Libano ad annunciare aiuti… o meglio “organizzare aiuti internazionali” per il Libano. Macron ha spinto anche per l’attuazione di riforme economiche: “Senza – ha detto - il paese continuerà a soffrire”. Come volevasi dimostrare. Guerra, distruzione, pace sociale e altro debito, questo il piano del capitale. Ma le previsioni sulla mancanza di pane si sono avverate e mentre scriviamo (16 marzo) la piazza è di nuovo in agitazione e continuano ad arrivare immagini di assalti al parlamento. La polizia e l’esercito, che nella fase iniziale della protesta non si erano schierati contro i manifestanti, ora stanno usando il pugno duro. Addirittura, accuse di terrorismo e corte marziale per lanciare un monito alla piazza, e si parla addirittura di condanna a morte per i manifestanti più combattivi. Secondo una tendenza alla repressione che si sta registrando in tutte le nazioni nel mondo che sono state teatro di proteste di massa spontanee negli ultimi anni. Tripoli, grande città del nord, tra le più povere del Paese, proprio mentre scriviamo si conferma l’epicentro degli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine, con l’incendio del Comune, centinaia di feriti e almeno due morti.

Il baratro all’orizzonte. Guerra imperialista o guerra civile.

Tutto ci porta a pensare che il Libano sia sull'orlo di una guerra. Circondata dalla Siria, come la Siria terreno di scontro di vari imperialismi. Risente anche dello scontro imperialista tra Occidente ed Iran e della crisi economica in Iran. Il proletariato lotta nelle strade spinto dalla fame, ma in larghi settori fatica a liberarsi da interessi non suoi, pedina di interessi imperialistici... quanto ancora dovrà versare il suo sangue prima di imparare nuovamente a lottare con metodi e obiettivi di classe?

Questa la lezione che dovrà imparare sulla sua pelle nelle lotte attuali e del futuro prossimo.

In tutte le inchieste della stampa occidentale sono messe in evidenza le accuse contro il nepotismo e la corruzione, sistema clientelare diffuso e che diventa sistematico. E si punta l'indice su Hezbollah, uno Stato nello Stato, con un esercito più forte dell'esercito libanese. Ma si dimentica l'influenza del capitale occidentale e di quello siriano (ossia russo e cinese), come di quello dei paesi arabi, Sauditi in primis, ora alleati dell'occidente...

Quello Libanese è un sistema basato sul debito pubblico, sulle importazioni di tutti i beni fondamentali, ossia sul credito concesso da potenze straniere tra loro concorrenti, ognuna con il suo sistema settario, più Stati nei confini dello stesso pseudo Stato, ogni potenza straniera con il suo esercito; vari protettorati settari: sciiti, sunniti, cristiani, laici baathisti. Il che vuol dire: capitale iraniano dei paesi arabi, dei paesi occidentali - Francia e Usa in primis, ma anche Italia - e Siriani (ossia capitale Russo e Cinese), che intervengono anche in armi e con la violenza organizzata, con un vero sistema di gestione clientelare del lavoro, del credito e dello stato sociale: scuola, sanità, università, case popolari, assistenza sociale.

Un fenomeno presente in ogni nazione borghese, ma sempre in misura dei rapporti di forza tra capitale straniero e capitale nazionale, e quindi particolarmente esasperato in Libano, in quanto nazione fortemente dipendente dal capitale straniero, da più di un secolo.

Un paese che quindi convive da anni con forze armate di diverse nazioni sul suo territorio, che ha già conosciuto la guerra e che vive circondato dalla guerra.

Sulla stessa esplosione del 4 agosto, le varie potenze imperialiste si accusano a vicenda, come se tutte vi vedessero un atto di guerra di cui accusano il nemico. Esplosione avvenuta proprio nel periodo di massima tensione sociale, con il proletariato nelle strade e nelle piazze, esasperato e combattivo....

La tendenza è tragicamente evidente. Solo il proletariato potrebbe evitare questo dramma. In definitiva, qui più che altrove pesa sul proletariato la sua incapacità di lottare per i propri interessi, indipendentemente dalle rivendicazioni piccolo borghesi e con una organizzazione autonoma, restando drammaticamente schiacciato da interessi non suoi.

Il partito comunista internazionale ha il compito di stare a fianco del proletariato ed aiutarlo a superare i suoi limiti attuali, ne apprezza ed elogia la combattività, lo spirito di sacrifico e generosità. Come in Tunisia, come in tante altre parti del mondo, davanti alle masse che di nuovo sono costrette a scendere in piazza e lottare, questa combattività non deve andare sprecata.

 

[1] Per chi volesse approfondire, solo alcuni titoli: Il dramma del Libano (Il Programma comunista, n°23, 1975); La cruenta tragicommedia del Libano (Il Programma comunista n°. 12, 1976); La posta del gioco in Libano (Il Programma comunista n° 10, 1981); Interessi imperialistici, lotte nazionali e lotta di classe in Palestina e nel Libano (Il Programma comunista, n°18, 1982); Anche le mani dell'imperialismo italiano sul Libano(Il Programma comunista, n°20, 1982);

Il ginepraio del Libano e la sorte delle masse palestinesi ( Il programma comunista, n°2, 1984);L’islamismo, risposta reazionaria e imperialista dopo la chiusura del miserabile ciclo borghese in Medioriente (Il programma comunista, n° 3, 2015); I venti di guerra che soffiano nell'intero Medioriente proclamano la necessità della preparazione rivoluzionaria ( Il programma comunista, n°1, 2020); Dalla Libia all'Iran, passando per l'Irak, lotte sociali e guerre imperialiste( Il programma comunista, n°1, 2020)

[2] Il dramma del Libano(Il Programma comunista, n°23, 1975)

[3] ibidem

[4] Costituzione ancora valida, nel 2021

[5] ibidem

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