Poiché lo scopo del presente studio non è quello di analizzare i singoli episodi che hanno caratterizzato le drammatiche vicende della lotta di classe nell’ultimo secolo, bensì quello di mostrare sinteticamente la dinamica del fenomeno che chiamiamo “stalinismo”, per riproporre a compagni e a lettori l’esigenza primaria dello studio della peggiore degenerazione subita dal movimento rivoluzionario nella sua storia recente, nelle due puntate precedenti abbiamo seguito in modo necessariamente conciso alcuni dei momenti preparatori della controrivoluzione. Non si tratta affatto di un “lusso” puramente storiografico ed accademico, ma di un aspetto teorico e pratico: come per la rivoluzione non è sufficiente – e gli avvenimenti di tutto il recente passato sono lì a dimostrarlo – uno stato di crisi generale e di miseria delle masse proletarie, ma è indispensabile la presenza di una organizzazione salda e compatta (il partito) che, a stretto contatto con queste, ne indirizzi le lotte, esitanti e facilmente preda di ideologie nemiche, nella direzione giusta, rivoluzionaria; così per la controrivoluzione è indispensabile l’eliminazione fisica di quel partito, mediante l’uso della galera e dell’esecuzione sommaria. Ciò è generalmente preceduto da un periodo, più o meno breve, in cui l’ideologia nemica si inocula nelle fila delle or ganizzazioni rivoluzionarie allo scopo di staccare le masse dal partito e di rendere così impossibile, in quest’ultimo, quella fermezza nella strategia e nella tattica che, sole, possono condurre alla vittoria. Abbiamo perciò ripercorso alcuni dei momenti più drammatici che, dal progressivo ripiegamento su se stessa della Russia rivoluzionaria dei primi anni Venti, hanno condotto alla catastrofe in Germania nel 1923 e poi, in un rapido crescendo, all’aperto abbandono di ogni strategia rivoluzionaria in Inghilterra (1926) e in Cina (1926-27). Rimane da esaminare per quali vie a tanto si giunse, e quali furono i tentativi di opporsi a questo piano inclinato a livello internazionale. I lettori interessati potranno approfondire le questioni trattate nella presente puntata in moltissimi testi del nostro partito: in particolare, Communisme et fascisme (Editions Programme Communiste, 1970); Storia della Sinistra comunista, vol. IV (Edizioni il programma comunista, 1977); “La Russia nella grande rivoluzione e nella società contemporanea”, in Russia e rivoluzione nella teoria marxista (Edizioni il programma comunista, 1990); Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (Edizioni il programma comunista, 1976).

10. La battaglia della Sinistra: fascismo e antifascismo

 

La nascita del Partito nazionale fascista, all’inizio del novembre 1921, fu accolta dal proletariato romano con un grande sciopero generale di quasi una settimana e dal Partito comunista con una serie di articoli che ne mettevano in luce con assoluto rigore marxista da una parte l’assoluta povertà programmatica e la confusa ideologia, dall’altra la sua capacità organizzativa e militare. L’analisi tendeva a dimostrare come la guerra mondiale prima, le grandi lotte operaie poi, avessero fatto giustizia della dottrina liberale dello stato borghese, secondo la quale lo stato è “di tutti” e garantisce a tutti “uguaglianza di diritti”: il nemico dello stato liberale era considerato perciò un criminale violatore del contratto sociale. Per astratta che fosse, questa ideologia era gridata ai quattro venti dai suoi cultori, anche se poi non c’era esitazione a sparare sugli oppositori. Ma con la nuova fase aperta dalla nascita dell’imperialismo capitalistico, apparivano in luce meridiana gli interessi del capitalismo nazionale, cui tutte le classi devono essere assoggettate. Lo stato borghese era lo strumento già pronto che sarebbe servito per intervenire a livello di organizzazione politica, economica, militare, nel modo più violento e repressivo possibile. La trasformazione dello stato liberale in stato fascista non era dunque una “rivoluzione”, e neppure una “reazione”. Non era una rivoluzione, perché non modificava né la struttura economica né quella del potere di classe, che sarebbero rimasti interamente dominati dalla dittatura del capitale sul lavoro salariato e della borghesia sul proletariato. Non era una reazione, perché non era in alcun modo l’espressione di una classe preborghese. Su questa base, la posizione teorica del PCd’I era nettamente scolpita: l’opposizione rivoluzionaria a qualsiasi forma di stato borghese – liberale, democratico o fascista – non poteva portare a nessun tentennamento di fronte alle sirene socialdemocratiche, sempre pronte a venire a patti con il nemico (se possibile, anche col nemico fascista, almeno finché questo fosse d’accordo: e infatti i campioni del riformismo socialista – Bacci e Morgari in testa – correranno a sottoscrivere il “patto di pacificazione” assieme a Mussolini fin dall’agosto 1921, dopo mesi di violenze e massacri antioperai). Il bagno di sangue proletario in cui si era appena battezzata la neonata repubblica di Weimar in Germania – officianti i socialdemocratici tedeschi, ma benedetto da quelli di tutto il mondo borghese – non aveva bisogno di altre conferme: così come in Italia il fascismo sarebbe fiorito dalle radici del liberalismo giolittiano, così in Germania la sua versione nazionalsocialista si sarebbe alimentata nella serie di governi di “larghe coalizioni”, cui vani “governi operai” non avrebbero saputo opporre che tutta la debolezza della propria confusione teorica, calata conseguentemente nella “pratica” e, come già s’è visto, nella sconfitta. Essere contrari ad alleanze contro “nemici comuni” non era perciò un lusso teorico della Sinistra comunista. Era l’assoluta necessità di non abbandonare al nemico armi e bagagli in nome di una difesa di presunte libertà democratiche che, al contrario, andavano distrutte assieme a tutto il sistema economico e sociale entro cui germogliavano. Se questa politica avesse trovato in minoranza il partito, la sua posizione intransigente sarebbe tuttavia rimasta come unica via da percorrere, ben visibile a un proletariato che, sconfitto oggi, avrebbe fatto risentire la propria voce domani. Ciò che ancora nel 1921 appariva come una formula corretta (fronte unico proletario), anche se da maneggiare con cautela, diventava un anno dopo argomento di battaglia aperta tra la Sinistra comunista e l’Internazionale: di fronte all’incalzare degli insuccessi (diceva quest’ultima, ben appoggiata dal partito tedesco), si doveva maneggiare la tattica in modo tale da salvare la forza di un’area di sinistra, cui tutti erano benvenuti. Il fascismo non era l’espressione della controrivoluzione, ma l’espressione psicologica del malcontento della piccola borghesia stritolata dalla crisi economica generale. Era questa classe, dicevano i vertici dell’Internazionale, che doveva essere portata a un’alleanza col proletariato; e se l’espressione politica delle mezzeclassi era rappresentata da partiti socialisti, con questi si sarebbe dovuti giungere a una unità di azione antifascista, con la formazione di “governi operai” formati da socialdemocratici, con l’appoggio esterno (e qui, forse, i vertici dell’Internazionale avevano ancora un sussulto di vergogna!) dei comunisti. Come si vede, dall’analisi errata dei rapporti tra le classi nel dato momento storico, del sorgere e del significato del fascismo, si giunge fatalmente a una catastrofica conclusione tattica, destinata a spingere l’intero movimento sul piano inclinato dell’interclassismo. La conclusione di questo processo la ritroveremo, una decina d’anni più tardi, inesorabilmente, nella costruzione dei “fronti popolari”: dalla lotta di classe alla lotta in difesa dello stato nazionale borghese, la quintessenza dello stalinismo vincitore.

 

11. La bolscevizzazione

 

Come si è già detto, la contrapposizione tra la Sinistra e l’Internazionale nacque soprattutto sul fatto che la prima non voleva permettere che le questioni tattiche “locali”, cioè nazionali, fossero affrontate e risolte nel senso federativo (“ciascuno per sé”), che non solo era quanto aveva portato al fallimento della II Internazionale e alla sua adesione alle difese nazionali nella guerra mondiale, ma era quanto di più lontano fosse dalle necessità rivoluzionarie, che richiedevano centralizzazione organizzativa e chiarificazione su tutti gli aspetti dell’azione, in stretta aderenza con i principi del marxismo. Sbandamenti ed errori in quel campo, fu sottolineato di continuo, avrebbero provocato in primo luogo il risorgere di localismi e frazionismi, e alla lunga l’impossibilità di far fronte in modo corretto alle crescenti difficoltà che la controrivoluzione stava preparando su scala mondiale. Era un problema di tattica il tentativo di non perdere il contatto con le masse: ma la politica del “fronte unico”, invece di rivolgersi alle masse operaie, cercò di coinvolgere partiti non comunisti, e quindi non rivoluzionari, e finì col generare la politica del “governo operaio” – una tattica completamente sbagliata che ebbe l’effetto di disarmare ciò che restava dei partiti comunisti europei, reintroducendo nei fatti (a parole i vertici dell’Internazionale non vollero ammetterlo) la formazione di blocchi socialcomunisti, ai quali si spalancassero le porte di questo o di quel parlamento. Voleva essere la soluzione dello stesso problema tattico

– stringere più forti legami con la classe – ciò che l’Internazionale impose da Mosca alle sezioni nazionali col nome di “bolscevizzazione”, pallida simulazione del tipo di organizzazione del partito bolscevico prerivoluzionario. In sostanza, partiti che fino ad allora si erano dati un’organizzazione fondata su basi territoriali dovevano, secondo le nuove direttive del 1925, riplasmarsi sull’organizzazione per cellule di fabbrica. Ciò significava dunque mettere in discussione tutta la vita interna dei partiti, sia riguardo all’organizzazione di base, sia al modo in cui le direttive politiche emanate dagli organi centrali del partito avrebbero potuto e dovuto essere discusse alla periferia. Non entreremo ora nell’analisi di dettaglio delle ragioni per cui la Sinistra si oppose a una organizzazione del cellule di fabbrica, se non per ricordare che un partito autenticamente comunista deve superare ogni limite imposto dall’organizzazione del lavoro capitalistico (entro tali limiti si muovono le organizzazioni economiche per rivendicazioni immediate e di carattere settoriale, ciò che tra l’altro costituisce il loro limite intrinsecamente insuperabile per giungere a una visione realmente rivoluzionaria) e che la sua azione deve svilupparsi in tutti i settori della società a prescindere dalla divisione sociale del lavoro. Ma con la “bolscevizzazione” la ormai deragliante Internazionale volle imporre alle direzioni comuniste locali un metodo ben più pericoloso, che si sviluppa già in piena sintonia con lo stalinismo trionfante e che la Sinistra seppe individuare immediatamente: la nuova forma di organizzazione si esplicitava in una “onnipotente rete dei funzionari, selezionati col criterio dell’ossequio cieco ad un ricettario che vorrebbe essere il leninismo; in un metodo tattico e politico che si illude di realizzare il massimo di rispondenza esecutiva alle disposizioni più inattese, e in una impostazione storica dell’azione comunista mondiale in cui l’ultima parola debba sempre trovarsi nei precedenti del partito russo interpretati da un gruppo privilegiato di compagni” [1]. In questo modo, la direzione di sinistra del PCd’I – i cui dirigenti erano in carcere – fu sostituita con un nuovo centro; allo stesso modo e nello stesso anno (1923), in Sassonia, la tattica di lotta fu fissata dagli organi centrali dell’Internazionale, solo per addossarne poi la colpa, a sconfitta consumata, al centro tedesco.

 

12. Tortuosi percorsi nella politica dell’Internazionale

 

Le oscillazioni a 180° sul piano tattico furono, d’altronde, una costante della politica dell’Internazionale in quel decennio drammatico, apertosi con la marea montante dei moti rivoluzionari in Ungheria, Germania e Italia e conclusosi con la pratica delle espulsioni, dei processi interni ai partiti, delle sostituzioni di “sinistre” con “destre” e viceversa, quando più sembrava conveniente per ragioni tattiche. Da alcune sezioni dell’Internazionale, al suo III Congresso del 1921 (tra queste, la delegazione italiana per bocca di Terracini, che rappresentò le posizioni della Sinistra in modo assolutamente erroneo), fu prima proclamata la “teoria dell’offensiva”, che invitava i partiti comunisti, da poco formatisi in Europa, a spingere a fondo il processo rivoluzionario, formulando il principio dell’azione violenta diretta e frontale. Di questa posizione realmente infantile (contro cui giustamente si oppose Lenin nel corso dei dibattiti di quel Congresso, così come si oppose la stessa direzione del PCd’I nelle sue “Tesi di Roma” del 1922), l’Internazionale stessa si appropriò solo un paio di anni dopo, come si è visto, nella questione tedesca. La Sinistra comunista proseguì la lotta contro questa deviazione infantile “di sinistra” da sola dopo la morte di Lenin, nel 1924 e nel 1926, così come aveva fatto nel 1922, sulla base del fatto che, se la “teoria dell’offensiva” doveva servire a “conquistare le masse” o a mantenere al partito in esse una qualche maggioranza, allora questa politica introduceva un’ulteriore storpiatura in senso democratico nell’azione rivoluzionaria, che sarebbe andata affiancandosi a quella (poi vincitrice) dei fronti unici e delle alleanze con la socialdemocrazia. In quel frangente, noi sviluppammo la previsione che “se la situazione oggettivamente diviene non più rivoluzionaria il partito deve accettare di divenire meno influente e meno numeroso, pur di non snaturarsi” [2]. Era proprio contro il pericolo che nell’Internazionale si cercassero delle soluzioni tattiche per ovviare a deficienze sul piano della compattezza teorica, che la Sinistra lottò incessantemente, in posizione via via più minoritaria ma sempre in aderenza ai principi marxisti, per la difesa del patrimonio rivoluzionario, e non ad essa apparteneva l’idea che, appena fatto, il partito si sarebbe lanciato armi in mano per la lotta aperta e per la conquista del potere. Come scrivemmo in seguito, “Della frase del fare la rivoluzione non abbiamo stima maggiore che della frase di costruire il socialismo […].

Il socialismo non si costruisce, la rivoluzione non si fa, il partito non si fonda, ma tutti questi processi della storia determinante si difendono contro le insidie inesauribili del mondo capitalista, e il rivoluzionario vero è quello che esprime la sensibilità proletaria contro le insidie peggiori. Distingue la sinistra la certezza che la peggiore insidia non è (nei tempi) il prete, il barone, il fascista, il monopolista, o chi diavolo inventano, ma la democrazia pacifista e piccolo borghese” [3]. Allo stesso modo si dovrebbe dire che anche la questione, così a lungo controversa nelle massime assise dell’Internazionale, della “conquista delle masse” da parte del partito, era evidentemente mal posta, non essendo esse un “oggetto di conquista”: sarebbe meglio dire piuttosto che le masse, nel corso del dramma storico, si spostano a destra o a sinistra sotto l’incalzare di diversi e contraddittori processi, per la facilità con cui sono penetrate dall’ideologia dominante, dalle lusinghe del riformismo sociale, dai condizionamenti della vita materiale e delle crisi, e possono infine cadere, in parte più o meno pronunciata, sotto l’influenza delle parole d’ordine del partito, almeno nella misura in cui questo ha saputo individuare e precisare con chiarezza il percorso storico della rivoluzione ed ha potuto operare cercando di difendere, con le unghie e con i denti, il contatto con la classe stessa. Non passarono cinque anni da questi primi zigzag che, nel 1928, l’Internazionale, gettando a mare tutte le critiche di cui si era servita, con il pieno appoggio della nuova direzione gramsciana nel PCd’I schierata contro la Sinistra, lanciò su masse completamente disorientate la parola d’ordine del “socialfascismo”. I tempi erano cambiati, ed ormai in Russia lo stalinismo aveva preso il sopravvento su ogni forma di opposizione al regime: ma, come si vede, l’incoerenza tattica era quella ereditata dagli anni precedenti. Si volle dunque sostenere la necessità di lottare tanto i fascisti quanto i socialisti democratici, in quanto espressioni di forme diverse di potere di classe borghese, tra cui i comunisti non avevano da fare alcuna scelta. Mentre in Germania la direzione staliniana nulla faceva in realtà per lottare contro il fascismo montante, Trotsky appoggiò vigorosamente e nuovamente la formula del blocco antinazista, restando coerentemente fermo sulle precedenti posizioni delle alleanze antifasciste in Italia. Altrettanto fermamente, la Sinistra ribadì la necessità di non cedere di fronte alle lusinghe dei fronti unici, prevedendo in anticipo sui tempi che anche lo sbandamento “a sinistra” dello stalinismo avrebbe inevitabilmente concluso la propria corsa nei blocchi nazionali e nei fronti popolari, sinistri precursori delle rinnovate sante alleanze con le “proprie” borghesie in difesa dei “propri” sacri confini nella nuova guerra mondiale.

 

13. Il socialismo in un solo paese

 

Le esitazioni che caratterizzarono anche i migliori anni dell’Internazionale non erano frutto del caso. Se si leggono i rapporti dei primi Congressi, si osserva come non passi anno in cui non sorga una particolare “questione” locale: quella italiana, quella tedesca, quella russa, quella coloniale, ecc. Per quale ragione, già dopo due anni dalla sua formazione, si presenta tutta una serie di problemi legati a questa o quella sezione nazionale? I comunisti di allora erano perfettamente consapevoli delle ragioni della fragilità della Seconda Internazionale, delle sue carenze sul piano tatticoorganizzativo, delle sue spiccate proprietà federative, delle sue tendenze autonomistiche a livello locale: aspetti che ne determineranno la fine ingloriosa, con la corresponsabilità al macello mondiale che iniziava nell’agost1914. È grande merito dei comunisti di quegli anni di aver cercato una soluzione organizzativa centralizzata mondiale che non ripetesse gli errori precedenti. Se non fu possibile ottenere quella auspicata saldezza che tutti allora speravano, ciò si deve in un certo senso alla fretta con cui si attuò in molti casi la separazione dai tronconi democratici che erano radicati nei vecchi partiti socialisti – una fretta che non permise quel processo di progressiva, dura chiarificazione nei programmi del partito

che era stato invece possibile all’interno del partito socialdemocratico russo prima, e bolscevico poi. Fu questa fretta a impedire il formarsi di una vera unità organizzativa, e ciò si risolse, con il rapido esaurirsi delle spinte rivoluzionarie in Europa, nel concentrare le forze direttive dell’intero movimento in Russia, che appariva ancora, dopo l’esito drammatico del fallimento tedesco del 1923, come il luogo da cui si poteva ripartire per l’assalto finale alle borghesie mondiali. Abbiamo già visto [4] come la Russia vivesse in quegli anni un momento di gravissima crisi interna, politica ed economica. Alle difficoltà economiche cercò di rispondere la NEP, suscitando tuttavia una serie di nuovi problemi relativamente alla “forbice” che si apriva tra la produzione agricola e quella industriale. Alle difficoltà politiche corrispose da quel momento una cristallizzazione di posizioni che presto divennero antagoniste, dando luogo a schieramenti contrapposti: dalla cosiddetta “opposizione operaia” reclamante maggiore democrazia nel partito, alla “sinistra” di Trotsky, cui più tardi si aggrapparono Zinoviev e Kamenev, dalla “destra” di Bucharin a un “centro” mal definibile per il fatto che era privo di una politica chiaramente espressa. In un tale contesto, il rimettere a Mosca l’incarico di prendere decisioni di ordine strategico internazionale significò, da parte dei partiti europei, caricarla di una responsabilità che più non le spettava: “la piramide andava rovesciata”, come non mancò di richiedere con urgenza la Sinistra nel V Congresso dell’Internazionale, nel senso che l’enorme aiuto che la Russia aveva dato fino ad allora al movimento internazionale nel quadro del processo di chiarificazione dei programmi comunisti, ora le andava restituito da parte dei partiti europei, facendosi carico essi stessi dei nuovi insidiosi pericoli che la minacciavano all’interno.

Tali pericoli erano contenuti nell’enorme squilibrio tra un proletariato cittadino e industriale in grande difficoltà a causa del collasso dell’industria, conseguente alla guerra mondiale e alla guerra civile, e un’immensa massa contadina che, alleata per il breve tempo della conquista del potere, si trasformava rapidamente e necessariamente in nemico. È in questo contesto “locale” che lo stalinismo si enuclea per la prima volta e in modo chiaro come dottrina controrivoluzionaria. Alla tesi da sempre sostenuta dai comunisti, e cioè che nessun socialismo sarebbe stato possibile nella Russia accerchiata e arretrata senza l’apporto decisivo della rivoluzione proletaria in Occidente, esso sostituì quella di una Russia saldamente in mano al partito comunista, e pronta ad affrontare un processo di superindustrializzazione che avrebbe dimostrato, attraverso i ferrei piani quinquennali, la superiorità di questa economia rispetto a quella occidentale: il “comunismo” stalinista avrebbe vinto la sfida col capitalismo imperialista a colpi di tassi di incremento produttivo. Fu nel corso della riunione del VI Comitato Esecutivo Allargato dell’Internazionale, nel febbraio 1926, che lo scontro della Sinistra comunista con Stalin portò alla luce con estrema chiarezza il fatto che si era giunti ormai, sulla questione dei rapporti RussiaInternazionalerivoluzione mondiale, a un punto di non ritorno. Nel corso di una seduta [5], Stalin avanzò una serie di posizioni non marxiste che caratterizzeranno tutto il corso della controrivoluzione che da lui prende il nome: 1) che chi ha il potere può orientare lo sviluppo o in senso socialista o in senso capitalista (un’autentica bestialità in termini marxisti!); 2) che lo sviluppo dell’economia russa e lo sviluppo della rivoluzione in Europa sarebbero coincisi (ciò che non aveva alcun senso, se non come giustificazione della nuova dottrina del “socialismo in un solo paese”); 3) che delle “questioni russe” si doveva occupare solo il partito russo, per la strana ragione che “i Partiti occidentali non sono ancora preparati a discutere di esse” (il che suonò come sinistra conferma del fatto che, da quel momento, l’unità rivoluzionaria internazionale era definitivamente spazzata via dai superiori interessi dello Stato e dell’economia russi). Ma tutto ciò che avvenne non era inevitabile: il corso della storia non doveva essere necessariamente quello che fu, con la tragedia che si abbatté sul corso della rivoluzione internazionale. Con la presa del potere da parte del partito comunista in Russia, erano aperte due strade: “la degenerazione interna dell’apparato di potere (Stato e partito) che si adattava ad amministrare forme capitalistiche dichiarando di abbandonare l’attesa della rivoluzione mondiale (come è stato), ed una lunga permanenza al potere del partito marxista, direttamente impegnato a sostenere la lotta proletaria rivoluzionaria in tutti i paesi esteri, e che, con il coraggio che ebbe Lenin, dichiarasse che le forme sociali interne restavano largamente capitaliste (e precapitaliste)” [6]. Ciò che divenne inevitabile fu, a partire dall’abbandono della bandiera dell’internazionalismo da parte dei partiti ormai stalinizzati, la bancarotta di tutto il movimento, l’estirpazione violenta e il massacro di chi cercò di resistere, la trasformazione della lotta contro ogni borghesia capitalistica in lotta a favore di una Russia avviata sulla strada dei forsennati ritmi di accumulazione capitalistica che essa avrebbe vergognosamente spacciato per “comunismo”.

 

 

 Le puntate precedenti sono state pubblicate sui nn. ... di questo giornale

 

 

 

Note


1. “Il pericolo opportunista e l’Internazionale”, Lo Stato Operaio, luglio 1925 (ora in Il programma comunista, n.11/1958). [back]

2.      “Insegnamenti del passato, fremiti del presente, prospettive del futuro nella linea continua ed unica della lotta comunista mondiale”, il programma comunista, n.6/1961 [back]

3.      “La verifica marxista della odierna decomposizione del capitale nell’occidente classico come nella degenerante struttura russa. Guerra spietata dal 1914 al 1961 all’enfiantesi bubbone opportunista”, il programma comunista, n.11/1961. [back]

4.       Cfr. la seconda puntata di questa serie, comparsa sul numero scorso (n.6/2008) de Il programma comunista, e in particolare il paragrafo 7: “La questione russa”. [back]

5.      Si veda il verbale della delegazione italiana, riportato in G. Berti, Appunti e ricordi. 19161926, Annali Feltrinelli 1966. [back]

     6. “7 novembre ’17 – 7 novembre ’57. Quarant’anni di una organica valutazione degli eventi di Russia nel drammatico svolgimento sociale e       storico internazionale”, Il programma comunista , n. 21/1957, ora in Russia e rivoluzione nella teoria marxista, Edizioni Il programma comunista, 1990, p. 215. Per la posizione di Lenin, cfr. lo scritto “Sull’imposta in natura”, in Opere, vol.XXXII, pp.310311. [back]

 

 

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°01 - 2009)

 

 

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