Riprendendo il filo del discorso

Era il 2011, quando proprio dalla Tunisia prese avvio il movimento delle cosiddette “primavere arabe”. Su questo argomento abbiamo già scritto più volte sul nostro giornale[1]. Ricorre quest’anno il decimo anniversario di quegli eventi,  eppure le cause economiche e gli effetti sociali di quella crisi sono ancora drammaticamente presenti.

Come abbiamo analizzato nei nostri lavori precedenti, nonostante la propaganda borghese abbia presentato le “primavere arabe” come manifestazioni di carattere ideologico, aventi come obiettivo una maggiore democrazia e richieste di libertà civili, sono scaturite dal sottosuolo economico e sociale, dall’inasprirsi delle condizioni di vita e di lavoro delle masse proletarie. Vere e proprie rivolte per il pane, conseguenza dell’aumento dei generi alimentari in un contesto di povertà assoluta e disoccupazione drammatica. Abbiamo poi sottolineato come gli episodi di maggiore intensità delle lotte sian coincisi con scioperi spontanei che hanno cercato di organizzarsi in opposizione ai sindacati di regime.

La deriva democratica di tutte queste esperienze di lotta evidenzia però che si mantiene purtroppo ancora una egemonia della piccola borghesia sul proletariato, egemonia organizzativa ed ideologica che ha la sua base materiale in una posizione di relativa forza economica e sociale delle mezze classi.

 

Una rivolta mai sopita 

In Tunisia il malcontento che è emerso nelle proteste della primavera araba del 2011 non si è mai sopito e ha causato negli anni numerose esplosioni di esasperazione, uno scatenarsi di tempeste, come un fenomeno periodico dell’accumularsi di tensioni, nello scontro tra correnti, ciclone e anticiclone, o come ondate di un mare in tempesta[2]  – nel 2014, 2016, 2017, 2018, 2019 e 2020. Fino agli episodi ultimi, le giornate di rivolta a metà Gennaio 2021

Ricordiamo ad esempio, a marzo 2014, la rivolta dei minatori a Gafsa, una regione a circa 350 km a Sud di Tunisi, dove si trovano le miniere di fosfato, la principale fonte di reddito dei residenti della regione. Un domino di insoddisfazione e proteste ha portato alle violenze nelle strade: commissariato in fiamme, il tribunale e la sede del maggiore partito presi d’assalto, la polizia incapace di arginare i manifestanti. Anche a Metlaoui, nella Tunisia centrale, i minatori in rivolta hanno messo a dura prova la capacità del governo di mantenere l’ordine.

Nel Gennaio 2016, un altro episodio: esplode la rivolta del Kasserine, morto un poliziotto. Libertà, dignità, lavoro: sono queste le parole urlate dai manifestanti di quella regione, una delle più povere del paese. La protesta si diffonde in tutta la nazione, allargandosi a macchia d'olio.

Agli inizi del 2017, nuovi episodi di lotta e scioperi. Per mesi, soprattutto nel sud del Paese, si susseguono grandi manifestazioni. I disoccupati sono scesi in strada, bloccando le principali vie di comunicazione verso i siti petroliferi e le sedi delle compagnie straniere (tra cui l'italiana Eni), mentre gli operai hanno scioperato fermando la produzione. Di qui la dura reazione del governo che ha inviato alcuni reparti dell'esercito per sedare la protesta. Nella città di Tataouine i manifestanti, allontanati con l'uso di lacrimogeni dalle zone degli impianti, hanno organizzato blocchi stradali e barricate di copertoni in fiamme; pesanti scontri con le forze di sicurezza hanno causato diversi feriti, è stato incendiato il distretto della Guardia nazionale e una stazione di polizia.

Nel Gennaio 2018, si registrano tre giorni di scontri e manifestazioni spontanee.  Scontri tra giovani manifestanti e forze di sicurezza in molte località del paese: Beja, Testour, Sfax, Meknassi, Sidi Bouzid, Ben Arous, Kebili, Nefza, dove è stata data alle fiamme una caserma della polizia ed espropriato un deposito comunale.

A Gennaio 2019, trasporti, scuole e amministrazioni sono stati paralizzati da un massiccio sciopero generale del settore del servizio pubblico (ministeri, enti centrali e locali, sanità, imprese di trasporto pubblico, ferrovie, tv, radio statali, scuole, università). Nonostante il governo abbia emesso un decreto coercitivo per garantire i servizi minimi essenziali, in tutto il paese le scuole e le università sono rimaste chiuse, i trasporti pubblici bloccati e l'aeroporto di Tunisi inattivo. I lavoratori hanno scioperato per chiedere l'aumento dei salari. Dalle piazze si sono alzati slogan contro il Fondo Monetario Internazionale e il governo, ritenuti responsabili della miseria e della disoccupazione dilaganti, ma anche contro il leader del partito islamico.

Nel Giugno del 2020 si arriva addirittura a schierare l'esercito contro i disoccupati, che si dicono traditi dal governo. Le proteste si svolgono a Tatatouine, una tra le regioni più povere a sud del paese. Per tre anni i disoccupati hanno atteso il mantenimento delle promessa  del governo sulla creazione di posti di lavoro, il cosiddetto accordo di el Kamour. L'intesa firmata nel Giugno 2017, con l'intermediazione dell'Ugtt, il principale sindacato, prevedeva misure eccezionali a favore dell'occupazione giovanile della regione con l'assunzione di oltre 4000 persone, in un arco di tempo di più anni, secondo un calendario prefissato, nelle società petrolifere. Col tempo la delusione per le promesse disattese si trasforma in rabbia: duri scontri tra manifestanti e polizia e sciopero generale, con il quale si chiedono anche aumenti salariali. Nei violenti scontri tra i manifestanti e le forze di polizia, questi ultimi hanno sparato gas lacrimogeni per disperdere le proteste degli aderenti allo sciopero generale. Decine gli arresti con i manifestanti che hanno risposto con lancio di pietre, blocchi stradali e l'assalto con molotov a una stazione di polizia.

Dalla seconda metà del 2020 nelle zone di Gafsa, Sidi Bouzid, Kasserine, Tataouine – lontano dai riflettori della capitale – numerosi sit-in tentano da inizio dicembre di attirare l’attenzione dei palazzi di Tunisi su disoccupazione e salari. Davanti alla crescita delle proteste e al loro allargarsi in tutto il paese, governo e sindacati si trovano d’accordo nel replicare l’approccio adottato per risolvere la crisi di El Kamour, in tutte le altre regioni tunisine. I progetti sulla carta si scontrano però con tutte le difficoltà pratiche di attuazione, spingendo i proletari a reagire.

Sulla scia di quanto accaduto a Tataouine, i manifestanti di Al-Dulab hanno preso d’assalto la sede di una compagnia petrolifera nel governatorato di Kasserine, per bloccare la produzione, annunciando che le loro proteste sarebbero continuate fino a quando non avrebbero avuto garanzie da Tunisi in materia di sviluppo e posti di lavoro.

 

Le cause materiali della rivolta

La Tunisia è uno dei pochi paesi del Nord Africa a non avere una autonomia energetica: la sua economia è prevalentemente basata sul terziario, che partecipa per il 65% alla formazione del PIL. L’industria è poco sviluppata e dipendente dagli investimenti del capitale estero, soprattutto nel settore tessile. L’agricoltura è basata sulla monocoltura dell’olivo. All’interno di questo quadro generale, i dati macroeconomici più recenti mostrano la peggiore recessione dal 1956, anno dell’indipendenza. Il crollo del turismo e delle trivellazioni ha portato la disoccupazione e l’emigrazione a livelli drammatici.

Specialmente nelle regioni dell’entroterra e del sud del Paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 35%, la crisi sanitaria ha contribuito a peggiorare condizioni di vita già estremamente precarie. Il salario minimo è di circa 130 dollari al mese.  Il Pil mostra la recessione, un  calo del 4,3% nel 2020. I giovani fuggono in Europa. Li chiamano “la gioventù che brucia”, intendendo sia la loro crescente combattività e stato di agitazione, sia il fatto che sia una generazione bruciata, senza futuro. Secondo l’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), si stima che approssimativamente 95.000 persone abbiano lasciato la Tunisia dal 2011 a oggi, l’84% delle quali con un alto livello di educazione. I migranti verso l’Italia, che salpano coi barconi da Sfax, da Zarzis o da Mahdia, sono un termometro della crisi: 5.200 nel 2018, 2.654 nel 2019, più di 13mila nel 2020.

Dal 2011 si sono succeduti 12 governi. La disoccupazione nel paese continua a essere alta (15,35%), soprattutto tra i più giovani (34,81%,), mentre la crescita economica, attestatasi all’1,5% nel 2019, non ha tenuto il passo con l’inflazione, calcolata al 7% per lo scorso anno. Anche il divario tra lo sviluppo delle aree costiere e dell’interno del paese è motivo di tensione. Il tasso di povertà nelle aeree interne del paese ha ormai raggiunto livelli allarmanti. In città come Kasserine, Qairouan e Sidi Bouzid, la città da cui partirono le proteste del 2011, oltre il 30% della popolazione vive in povertà.

Per far fronte alla debole crescita economica del paese, i governi succedutisi a partire dal 2011 hanno fatto affidamento su una maggiore spesa pubblica, la quale ha contribuito a far lievitare il debito pubblico, dal 40% del Pil nel 2010 al 73% nel 2019, fino al 90% nel 2020.

Secondo un recente studio dell’Istituto arabo dei dirigenti d’impresa (Iace), l’81% delle compagnie tunisine soffrirà le conseguenze della crisi coronavirus. Il volume di affari calerà in media del 53% per le industrie, del 46,7% per l’edilizia, del 62% per le compagnie commerciali, del 47% per i servizi alle imprese e del 70% per i servizi alla persona. Il tasso di occupazione della forza lavoro è di circa il 46%, questo significa che il settore informale (lavoro nero) è stimato a circa la metà dell’economia tunisina. La popolazione è stremata dal carovita, ovviamente, con un tasso di inflazione galoppante, alimentato dal drammatico deprezzamento del dinaro degli ultimi anni, fortemente promosso dal Fondo Monetario Internazionale nel quadro del suo programma di sostegno finanziario (Extended Fund Facility, 3 miliardi di euro in 4 anni). Secondo altri studi i settori produttivi più colpiti dalla crisi sono l’industria non manifatturiera (-29% del fatturato), il turismo (-23%), i trasporti (-19,6%) e il comparto tessile (-17,7%). Anche l’economia informale (lavoro nero), che secondo alcune fonti occupa il 40% del Pil del paese, e secondo altre fonti occupa circa il 32% della forza lavoro tunisina, ha subito una forte battuta d’arresto, con un calo del 60% delle attività nelle fasi più acute della crisi.

Secondo le stime il tasso di disoccupazione passerà dal 15% attuale al 21,6%, con un conseguente aumento dei tassi di povertà monetaria, che crescerà dal 15,2% al 19,2%. Secondo l’Unicef il tasso di povertà infantile in seguito al lockdown è passato dal 19% al 25%, per un totale di 900.000 minori al di sotto della soglia di povertà.

Durante il lockdown un terzo delle famiglie ha dichiarato di aver dovuto ridurre la qualità e la quantità di alimenti consumati.

A causa del deterioramento delle finanze pubbliche del paese, nel mese di Luglio il governo tunisino ha chiesto a quattro paesi – Italia, Francia, Arabia Saudita e Qatar – di posticipare il rimborso di debiti precedentemente contratti.

Questa situazione di prolungata difficoltà ha spinto i proletari tunisini a manifestare un sempre più diffuso senso di disillusione nei confronti del sistema economico del proprio paese, una sofferenza covata per anni che prima o poi esplode. Ciò che maggiormente spaventa la popolazione tunisina è la riduzione dei sussidi e un crescente aumento dei prezzi.

I pochi dati economici riportati dimostrano tutta l’inconsistenza e la malafede della interpretazione piccolo borghese delle “primavere arabe”, capace solo di reclamare riforme di tipo sovrastrutturale degli assetti politici. Una qualsiasi riforma politica non sarà mai in grado di modificare la base economica e risolvere le crescenti contraddizioni economiche e sociali.

 

Le proteste recenti

Secondo l’ultimo rapporto sui movimenti sociali del Forum tunisino per i diritti economici e sociali, le proteste a giugno 2020 erano raddoppiate rispetto all’anno precedente: e, negli ultimi tre mesi, s’è avuto un migliaio di manifestazioni di protesta. I disordini di metà Gennaio 2021 sono la naturale conseguenza di una crisi economica cronica e le conseguenti tensioni sociali, che si trascinano da anni, acuite dalle restrizioni per il virus, stanno investendo un po’ tutta l’Africa e il medio Oriente.

E’ evidente come sia stata la paura della epidemia sociale, più della paura della pandemia di Covid, a indurre il governo a cercare di boicottare le celebrazioni per il decimo anniversario della “Rivoluzione dei Gelsomini”.

Il 14 Gennaio 2011 il presidente tunisino  Zine al-Abidine Ben Ali fuggiva in Arabia Saudita.  Il 17 Gennaio 2011 si ebbe la morte di Mohamed Bouazizi, l’ambulante tunisino che si diede fuoco in segno di protesta contro il governo: l'episodio costituì la scintilla che scatenò l’esplosione e il diffondersi della protesta, allargatasi poi a tutto il Nord Africa e Medio Oriente, e ne divenne anche un simbolo.

Il governo tunisino, quindi, con uno schema che abbiamo visto applicare in tutto il mondo, ha usato l’emergenza sanitaria come strumento di prevenzione delle tensioni sociali, temendo le proteste di piazza in occasione dell’anniversario degli eventi del 2011. Il governo ha decretato il coprifuoco dal 14 Gennaio, per quattro giorni, e questo ha inasprito ancora di più i rapporti con la piazza, la quale sentendosi censurata e zittita ha voluto gridare ancora più forte il proprio malessere.

In molte città della Tunisia, compresa la capitale Tunisi, sono iniziate violente proteste tenute quasi esclusivamente di notte, a cui hanno partecipato soprattutto giovani, anche adolescenti. I tunisini tra i 15 e i 24 anni rappresentano il 15,5 per cento della popolazione. Alle proteste, ancora in corso quando scriviamo (20-22 Gennaio 2021), il governo ha risposto schierando non solo la polizia ma anche l’esercito, con arresti di massa: un portavoce del ministero della difesa ha parlato di 632 arresti. Da Siliana a Tunisi, passando per Kasserine, Kairouan, Sousse, la modalità è la stessa, come anche la risposta del governo: prima la polizia è dispiegata massivamente nei quartieri popolari e nelle regioni dell’entroterra, poi il ministro della Difesa invia l’esercito. La situazione è rapidamente sfuggita di mano e gli scontri notturni si sono moltiplicati, come per un effetto domino, trasformandosi a volte in vera guerriglia urbana con molotov e gas lacrimogeni.

Nonostante la Tunisia fosse in lockdown anti-Covid, dalle 16 fino a mezzanotte, questo non ha scoraggiato migliaia di giovani dal riversarsi sulle strade per 4 notti consecutive. Molti degli arrestati hanno fra i 14 e i 17 anni. Ogni notte si è ripetuto lo stesso copione: sassaiole, esplosioni, fuochi d'artificio lanciati dai tetti delle case da parte dei giovani manifestanti a cui la polizia e la gendarmeria hanno reagito con gas lacrimogeni per spingerli a tornare nelle proprie abitazioni.

Il governo ed i sindacati evidenziano la mancanza di organizzazione delle proteste. E questo è un dato di fatto, di cui anche noi prendiamo atto. Ma se loro lo fanno per sminuirle e criminalizzarle noi lo prendiamo come un punto di partenza un verso la lotta sociale e politica base necessaria per una preparazione rivoluzionaria. In questa “primitiva” assenza di organizzazione vi è uno spontaneo rifiuto del sistema esistente ed un sano odio verso il capitale e le sue miserie. E’ una rivolta che segna l’inizio di un processo, rifiuta l’esistente e grida la propria esasperazione, ma è solo all’inizio. Non ha ancora un suo obbiettivo: la lotta potrà tentare di identificarne qualcuno, ma solo il partito comunista potrebbe offrire un programma e uno sbocco rivoluzionario.

 

Le lezioni di questa rivolta

La spontaneità delle proteste e l’assenza di organizzazione ribadiscono e confermano l’isolamento in cui si trova il proletariato oggi in tutto il mondo: senza referenti politici - tutti i partiti hanno condannato le violenze - il movimento stesso rifiuta ancora qualsiasi rappresentanza politica. Da parte sua, il sindacato ha sempre subito la combattività della classe, cercando di incanalarla nell’alveo di una pacifica convivenza e trattativa tra le classi e lo Stato e stigmatizzando la violenza. Nelle dichiarazioni ai media, il segretario generale del potente sindacato Ugtt, Noureddine Taboubi, ogni volta ha espresso stupore per l'intervento delle forze di sicurezza, temendo "una crisi di fiducia" delle masse. Noi invece noi non siamo stupiti, e auspichiamo e comprendiamo questa perdita di fiducia, poiché è proprio nello sciopero che i proletari imparano chi sono i nemici e che cos’è lo Stato. Sempre il segretario generale dell’Ugtt, sottolinea il ruolo del sindacato come parte dello Stato e in continuità con lo Stato, ed è in quest’ottica che chiede il rispetto dell'accordo di "el Kamour", ribadendo la volontà di stabilire "un dialogo pacifico e responsabile al fine di trovare una via d'uscita e dare speranza ai giovani disoccupati". E volendo fare di quell’accordo un modello su scala nazionale.

Lo schema è quello di uno Stato che promette sussidi e redistribuzione della ricchezza, con la collaborazione e complicità del sindacato. Ma la combattività della piazza mostra il fallimento di tale schema, esprime il malcontento: lo schema messo in piedi da governo e sindacato di regime è smentito dal continuo peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro, e sono le generazioni più giovani e più combattive ad opporsi con più vigore, a gridare questa evidenza con più forza. Negli episodi recenti, infatti, non sono i lavoratori precari e i disoccupati a occupare le strade, ma giovani e adolescenti, spesso ancora minorenni.

Questa combattività non deve andare sprecata, proprio rigettando lo schema di una compatibilità tra interessi delle masse proletarie e del governo. I miglioramenti delle proprie condizioni di vita e di lavoro possono essere ottenuti solo strappandoli con la lotta al nemico. La lotta stessa insegna come il governo, con tutti i suoi partiti, così come i partiti d’opposizione ed il sindacato nazionale, siano incapaci di mantenere le loro promesse. Allo stesso tempo, mostra la necessità di organizzarsi e di dotarsi di un’organizzazione di difesa indipendente e combattiva che dia corpo alla necessità urgente di unione tra i proletari, giovani, occupati e disoccupati... Per prepararsi poi ad una lotta di “attacco”, organizzati in un partito comunista internazionale.

                                                                                                                      20-22 gennaio 2020

[1] “A proposito dei recenti avvenimenti nel mondo arabo”, Il programma comunista, n. 06/2012;  “La crisi si abbatte sulla sponda sud del Mediterraneo”, Il programma comunista, n. 2/2011; “Algeria, Tunisia, Egitto, Libia… E poi? Sempre più instabile il modo di produzione capitalistico”, ibidem.

[2] Ad esempio: “Tunisia: riesplode la rivolta!”, Il programma comunista, n. 1/2018. 

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