Nella concezione marxista, svolta da Lenin in tutte le sue conseguenze esplicite e implicite, mai “raddobbata” e “riveduta”, il Partito di classe, il Partito politico, sa fin dalla nascita (perché è iscritto nel suo immutabile programma) che la sua ragion d’essere come “organizzazione del proletariato in classe” è la preparazione del proletariato al salto qualitativo verso “l’organizzazione in classe dominante”: la preparazione, quindi, alla presa rivoluzionaria del potere, che presuppone l’insurrezione armata, e all’esercizio della dittatura sulla classe avversa, che è inconcepibile senza l’impiego della violenza e del terrore, ad opera del potere conquistato e diretto dal Partito, così per infrangere le resistenze interne e gli attacchi esterni della borghesia, come per trasportare sul terreno della guerra rivoluzionaria, quando ne siano date le condizioni obiettive, la lotta per definizione internazionale contro il capitalismo. Ma sa, per lo stesso motivo, che a questo traguardo si può giungere, e quindi provvedere a tale preparazione, alla sola condizione non solo di aver svolto, in tutto il periodo che precede la situazione rivoluzionaria, l’intero complesso di attività di propaganda, proselitismo, agitazione, intervento nelle lotte operaie, ecc., che lo contraddistinguono (sia pure in grado diverso), ma di non cessare di svolgerlo nel corso stesso di quella situazione. Sa che soltanto così esso può rispondere alle esigenze di organizzazione e preparazione politica del proletariato in funzione delle quali è sorto, e che lo definiscono come il Partito di classe.

“Nell’epoca della guerra civile l’ideale del Partito del proletariato è il Partito combattente” (1). Lo è nell’epoca della guerra civile, appunto; non in qualunque epoca, magari decretata di guerra civile dalla volontà o dalle elucubrazioni dei singoli; lo è, dunque, quando “il movimento di massa è già arrivato praticamente all’insurrezione, e subentrano intervalli più o meno lunghi fra le ‘grandi battaglie’ della guerra civile”, quando, perciò, affinché il movimento non si disperda nella demoralizzazione e disgregazione implicite nella sua spontaneità, generosa, ma priva di indirizzo, il Partito deve abilitarsi a guidarlo. Il Partito è allora “partito combattente” perché si è messo già prima in grado di affrontare il compito – previsto, ma non realizzabile in qualsiasi momento, né adatto per una situazione qualsivoglia –  di crearsi il proprio “braccio armato”; non è tuttavia questo braccio armato, né potrà mai risolversi in esso. E’ Partito combattente perché usa, avendo imparato per lunga esperienza a combattere, i mezzi propri “dell’epoca della guerra civile” – cioè i mezzi e i metodi militari – ma non li considera mai come gli unici e principali mezzi di lotta, anzi “li subordina agli altri, li adegua ai principali mezzi di lotta” e li nobilita grazie alla “influenza educatrice e organizzatrice del socialismo”. Li usa, dunque, inquadrandoli in un piano strategico e tattico che non consente mai di trasformare il Partito politico né in una rete più o meno stretta di “brigate”, né in un “esercito”, e che, al contrario, gli impone di costruire in quella fase il proprio apparato militare (e di prepararne presupposti soggettivi nella fasi precedenti), in rigorosa dipendenza dagli obiettivi del programma, dalla rete organizzativa, dalle decisioni tattiche generali sue proprie, non arretrando di fronte al margine inevitabile di “disorganizzazione” che il passaggio ad ogni azione di guerra, anzi “ogni nuova forma di lotta accompagnata da nuovi pericoli e nuovi sacrifici” porta con sé, ma che saranno tanto minori, quanto più i militanti del Partito saranno stati preparati ad affrontarli e risolverli, e quanto più il Partito nel suo insieme si sarà conquistata la fiducia, la simpatia, l’appoggio, di stati crescenti della classe attraverso un lavoro svolto con tenacia e continuità su un terreno e con “utensili” che non sono e non possono essere militari.

Questo Partito, per il quale il “braccio armato” è solo uno strumento, per di più sussidiario, tecnico e rigorosamente subordinato, non “sceglie la clandestinità” anche se prevede di essere costretto a una esistenza sotterranea a un certo punto del proprio cammino. Non cade, d’altra parte, nell’errore “idealistico” di credere che la clandestinità sia sinonimo, meccanicamente, di “lotta armata” o di azione militare, anche se sa in anticipo che quest’ultima diverrà, nella fase cruciale dell’insurrezione, una – ma sempre soltanto una – delle sue manifestazioni essenziali di esistenza. Non cesserà, al contrario di svolgere con mezzi “illegali” le attività proprie della sua vita “legale”, così come, del resto, provvederà in giorni “normali” a tessere una rete clandestina parallela più o meno rigida, non come alternativa alla rete aperta e dichiarata di partito, ma come sua necessaria difesa, come suo complemento indispensabile. Insomma, non si illuderà che il compito permanente di organizzare e orientare le masse, per poi dirigerle – tanto permanentemente da dover essere assolto ancora dopo che il fragore delle armi nella guerra civile successiva alla conquista del potere sarà da tempo cessato – possa identificarsi con uno solo dei suoi momenti più delicati, senza dubbio, ma, appunto per ciò, uno dei più bisognosi di controllo politico da una parte, uno dei più limitati nel tempo dall’altra. E che cosa può avere in comune, un organismo che si muove sulla base di presupposi simili, col “partito combattente” dei terroristi di stampo blanquista usi ad erigere a partito quello che il marxismo considerava uno dei suoi strumenti e dal quale esige, prima di tutto,  disciplina ed ubbidienza insieme politiche ed organizzative, perché solo a questa condizione affiderà, nell’ora x, funzioni di comando in un settore specifico e temporaneo?

Per il marxismo, l’organo-partito non “nasce dal movimento”, come pretendono tutti gli spontaneisti; non attinge il suo programma dalla contingenza – magari raccattando qua e là i brandelli di teorie “nuove”; non vincola la sua organizzazione alle richieste (reali o fittizie) del momento; non subordina il suo piano tattico alle sollecitazioni immediate della congiuntura: la sua capacità di dirigere il movimento reale (che esso non crea, né ha il potere di “fissare la data di nascita” delle sue forme sempre diverse, delle sue esigenze sempre molteplici) è relativa alla capacità di precederlo, nella visione sia dello sbocco finale, sia del cammino da percorrere per raggiungerlo, delle fasi che si dovranno attraversare lungo questa via, dei mezzi che di volta in volta bisognerà mettere in azione, nessuno dei quali escluderà l’altro, anche quando prevarrà su tutti gli altri. Essa è condizionata, dunque, dal possesso di una teoria e di un programma che in tanto illuminano la via della rivoluzione, in quanto incarnano interessi e finalità che non si deducono da nessuna fase isolata del movimento, e che superano quelli che ai singoli membri della classe, e alla stessa classe nel suo insieme, possono apparire dominanti nell’ora tale o nel giorno tal altro della “propria” storia. Il Partito è, insomma, il punto di approdo risolutivo del processo di emancipazione della classe operaia. Inversamente, l’apparato militare, organo vitale ma non sufficiente né autonomo dell’insurrezione, può essere soltanto uno dei punti di arrivo nella scala ascendente della rivoluzione proletaria, mai il suo punto di partenza.

Perciò, nel Che fare?, Lenin accomuna i fenomeni, solo in apparenza opposti dell’economicismo e del terrorismo come le due facce di una stessa medaglia che ha nome: sottomissione alla spontaneità. Perciò scrive: “Si commetterebbe un grave errore se nell’organizzazione del Partito si facesse assegnamento soltanto su esplosioni e lotte di strada, o soltanto sullo ‘sviluppo progressivo della grigia lotta quotidiana’ […] non si può pensare che la rivoluzione si svolga in un solo atto […]: la rivoluzione sarà una successione rapida di esplosioni più o meno violente, alternantisi con fasi di calma più o meno profonda”. Perciò “il contenuto essenziale dell’attività del nostro partito, il fulcro della sua attività, deve consistere nel lavoro che è possibile e necessario sia nei periodi delle esplosioni più violente, che in quelli di calma completa, cioè in un’agitazione politica unificata [per tutto il paese], che illumini tutti gli aspetti della vita e si rivolga alle masse più larghe”. Perciò Lenin addita il nerbo del Partito in quello strumento di educazione e organizzazione politica che non è… la P38, ma il giornale con la rete costituitasi intorno ad esso, e che, essendo il veicolo dei principi, della finalità e del piano tattico ai quali ogni singolo mezzo di lotta è e deve rimanere subordinato, “sarà precisamente pronto a tutto, sia a salvare l’onore, il prestigio e la tradizione del partito nei movimenti di peggiore ‘depressione’ rivoluzionaria, che a preparare a decidere e ad attuare l’insurrezione armata di tutto il popolo” (2).

Perciò, in periodi di altissima tensione sociale, affida “il compito [non solo] di creare organizzazioni che abbiano la più grande capacità di dirigere le masse tanto nelle grandi battaglie, quanto, nella misura del possibile, nei piccoli scontri”, o, “nell’epoca in cui la lotta delle classi si inasprisce sino a trasformarsi in guerra civile”, il compito “sia di partecipare a questa guerra civile, sia di assumere in essa una funzione dirigente”, non a un’organizzazione contingente qualsiasi, nata dalla lotta o dalla volontà di lotta nelle loro espressioni immediate, armate o non armate, ma al “Partito rivoluzionario di classe”, incarnazione non metafisica ma fisica della teoria, del programma e delle tradizioni di battaglia di un secolo [e più] di movimento operaio.

(dal nostro opuscolo Il terrorismo e il tormentato cammino della ripresa della lotta di classe, Edizioni il programma comunista, Milano, 2013).

 

NOTE

  1. Lenin, La guerra partigiana, 30 settembre 1906, in Opere complete, vol. XI, p. 200.
  2. Lenin, Che fare?, 1902, in Opere complete, vol. V.
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