Sembrerebbe che nel mondo accademico “marxista” anglofono sia in corso una “scoperta” (o, nelle intenzioni, una “rivalutazione”) del ruolo di Amadeo Bordiga nel “movimento comunista”. E dunque anche in lingua inglese si rafforza l’opinione, riformista e reazionaria, secondo cui il comunismo, più che essere la manifestazione organizzata della forza e della critica della parte più combattiva e combattente dell’immensa massa umana, che per vivere e sopravvivere non può fare altro che vendere la propria forza lavoro, sia un’espressione ideologica, un’analisi politica, una scuola di pensiero che si arricchisce col contributo di ponderanti maestri carismatici e capipopolo, geniali tattici… Insomma, una delle possibili e svariate “teorie” nel mercato delle “interpretazioni del mondo”.

Va be’… Come è capitato ad altri combattenti per la rivoluzione comunista, anche all’ingegner Bordiga tocca la riduzione a icona inoffensiva da mettere in quella raccolta di figurine storiche, che assomiglia tanto alla vetrinetta di una collezione di farfalle. Gli studiosi, gli accademici, gli intellettuali di ogni ordine e grado, hanno un modo tutto particolare di esprimere l’ideologia della classe dominante: si divertono ad analizzare “l’evoluzione” del pensiero di Tizio o di Caio, cercando sempre la pettegola distinzione tra la sua gioventù, la sua maturità e la sua senescenza, alla ricerca di più meno consapevoli contraddizioni o “rettifiche di tiro”.

Anche in lingua inglese viene applicato questo saccente metodo, che, per di più, scopiazza alcuni “temi” già trattati dalla bordigologia nostrana.

Uno dei “temi” più abusati è quello di un presunto “silenzio-assenso”, per cui Bordiga, delegato della Sinistra che di lì a un anno avrebbe guidato la scissione di Livorno e diretto il Partito Comunista d’Italia-Sezione della Terza Internazionale, avrebbe condiviso le parole e le attitudini di Serrati (invitato al II Congresso dell’Internazionale comunista, 1920, quale rappresentante della maggioranza di quel PSI che, a parole, si voleva avvicinare al comunismo e che, nei fatti, esprimeva i limiti e i delitti del centrismo pseudo-rivoluzionario), nel corso della discussione sulle “Tesi sulla questione nazionale e coloniale”. Posizione che sarebbe stata rivista, corretta e superata da Bordiga solo negli anni ’50 del ’900, nel corso del poderoso movimento di liberazione nazionale dei popoli, fino allora succubi delle antiche potenze coloniali.

Per chiarire e ribadire, anche a proposito di queste Tesi, il senso e il contenuto della battaglia condotta dai nostri compagni per arrivare a costituire in Italia una solida sezione della III Internazionale, riportiamo di seguito quanto abbiamo scritto nella nostra Storia della Sinistra Comunista (Volume II: 1919-1920, Cap. 7, Par. f, pp.640-642).

Il delegato della Sinistra non intervenne nel dibattito e gli illustri storici fanno gran caso della sua successiva dichiarazione al Soviet [organo per l’appunto della Sinistra – NdR] di condividere alcune delle riserve di Serrati. Ma basta leggere quel brano, dove si precisa che l’attitudine assegnata “al movimento comunista rivoluzionario, espressione delle masse dei proletari salariati, di fronte agli interessi dei popoli delle colonie e dei paesi arretrati – come di fronte agli interessi dei vari strati della popolazione rurale – rappresenta innegabilmente una rettifica di tiro nel metodo della intransigenza classista come è stata finora accettata dalla sinistra marxista”, e ai successivi contributi teorici della Sinistra astensionista su questo tema (per esempio, e soprattutto, Il comunismo e la questione nazionale [1] e il paragrafo 10 della Seconda parte delle Tesi di Lione [2]), per convincersi che, se pretendono di scoprire una divergenza di principio nella questione nazionale (e agraria) fra noi e i bolscevichi, i dotti signori una volta di più barano spudoratamente. Le nostre riserve riguardavano i difficili problemi di una tattica che, qui più che altrove, corre sul filo di un rasoio e rischia ad ogni passo di smarrire la bussola dell’interpretazione marxista dei fatti storici e del comportamento dei rivoluzionari comunisti di fronte ad essi. L’indeterminatezza delle formule tattiche è fonte (l’abbiamo sempre sostenuto) di possibili, gravi sbandamenti, non solo nell’azione ma anche nei principi. Noi condividevamo e condividiamo senza riserve l’impostazione generale del problema; sappiamo e abbiamo sempre proclamato che il marxismo vede e distingue con mirabile chiarezza le fasi successive (e diverse) del processo storico capitalistico, quindi anche del suo superamento, e che, in particolare, esso riconosce e non nasconde mai che in date fasi (appunto quelle delle doppie rivoluzioni) il proletariato deve assumersi internazionalmente compiti non suoi ma, rispetto al modo di produzione difeso dai “nemici dei suoi nemici”, pur sempre rivoluzionari, o, nell’ipotesi meno ottimistica, aiutare a condurli a buon fine; sappiamo e abbiamo sempre sostenuto che non solo non è marxista ma è antimarxista ridurre tutti i contrasti interni del regime attuale, sempre e dovunque, al solo antagonismo proletariato/borghesia.

La difficoltà sorge per noi nell’arduo campo delle applicazioni tattiche, e basta leggere attentamente le Tesi 1920 per riconoscere che in esse il problema non ha ancora raggiunto una sistemazione compiuta, tale da segnare una traccia il più possibile sicura in un campo in cui le asperità non devono mai essere dimenticate così come non devono mai essere eluse: quale il limite fra il “camminare insieme” e “l’allearsi” sia pure “temporaneamente”? quale il limite fra entrambi e il geloso mantenimento dell’autonomia del Partito comunista, presupposto essenziale dell’appoggio ai movimenti nazional  rivoluzionari? fino a che punto un movimento di indipendenza nazionale conserva il suo carattere “nazionalrivoluzionario” e  invece lo perde a favore di un semplice “democratismo borghese”? quali legami devono intercorrere fra movimento nazionalrivoluzionario nelle colonie e movimento proletario comunista nelle metropoli, e si potrà mai attenuare il ruolo primario di quest’ultimo senza che il ruolo rivoluzionario del primo ne soffra?

Porre questi interrogativi non è un lusso teorico: cinque e sei anni dopo il II Congresso, lo stalinismo mostrerà in Cina come sia esile (e facile da spezzare) il diaframma fra le convergenze e perfino le alleanze esperite nella più rigorosa autonomia, e la capitolazione di fronte a partiti dichiaratamente borghesi come il Kuomintag di Sun Yat-sen e, peggio, di Ciang Kai-scek, ossia la subordinazione degli obiettivi rivoluzionari del potente moto contadino e operaio cinese a interessi volgarmente nazionali e democratici, capitolazione e subordinazione che troveranno il loro luttuoso epilogo in uno dei più atroci bagni di sangue proletario e contadino a favore della conservazione dello status quo non solo capitalistico-cinese, ma imperialistico-mondiale.

Analogamente le Tesi non chiariscono i problemi estremamente ardui posti alla tattica comunista dalle diverse condizioni materiali e dal diverso rapporto tra le forze di classe in aree già invase dal capitalismo o invece solo alla vigilia di esserlo e, ancor più, in aree già pienamente borghesi: per fare un solo, tipico esempio, nella stessa Europa grande-capitalistica restavano e in parte restano tragicamente insoluti problemi di oppressione nazionale, classico fra tutti quello di Irlanda – per il marxismo, e da un secolo, palla di piombo ai piedi del movimento operaio inglese – ; il pericolo era ed è (come noi avvertimmo nell’articolo citato più sopra) di estrapolare questi casi-limite applicando, come nel 1923, alla Germania ultracapitalistica, e trarne pretesto per “appoggiare” come potenzialmente rivoluzionaria l’agitazione nazionalistica e perfino nazista contro l’occupazione francese della Ruhr e contro le clausole giugulatorie della pace di Versailles [3].

Per gli opportunisti, il problema di questi trabocchetti non si pone – ci sono caduti dentro, e ci sguazzano; non così per i marxisti, e noi, pienamente concordi nel riconoscere rivoluzionarie le insurrezioni nazionali-conseguenti, cioè “borghesi fino in fondo”, avevamo non solo il diritto ma il dovere di mettere in guardia contro le prevedibili sbandate di partiti dalle basi teoriche oscillanti e dalla dubbia composizione organizzativa nell’applicare alla “lettera” (e quindi male) tesi fondamentalmente ineccepibili [4]. Non dice nulla agli “storici” il fatto che sia stata la nostra corrente, nel 1924-26, a rivendicare per prima l’organica integrità dell’impostazione strategico-tattica del problema nelle tesi di Lenin contro ogni tendenza (Cina!) ad alterarne i cardini – cioè il ruolo preminente del Partito mondiale comunista nella direzione dei moti nazionali e coloniali e la rigorosa salvaguardia della sua autonomia sul piano locale non meno che internazionale? che sia stata essa a gettare per prima l’allarme sulla falsa trasposizione della grandiosa prospettiva 1920 al caso di paesi ultracapitalisti, in cui “la questione nazionale e l’ideologia patriottica sono diretti espedienti controrivoluzionari, tendenti al disarmo di classe del proletariato” (Germania 1923)?

 

[1] In Prometeo, anno I, n. 4 - 15 aprile 1924.

[2] Vedi In difesa della continuità del programma comunista, Edizioni il programma comunista, p. 111.

[3] Vedi Nazionalismo e internazionalismo nel movimento comunista tedesco, edizioni il programma comunista, Milano, 2014.

[4] “La tesi dell’Internazionale comunista per la guida, da parte del proletariato comunista mondiale e del suo primo Stato, del movimento di ribellione delle colonie e dei piccoli popoli contro le metropoli del capitalismo, appare […] come il risultato di un vasto esame della situazione e di una valutazione del processo rivoluzionario ben conforme al programma nostro marxista […]. Il metodo comunista non dice banalmente: i comunisti devono agire, sempre e dovunque, in senso opposto alla tendenza nazionale; il che non significherebbe nulla e sarebbe la negazione “metafisica” del criterio borghese. Il metodo marxista si contrappone a questo dialetticamente, ossia parte dai fattori classisti per giudicare e risolvere il problema nazionale. L’appoggio ai movimenti coloniali, per esempio, ha tanto poco sapore di collaborazione di classe [come pretendeva… Serrati] che, mentre si raccomanda lo sviluppo autonomo e indipendente del partito comunista , perché sia pronto a superare i suoi momentanei alleati, con una opera indipendente di formazione ideologica e organizzativa, si chiede l’appoggio ai movimenti di ribellione coloniale soprattutto ai partiti comunisti delle metropoli”. (Comunismo e questione nazionale, cit.). Troppo presto si perderà questa solida bussola!

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