Introduzione

Per prima cosa, vogliamo inquadrare l'oggetto e l'obiettivo della nostra indagine che dal 1957 va sotto il nome di “Corso del capitalismo mondiale”. L'oggetto è rappresentato dal fenomeno più importante (e che ha validità di legge) dello sviluppo del sistema produttivo capitalistico nel tempo: la caduta tendenziale del saggio medio del profitto. L'obiettivo è dimostrare a una nuova generazione di proletari e di comunisti, attraverso l'esposizione dei dati oggettivi della realtà, l’approdo “naturale” di tale analisi: il carattere transitorio del sistema produttivo capitalistico. Per Marx, il valore non è altro che tempo di lavoro sociale speso utilmente. La caratteristica dell'utilità si riferisce a un’attività intrapresa per la produzione di prodotti (materiali o immateriali) atti a soddisfare un bisogno umano, della pancia ma anche del cervello. Tutta la storia della civiltà, da quando l'umanità è uscita dalle sue forme ancestrali di organizzazione e sono comparse la proprietà privata e, di conseguenza, le classi, si è svolta sulla base materiale costituita dalla tecnica produttiva. Grazie a essa, si producono i valori d'uso e questi sono espressi in valore (sono cioè rappresentati dal loro valore di scambio). Questo processo, naturalmente, si sviluppa in dialettica connessione con le sovrastrutture giuridico-ideologiche con cui le classi (o la classe) al potere giustificano il prelievo forzoso di una parte relativamente maggioritaria di questo valore, in relazione al numero esiguo di queste stesse classi sul totale della popolazione e al fatto non secondario che esse sono da sempre classi improduttive. La tecnica produttiva nata in Europa a metà del ‘700, combinata con la presenza di una classe borghigiana e mercantile detentrice di forti somme di denaro, ha gettato le basi del modo di produzione capitalistico e della sua forma ideologica particolare: la democrazia e la nazione borghesi.

Il capitalismo è il sistema di produzione nel quale la forma del valore di scambio, ovvero la merce (il valore d’uso e la sua forma autonomizzata, il denaro), è esaltata ai massimi livelli. Suo scopo è solo quello di conservare e accrescere il capitale. E, per capitale, non s’intende una somma di denaro più o meno grande (tale era invece il concetto di ricchezza dei sistemi precapitalistici). Per capitale s’intende un processo produttivo che crea plusvalore. In questo processo, il denaro, forma fenomenica storica del valore di scambio, è investito in una qualsiasi branca della produzione: ovvero, il denaro si muta in capitale costante e capitale variabile. In seguito, la merce così prodotta (ossia, il valore d'uso, supporto materiale necessario del valore di scambio) è scambiata sul mercato per una nuova somma di denaro. Precisiamo: non è una somma di denaro qualsiasi che può intraprendere il percorso virtuoso produttivo che la trasforma in capitale. Solo una somma consona a un investimento quantitativamente sufficiente al livello della produzione presente può diventare capitale: soltanto uno scioccoinvestirebbe capitale denaro se alla fine del ciclo manifatturiero si ritrovasse la stessa quantità di valore originale! Il modo di produzione capitalista è dunque in grado di massimizzare, come mai era avvenuto prima, il prelievo gratuito di una porzione del valore prodotto dal lavoro sociale, a favore della propria classe dominante (la borghesia).

Per attuare tutto ciò, ha concentrato in una classe la proprietà privata dei capitali e ha progressivamente “liberato” una massa sempre più imponente di umanità da antichi vincoli precapitalistici, per sfruttarla sotto la veste di uomini e donne liberi, ma privi di mezzi di sostentamento: dunque, formalmente “liberi” fuori dalle mura dei posti di lavoro, ma in realtà schiavi, in quanto sono costretti a vendere le proprie capacità lavorative come unica merce in loro possesso e, contemporaneamente, a vedersi sottrarre una massa di valore prodotto (plusprodotto), senza ricevere in cambio alcun pagamento. La classe borghese tratta gli operai come un costo e dunque tende ad acquistarne l’uso al prezzo più basso possibile – un prezzo che non si discosta mai di molto dal minimo necessario alla produzione e riproduzione della classe proletaria. Acquistato così l'uso del lavoro del proletario, il borghese ne dilata ben al di là del costo pagato il tempo di utilizzo necessario alla produzione. E questo tempo di lavoro aggiuntivo, questo valore prodotto dalla classe proletaria, non costa assolutamente niente al capitalista: il risultato finale è che questo plusvalore viene letteralmente rapinato e fatto proprio dalla classe borghese. Delizia e croce del borghese, l'aumentata massa di capitale (somma del capitale originario più una grande aliquota del plusvalore estorto, che l’economia borghese chiama profitto) dev’essere nuovamente valorizzata nel ciclo successivo, e valorizzata ancora e poi ancora, in un’anarchica corsa, all'apparenza infinita, verso un capitale totale sempre più abnorme e insostenibile.

Oltre a significare produzione solo per la valorizzazione del capitale, e mai in nessun momento per la soddisfazione dei bisogni umani, questo folle correre del capitalismo significa anche presenza sul mercato di competitori, tutti intenti a realizzare il proprio investimento produttivo a scapito della concorrenza. Le necessità della competizione sono la ragione e lo stimolo, prima per l'introduzione del sistema macchinista in ogni atto produttivo, e poi per il continuo rinnovamento del sistema tecnico produttivo stesso con macchine sempre più efficienti. Ma introdurre una macchina nella produzione significa espellere lavoro vivo dalla stessa. Marx dimostra come la tendenza generale del capitalismo, al di là di possibili deviazioni momentanee, sia quella di aumentare sempre più la produttività: e questo, di conseguenza, determina sempre più la sostituzione di lavoro vivo con lavoro morto.

Nella formula relativa alla formazione del valore in epoca capitalista (Capitale costante + Capitale variabile + Plusvalore), Marx dimostra, al netto delle contingenze momentanee e del rumore di fondo determinato dalla storicità e complessità della realtà, chela tendenza generale è la crescita assoluta di C come di V, ed anche del plusvalore (Pv). Egli aggiunge, tuttavia, che la crescita assoluta dei fattori della produzione non significa affatto crescita armoniosa ed equilibrata dei fattori stessi. Tutt'altro! Con il procedere del sistema capitalistico e con l'enorme aumento della produttività sociale grazie al continuo apporto di sempre più macchine, materie prime e semilavorati nella produzione, il crescere di C è enormemente maggiore del crescere di V. Siamo così giunti al dunque: essendo lo scopo della borghesia (personificazione soggettiva delle oggettive esigenze del sistema capitalistico sottostante) quello di accrescere il capitale totale sociale grazie allo sfruttamento del lavoro salariato e all'investimento nella produzione del capitale da essa monopolizzato, man mano che il processo si espande, per il suo procedere contraddittorio, la frazione di valore nuovo materializzata nella singola merce come nel totale delle merci prodotte è sempre, tendenzialmente, più piccola, fino a diventare insignificante e, al colmo di un ciclo espansivo, praticamente nulla. Poiché il saggio del profitto non è altro che il rapporto tra il plusvalore (Pv) e le spese “anticipate” dal capitalista per iniziare il ciclo produttivo (C+V), si capisce che, essendo il denominatore progressivamente sempre più grande del numeratore, la percentuale di “profitto” risulterà sempre più piccola e insignificante, in confronto alle enormi somme da investire per iniziare un nuovo ciclo produttivo. Il processo di caduta tendenziale viene, in condizioni espansive, contrastato dal continuo accrescersi della massa assoluta del profitto: ma, raggiunto un dato stadio, qualsiasi investimento diventa ininfluente dal punto di vista della valorizzazione del capitale. Lo sviluppo del capitale produttivo,ancora prima di tutte le dinamiche contraddittorie presenti sul mercato, ciclo dopo ciclo inceppa l’intero processo di produzione, eliminando lo scopo stesso dell'investimento: la valorizzazione del capitale.

Marx dimostra che, nel procedere storico del modo di produzione capitalistico, l'umanità produttrice di valore, il proletariato, opera su una massa sempre più imponente di capitale costante al fine di conservare il valore C e di aggiungere nuovo valore Pv. Siccome in tale processo viene impiegato un numero sempre più piccolo di effettivi proletari in rapporto al capitale investito, la parte di valore nuovo prodotto – indipendentemente dalla suddivisione della giornata lavorativa in V e Pv e anche se la si prolungasse fino al limite insuperabile delle 24 ore – sarà in proporzione sempre più ridotta, sino a diventare insignificante. Inoltre, per riavviare la produzione a una scala più grande – come è nella natura del capitale – sarà necessario reinvestire una parte crescente del plusvalore, oltre all’intera parte del valore conservato. La crescente difficoltà di valorizzarsi: questa, in ultima analisi, è la ragione del futuro collasso del sistema capitalistico.

Se dunque è dimostrato che la caduta tendenziale del saggio medio del profitto è inesorabile, risulta anche evidente che il capitale ha oggettivamente un limite nel tempo. Dimostrare dialetticamente il fenomeno e la sua evoluzione non ha un rapporto diretto, immediato, con la sua manifestazione oggettiva, reale, empirica. Per i comunisti, i concetti sono sempre un prodotto storico e la complessità della realtà è sempre enormemente più grande delle possibilità concettualizzanti dell'uomo. Nel caso particolare, poi, la statistica borghese (su cui siamo costretti a basarci) non aiuta certo la nostra indagine, essendo portata alla comprensione dell’istante e mai del processo. Comunque si traccino grafici e tabelle, essa considera ogni processo dal punto di vista della casualità, della probabilità, della singolarità: nessuna dinamica, nessuna dialettica, solo empirismo. Di conseguenza, siamo costretti a studiare un fenomeno derivandolo da un altro sottostante, del quale però abbiamo la possibilità di reperire i dati oggettivi… o presunti tali. Sarà chiaro, dunque, che, attraverso lo studio del procederedegli indici della produzione industriale,noi possiamo risalire all’analisi della dinamica della caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Sulle pagine di questo giornale, abbiamo più volte riportato tabelle e grafici, in cui si mostra il fenomenodella decrescenza relativa degli incrementi degli indici della produzione industriale, ciclo dopo ciclo. Poiché la caduta tendenziale del saggio medio di profitto si presenta come un fenomeno analogo alla decrescenza relativa degli incrementi degli indici economici, è a questa che facciamo riferimento.

La chiave per affermare tutto ciò si trova nel Capitale: “Caduta del saggio del profitto e accelerazione dell'accumulazione sono semplicemente diverse espressioni di uno stesso processo, ambedue esprimendo lo sviluppo della forza produttiva. L’accumulazione accelera la caduta del saggio del profitto, in quanto determina la concentrazione del lavoro su vasta scala e quindi una composizione superiore del capitale. Del resto, la diminuzione del saggio del profitto accelera a sua volta la concentrazione di capitale e la sua centralizzazione tramite l’espropriazione di piccoli capitalisti, degli ultimi produttori diretti sopravvissuti presso i quali vi è ancora qualcosa da espropriare. L’accumulazione in quanto massa viene quindi accelerata, mentre il saggio di accumulazione diminuisce insieme al saggio del profitto. Del resto, dato che il saggio di valorizzazione del capitale totale, il saggio del profitto, è la molla della produzione capitalistica (come la valorizzazione del capitale ne è l’intrinseco fine), la sua caduta rallenta la formazione di nuovi capitali indipendenti e si presenta come un ostacolo per lo sviluppo del processo di produzione capitalistico” (Libro III, Cap XV, §1: “Sviluppo delle contraddizioni intrinseche della legge”).

Il saggio di accumulazione non è naturalmente l'accumulazione della sua massa in assoluto, ma il rapporto fra la velocità di accumulazione di un ciclo nella sua media annua, in confronto alla velocità di accumulazione in un nuovo ciclo. Tra saggio di accumulazione e saggio di profitto sussiste un rapporto di corrispondenza, anche se gli andamenti sono diversi: se il saggio di accumulazione cade, anche il saggio di profitto tende a cadere. Il nostro “Corso del capitalismo mondiale” altro non fa che monitorare questo saggio di accumulazione, analogo alla caduta del saggio di profitto, attraverso la decrescenza relativa degli incrementi degli indici della produzione industriale nel tempo e dunque attraverso il confronto tra velocità di accumulazione in un ciclo, in rapporto al ciclo precedente.

Fin dall'inizio di questo studio negli anni ’50 del ‘900, abbiamo sottolineato come la legge della decrescenza non sia una legge specifica del solo procedere del capitalismo: al contrario, essa si riconosce in moltissime realtà materiali in evoluzione, si tratti di esseri biologici oppure di strutture inorganiche (pensiamo a un animale che cresce, a una popolazione che aumenta). Se i comunisti dimostrassero che il sistema capitalistico un giorno cadrà in quanto incapace di sfamare la propria popolazione, il loro agitarsi sarebbe poca cosa. È infatti una pura tautologia affermare che una società crolla se non è in grado di riprodurre gli individui che la compongono. I comunisti dimostrano al contrario che il modo di produzione capitalista è condannato infine a perire, anche supponendo che esso possa uscire illeso da ogni sua crisi ciclica: che, in ultima analisi, tutto l’agitarsi del capitale sarà inefficace dal punto di vista del suo scopo ultimo – la sua propria valorizzazione. Si tratta piuttosto di stabilire (ma qui entreremmo sul terreno politico, e non è l'argomento di quest'articolo) se, nel proprio perire, il capitale trascinerà con sé l’intera umanità o se l'umanità (ovvero il proletariato), dopo un periodo di rottura rivoluzionaria, sarà in grado di superarlo, per giungere al modo di produzione superiore, al comunismo.

Questo studio incontra poi limiti ulteriori nella sua aderenza alla complessità del reale, limiti che vanno brevemente ricordati. Scrivevamo infatti nel 1957: “La quantità del prodotto globale industriale non è quella essenziale in uno studio marxista, e per evidenti ragioni, di cui ricordiamo le principali […]. Anzitutto la sola economia industriale è insufficiente […], in quanto lascia da parte le vicende cronologiche della produzione delle derrate agrarie che, quando, considerata, leva squilli assai meno gloriosi di quelli della produzione dei manufatti, e specialmente ove sia messa in rapporto agli incrementi della popolazione. […] Inoltre l'indice del gettito industriale di manufatti riunisce in sé in modo indistinto lavoro morto e lavoro vivente nel senso di Marx […], ossia capitale che attraversa inerte la produzione e ricompare immutato, e capitale più consumo aggiunto ad esso nella produzione della forza lavoro, che a denti stretti da alcuni decenni gli economisti borghesi hanno cominciato a chiamare ‘valore aggiunto’!” (“Il corso del capitalismo mondiale nella esperienza storica e nella dottrina di Marx”, Il programma comunista, nn. 16, 18-22, 24/1957).

Ma due ultime considerazioni sono necessarie, prima di chiudere questa introduzione e passare alla disamina dei dati e alle conclusioni. Abbiamo deciso di uniformare la fonte dei nostri dati ai data bases presenti sul portale della Federal Reserve Bank of St. Louis. L'omogeneità nel lungo periodo delle fonti dei dati non è un aspetto secondario in relazione al loro successivo studio: è certo che più vi è disomogeneità nella rilevazione e nella esposizione dei dati, più precarie sono le deduzioni che da essi si possono trarre. Molto impegno ha comportato la raccolta e l'elaborazione dei numeri sul “corso del capitalismo mondiale” in un arco di tempo quasi secolare. Altre volte abbiamo dovuto scegliere fonti diverse dal passato e con questo svolgere un minuzioso lavoro comparativo per rendere i dati comparabili fra loro. Anche in quest'ultimo caso, il lavoro comparativo è stato effettuato e abbiamo verificato che la fonte utilizzata non si discosta significativamente dagli indici già in nostro possesso, frutto di elaborazioni precedenti. Abbiamo anche deciso di retrocedere negli anni la base 100 di riferimento delle varie tabelle: in particolare, le nuove tabelle sono a base 1975=100, mentre precedentemente la stessa base era datata 1985. Ci è sembrato cioè più significativo riparametrare tutti i dati, in quanto il 1975 rappresenta la prima crisi sincrona del capitalismo, dopo la seconda guerra mondiale.

Infine, ci preme sottolineare che le nostre tabelle hanno in sé un duplice valore: uno, scientifico, preziosissimo, perché ci raccontano una parte significativa della storia economica di oltre due secoli del sistema di produzione capitalistico; e uno politico, fondamentale, in quanto rappresentano una delle prove tangibili dell'importanza dell’esistenza materiale del Partito, forma organizzativa soggettiva che supera con la propria permanenza nel tempo e fra le generazioni la finitezza degli individui.

Il nostro metodo

Fin dall'inizio del nostro studio (che, abbiamo visto, data dal 1957), abbiamo applicato uno specifico metodo per trattare i crudi dati statistici. Ciò si è reso necessario per meglio evidenziare il progressivo mutare degli incrementi percentuali annui medi degli indici della produzione industriale, ciclo espansivo dopo ciclo espansivo, eliminando il “rumore di fondo” costituito dalle contingenze economiche annuali (congiunture non significative). Definiamo un ciclo espansivo l’evolversi degli indici da un picco produttivo industriale fino al picco produttivo successivo che abbia la caratteristica di essere maggiore del picco precedente. Abbiamo altresì definito “picco produttivo” un indice che supera per dimensione sia l'indice a esso precedente sia l'indice successivo (1).

Applicando questi due accorgimenti metodologici a una serie qualsiasi di indici nazionali, abbiamo proceduto a semplificare la grezza tabella annua, realizzando una nuova tabella. In essa, non compare più il succedersi unitario degli anni, ma al contrario compaiono ora i cicli, ognuno dei quali è lungo un certo numero di anni; a questo punto, procediamo calcolando l'incremento annuo medio di un ciclo, tenendo conto solo della differenza fra l'indice del secondo picco e l'indice del picco precedente, fratto il numero degli anni del ciclo stesso (2). Così facendo per l'intero susseguirsi degli indici statistici annui, abbiamo creato una nuova tabella, che abbiamo chiamato Tabella dei cicli industriali. Mentre la serie originale aveva una variazione annua, figlia delle contingenze economiche, con una variazione anno per anno di una determinata percentuale (che poteva essere progressiva, ma anche regressiva rispetto agli indici appena precedenti), la Tabella dei cicli industriali mostra, per un dato lasso di tempo (picco dopo picco), un incremento medio percentuale per l'intero perdurare del ciclo. Eseguita questa prima semplificazione, abbiamo nuovamente applicato il medesimo metodo sui nuovi picchi della Tabella dei cicli industriali e abbiamo tratto una seconda tabella, definita Tabella dei cicli brevi. Con un’altra semplificazione sulla serie dei cicli brevi, abbiamo tratto un’ultima tabella, la Tabella dei cicli lunghi (3). Questa serie di semplificazioni ci ha permesso di trasformare il caotico succedersi nel tempo degli indici della produzione industriale in una serie più coerente e intellegibile di dati, una serie di incrementi medi annui che meglio possono indicarci il cammino del progressivo crescere assoluto e relativo delle produzioni industriali (ammesso che vi sia sempre una crescita delle medesime).

A ogni passaggio (ovvero, passando dai puri dati statistici ai cicli industriali, ai cicli brevi e infine ai cicli lunghi), sono emersi sempre più nitidi sia lo stabilizzarsi progressivo dei periodi di tempo dei cicli per le diverse nazioni (ma anche fra nazioni differenti), sia l'evolvere del fenomeno della progressiva caduta degli incrementi relativi degli indici industriali, oggetto specifico del nostro studio.

Nei precedenti articoli, pubblicati nel 2004 e nel 2008, avevamo seguito l'andamento dei cicli brevi e dei cicli lunghi, in particolare delle sei nazioni classiche (4), lasciando aperto un interrogativo: se eravamo ormai alla fine del quarto ciclo espansivo e se, eventualmente, il definirsi di questo fosse in piena continuità con il fenomeno della decrescenza (per i primi tre cicli, pienamente confermato dai dati statistici borghesi). La presente integrazione del nostro pluridecennale studio del “Corso del capitalismo mondiale” si occuperà proprio di rispondere a tale domanda e di trarre dalla risposta le dovute conseguenze per il futuro procedere dell’espandersi della produzione industriale (rimandiamo agli articoli citati lo studio sistematico degli anni precedenti) (5).

L'andamento degli indici

Nella Tabella 1 (e nel Grafico 1), sono riportati per le sei nazioni classiche gli indici della produzione industriale a partire dal 1975 (=100). Nella Tabella, sono evidenziati in grassetto e in grigio scuro i vari picchi che si sono determinati nel lasso di tempo preso in considerazione, in grassetto e in grigio chiaro gli indici degli anni di massima contrazione della produzione, e infine in grigio chiaro ma non in grassetto gli anni di recessione semplice ma non massima.

Prendendo in considerazione solo gli ultimi anni, il primo fenomeno evidente è che, a eccezione della Gran Bretagna che ha avuto l'ultimo picco nel 2000, tutti gli altri paesi hanno avuto un picco produttivo nell'anno 2007 (per la Germania, il 2008: ma poco cambia). Gli indici sono: Gran Bretagna, 141,4 (ma, come s’è detto, non si tratta di un picco produttivo, in quanto non supera il picco precedente del 2000); Francia, 154,5; Germania, 188,7; Stati Uniti, 244,8; Italia, 171,2; Giappone, 225,8. Facendo 100 il 1975 (ripetiamo: prima crisi sincrona del mondo capitalista dopo la carneficina della seconda guerra mondiale, che segna anche la fine della lunga fase espansiva durante la quale la massa della produzione industriale di questi paesi ha continuato a crescere), la crescita degli indici in termini assoluti ha visto al primo posto gli Stati Uniti, seguiti da Giappone, Germania, Italia, Francia e infine Gran Bretagna.

Il secondo fenomeno che balza agli occhi è la profonda flessione in cui tutti i paesi sono incappati, di gran lunga più grave di quella verificatasi nel 1975: la recessione del 2007 è stata di una dimensione praticamente doppia di quella del 1975! In particolare: USA, -14,29% (1975, -9,25%); Giappone, -23,56% (1975, -14,60); Germania, 17,27% (1975, -7,83%); Francia, -16,56% (1975, -8,5); Italia, -21,61% (1975, -9,17%); Gran Bretagna,-12,23% (1975, -4,76%).

Il terzo fenomeno ben evidenziato dai puri dati statistici è la risposta successiva alla crisi 2008/2009, messa in campo da ciascun sistema produttivo industriale nazionale. In particolare, i destini dei sei paesi si sono divisi in due andamenti del tutto opposti: nel 2014, Usa e Germania hanno segnato un nuovo picco produttivo, aprendo così un ulteriore ciclo industriale, anche se i due cicli si possono definire asfittici, avendo incrementi medi annui per gli USA dello 0,54% e per la Germania dello 0,34%; ma, nonostante la loro esiguità, se questi incrementi vengono confrontati ai destini degli altri quattro paesi, essi assumono l’illusoria dimensione di passi da gigante: infatti, per Francia, Italia e Giappone si prospetta un bagno di sangue, visto che, a distanza di 7 anni, non hanno ancora recuperato i livelli pre-crisi. Così, la Francia ha segnato un ciclo negativo che le ha visto perdere una media di produzione annua dell’1,97%, il Giappone dell’1,80%, l'Italia del 3,69%. Discorso a parte è quello che riguarda la sola Gran Bretagna, che in realtà ha del tutto perso la fiammata produttiva del 2007 e da ben 14 anni è avviata su una strada di sostanziale e irreversibile (almeno ad oggi) declino industriale, segnando un ciclo negativo dell’1,32% annuo, lungo ben 14 anni.

I cicli lunghi

Veniamo ora alla disamina della Tabella 2 (e del relativo grafico): la “Tabella dei cicli lunghi”. Come abbiamo anticipato nell'ultimo dei nostri articoli sul corso del capitalismo (2008), al tempo non eravamo in grado di rispondere alla domanda se il 2007/2008 avesse segnato la fine del quarto ciclo lungo, da che, nel 1859, abbiamo iniziato ad avere a disposizione una serie ininterrotta di indici della produzione industriale. Oggi, 2014, siamo in grado di rispondere a quella domanda e di stabilire definitivamente che l'anno 2007(2008) è stato l'anno di chiusura del quarto ciclo lungo e conseguentemente l'inizio del quinto ciclo.

Vediamo più da vicino l’evoluzione degli indici. In primo luogo, essi ci mostrano l'estrema difficoltà di ogni economia nazionale nel sostenere gli incrementi medi di produzione assoluta: unico fra i paesi considerati, la Gran Bretagna chiude addirittura il proprio ciclo lungo con 7 anni di anticipo sugli altri, segnando un incremento medio annuale nell'arco di 27 anni di appena l’1,1% (ma il dato risulterebbe addirittura dell’1%, se lo parametrassimo all'anno 2007); dell’1% in 33 anni è il dato che scaturisce per la Francia; la Germania, nei suoi 34 anni, fa segnare un incremento medio dell’1,6% e, insieme all'Italia che in 33 anni segna l'1,3%, è il paese europeo che si distacca di poco dalla “morte termica” di Francia e Gran Bretagna; gli Usa con il 2,4% in 33 anni e il Giappone con il 2% sono gli unici due paesi ad avere incrementi ancora apprezzabili (ma non ci si deve far ingannare troppo da questi due dati: come abbiamo già sottolineato in precedenza dopo il picco del 2007, l'inizio del quinto ciclo è all'insegna della crisi di produzione più nera, come bene si evince dalla Tabella).

Il dato più interessante è offerto poi dalla disamina complessiva dei cicli: essa ci mostra come la nostra classica previsione degli incrementi decrescenti nel tempo sia pienamente dimostrata Gran Bretagna: I ciclo, 3,6; II ciclo, 2; III ciclo, 1,9; IV ciclo, 1,1. Francia: I ciclo, 4,1; II ciclo, 2,7; III ciclo, 2,3; IV ciclo, 1. Germania: I ciclo, 4,6; II ciclo, 4,3; III ciclo, 2,3; IV ciclo, 1,6. USA: I ciclo, 7,2; II ciclo, 6; III ciclo, 4,0; IV ciclo, 2,4. Italia: III ciclo, 4,2; IV ciclo, 1,3. Giappone: III ciclo, 7,4; IV ciclo, 2,0. Ecco di fronte ai nostri occhi, incontestabilmente, la caduta tendenziale del saggio medio di profitto, la caduta dell'intero sistema verso un crollo apparentemente irreversibile. Altrettanto interessante è osservare come il crollo relativo, ciclo dopo ciclo, dei vari paesi è sempre più accelerato: non solo la produzione industriale continua a calare relativamente, ma a ciò si somma il fatto che ogni perdita degli incrementi medi è sempre più alta di quella precedente.

La sola eccezione a questa costante discesa è possibile osservarla se il III ciclo, durato ben 60 anni, viene diviso in due sottocicli (che negli articoli precedenti abbiamo definito come ciclo IIIa e ciclo IIIb): in particolare, il ciclo IIIb e quello che va dal 1946 al 1973/5. Gli incrementi sono i seguenti: Gran Bretagna, 3,36 (III, 1,9); Francia, 6,52 (III, 2,3); Germania, 10,96 (III, 2,3); Stati Uniti,4,50 (III, 4,0); Italia, 8,44 (III, 4,2); Giappone, 15,09 (III 7,4). Questa forte ascesa degli incrementi medi annui non invalida la tendenza alla caduta del saggio medio di profitto: al contrario, questo particolare andamento in controtendenza è una ulteriore conferma delle nostre considerazioni. Infatti, la momentanea inversione di tendenza è stata possibile solo grazie alla massiccia distruzione di risorse umane e materiali come conseguenza della Seconda guerra mondiale, e non a caso l’unico paese che non ha visto un grande incremento degli indici nel IIIb sono proprio gli Stati Uniti, che non hanno subito nessuna distruzione di capitale costante sul proprio territorio (e non è un caso che, specularmente, i maggiori incrementi li abbiano registrati i paesi che hanno sofferto la maggiore devastazione sul proprio territorio).

Finiamo ora questo paragrafo, indicando un ulteriore fenomeno che si può dedurre dalle nostre curve, tratte dalle tabelle nazionali. A un’attenta osservazione, notiamo che, dal 2000 a oggi, le curve assomigliano sorprendentemente a quelle che gli indici hanno mostrato nel periodo precedente al 1913 e in quello fra le due guerre mondiali. Mentre negli anni precedenti al 1913, le curve hanno segnato una sostanziale linearità, tendenzialmente sempre al rialzo e con solo alcuni anni di recessione, nell’arco di anni che va dal 1913 al 1940 le curve hanno iniziato a oscillare e zigzagare, senza di fatto riuscire ad avere più un trend positivo e a segnare una salita tendenziale. Anzi, tutti i paesi ad eccezione degli Stati Uniti, alla fine della seconda guerra mondiale avevano azzerato la crescita degli indici precedente. Se osserviamo le stesse curve per gli anni 2000-2014 vediamo lo stesso fenomeno zigzagante e la stessa difficoltà a riprendere il cammino della crescita tendenziale e a superare i massimi precedenti.

Conclusioni

Qual è dunque lo stato della produzione industriale dei paesi considerati e quali deduzioni possiamo trarne? Abbiamo visto che la chiusura del IV ciclo ha segnato un arretramento della capacità di crescita relativa e assoluta di tutti e sei i paesi che, ad eccezione di Stati Uniti e Giappone, hanno oramai segnato il passo. Nel IV ciclo, gli Usa hanno continuato a sostenere la propria produzione grazie all’intervento attivo in ogni conflitto a partire dalla Seconda guerra mondiale; il Giappone ha resistito almeno fino al 2007, grazie all'immensa distruzione di capitale costante come conseguenza della Seconda guerra mondiale.

Se analizziamo l'inizio del V ciclo lungo, solo Stati Uniti e la Germania hanno saputo eguagliare e superare nel 2014, se pur di poco, il picco precedente del 2007. Ciò è stato possibile per le condizioni di favore di cui i due colossi hanno goduto: la Germania ha esaltato la propria competitività grazie all’euro, col risultato di una ipertrofica esposizione del sistema produttivo verso le esportazioni nei mercati mondiali; per parte loro, gli Stati Uniti continuano a primeggiare grazie alla supremazia del dollaro e a un sistema finanziario al centro della gestione dei flussi internazionali di capitale. Accanto a queste condizioni monetarie e finanziarie, entrambe le potenze hanno marciato con i profitti derivanti dagli investimenti esteri e dalle delocalizzazioni e, ora che i vantaggi di questo processo si vanno esaurendo, tendono a riportare produzioni e capitali all’interno dei patri confini. L’insieme di questi fattori ha determinato il contemporaneo schiacciamento delle economie manifatturiere concorrenti. Tutti gli altri sistemi produttivi, infatti, hanno segnato il passo e per Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone si può ben dire che oramai hanno perso una fetta consistente della loro capacità produttiva, e tale perdita oramai sarà ben difficile da colmare – e ciò, sia in riferimento all'ampliamento del numero degli Stati manifatturieri e dunque della concorrenza internazionale negli ultimi 30 anni, sia in riferimento alla crisi di sovrapproduzione iniziata proprio nel 2007, che ha visto un’ulteriore (e difficilmente reversibile) concentrazione e centralizzazione dei capitali a livello mondiale.

Al di là però delle diverse capacità di proteggere il proprio apparato industriale, ciò che più importa, almeno per i rivoluzionari, è che la previsione della caduta del saggio medio di profitto sul lungo termine è inequivocabilmente confermata dai dati statistici. La capacità di fare profitti, risultato della capacità di aumentare anno dopo anno, ciclo dopo ciclo, la propria produzione industriale, è ormai messa a dura prova e i paesi occidentali non sono più in grado di valorizzare il proprio capitale non riuscendo più, se non con indici infimi, ad allargare la propria produzione manifatturiera. L'aspetto più importante che emerge dalla disamina dei dati dal 1859 ad oggi non è tanto legato ai diversi destini, alle contingenze particolari, alle gerarchie imperialiste fra i vari paesi. Tutt'altro. Sul lungo periodo dei circa 160 anni, niente ha potuto invertire la caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Tutti i paesi non hanno potuto far altro che percorrere la medesima strada e semmai l'unica differenza è stata la velocità con la quale ognuno di essi si è avvicinato al baratro.

A questo punto, è giusto soffermarsi su una sempre meno credibile illusione della borghesia mondiale. Ci riferiamo al luogo comune che vuole compensati dalle nuove produzioni mondiali gli andamenti congiunturali da coma vegetativo dei paesi a più antico capitalismo. Non possiamo qui sviluppare un ampio ragionamento: ma, anche solo limitandoci ai famosi BRIC, ecco che il Brasile e la Russia sono pesantemente in recessione e l'India e la Cina rallentano in maniera vistosa. Se analizziamo le loro serie statistiche, si percepisce già graficamente la presenza, anche nelle dinamiche economiche della caduta tendenziale del saggio medio di profitto.

Se a tutto ciò, sommiamo poi (come abbiamo già accennato) l’andamento della curva degli indici, che tanto assomiglia a quello rilevato durante il primo quarantennio del '900, all'orizzonte del sistema capitalistico, ma anche dell'intera umanità, si fanno sempre più minacciose le ragioni della necessità di un terzo conflitto mondiale. Un ennesimo bagno di sangue generale dovrebbe abbattere la sovrapproduzione dei fattori della valorizzazione nel tentativo di ripetere le performances seguite alla fine della Seconda guerra mondiale.

Sia quel che sia, il sistema capitalistico è in profonda crisi e all’orizzonte non si vedono soluzioni pacifiche di sorta. Nessuna “nuova rivoluzione industriale” è alle porte e non c’è nessun nuovo territorio da conquistare al modo di produzione capitalistico, essendo ormai l’intera terra da molto tempo… satura di capitalismo. In queste condizioni, il malato è in agonia. Ma non ci farà la grazia di tirar le cuoia da solo. E’ al proletariato che spetta il compito di dargli il colpo di grazia pena il rovinare nel baratro della guerra(6)

 

NOTE

(1) Facciamo un esempio numerico. Prendiamo in considerazione gli indici degli Stati Uniti dal 1973 al 1992. Ecco la sequenza degli indici statistici: 1976, 107,8; 1977, 116,0; 1978, 122,4; 1979, 126,2; 1980, 122,8; 1981, 124,4; 1982, 118,0; 1983, 121,1; 1984, 131,9; 1985, 133,7; 1986, 135,7; 1987, 142,1; 1988, 149,7; 1989, 151,0; 1990, 152,3; 1991, 150,1; 1992, 154,3. Applichiamo adesso il nostro metodo. Ricerchiamo per prima cosa i picchi, che hanno la caratteristica di essere indici più alti dall’indice immediatamente precedente e immediatamente seguente: nel nostro caso specifico, essi sono l’indice del 1979, poi quello del 1981, e infine quello del 1990. Ora, evidenziati questi, determiniamo i cicli espansivi: nel caso in esame, il ciclo è uno solo, quello che inizia nel 1979 e termina nel 1990. Infatti, il picco del 1981 non può determinare un ciclo, in quanto, pur essendo un picco, esso non supera per valore assoluto il picco precedente del 1979.

(2) Prendiamo sempre l’esempio precedente e calcoliamo l’incremento annuo medio per il ciclo 1979 1990. Per fare questo applichiamo la seguente formula: indice maggiore (1990)/indice minore (1979), il risultato del quale va messo sotto la radice ennesima, ovvero la radice ennesima pari al numero degli anni del ciclo, meno 1 ed infine per 100. Rapporto degli indici: 152,3/126,2=1,206814; radice11esima del rapporto=1,01723; differenza (1,01723 - 1)= 0,01721; in percentuale=1,7221%.

(3) In realtà, nel passaggio da cicli industriali a cicli brevi, e ancor di più nel passaggio da cicli brevi a cicli lunghi, abbiamo rettificato le determinazioni puramente matematiche con considerazioni storico-politiche più generali.

(4) Queste sono, per comparsa successiva nel mondo di produzione capitalistico: il Regno Unito, la Francia, la Germania, gli Stati Uniti, l’Italia insieme al Giappone.

(5) Il programma comunista, n. 4/2004 e n.1/2005; Il programma comunista, nn.1 e 2/2008.

(6) Nell’ultimo scorcio dell’estate 2015, molti editoriali e interventi hanno parlato apertamente di “III Guerra Mondiale”. In Italia, perfino il Presidente della Repubblica s’è espresso apertamente in questo senso, parlando di seria possibilità di entrare in una guerra totale! La borghesia, con le sue antenne fatte di esperienza storica…

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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