Probabilmente nessun movimento sociale e politico nella storia dell’umanità ha prodotto una massa di documentazione sul proprio passato, sulle proprie esperienze, sulle proprie vittorie e le proprie sconfitte, come quella che può vantare il marxismo rivoluzionario.

Per spiegare questo fatto, tanto evidente quanto singolare, non serve ricorrere alla necessità così spesso invocata (soprattutto da coloro che usano la storia delle lotte proletarie a scopo accademico e per qualche avanzamento di carriera) di “confrontare” gli aspetti dottrinali con la pratica realtà, col “movimento reale”. Ne consegue sempre la scontata conclusione che… la teoria marxista non regge all’analisi “critica” di questi signori; che “il mondo è totalmente cambiato dai tempi di Marx”; che, anzi, non servono più teorie che studino le leggi della società umana: carpe diem, vivi alla giornata, prendi quello che ti danno, e sii felice così... Perciò, secondo questi “studiosi” – che si collocano in un campo a noi avverso –, prima la tattica, poi la strategia, infine tutto il corpo teorico che permea e caratterizza il programma di un partito rivoluzionario, vanno continuamente trasformati e annacquati, nella rincorsa alla mutevole “realtà”, imprevedibile e, perciò, sempre imprevista. Per essi, la conoscenza è “un processo” che si compie al di fuori delle classi e della lotta di classe; e per non pochi di costoro, la stessa conoscenza dei fatti sociali è impossibile. Per i marxisti, la conoscenza – in particolare la conoscenza delle leggi che operano all’interno di una data società di classe – sorge nei grandi trapassi rivoluzionari, nei salti da un modo di produzione all’altro, nei momenti in cui masse immense si mettono in moto.

Non è scopo di questo articolo fornire al gregge sterminato di negatori del marxismo le prove per dimostrare che esso (il marxismo) spiega non solo l’origine e lo sviluppo dell’attuale società capitalistica, ma ne dimostra anche l’ineluttabile fine – legata alle enormi contraddizioni accumulate nel corso di secoli tra lo sviluppo delle forze produttive e l’involucro troppo ristretto in cui lo scambio mercantile e l’insieme dei rapporti sociali vengono costretti. Nostro intento è, invece, esaminare come le determinazioni storiche hanno spinto (e spingeranno nuovamente) le masse contro lo Stato costituito borghese.

La moderna dottrina rivoluzionaria, il marxismo, è nata dall’esperienza storica della lotta che grandi masse hanno condotto nella rivoluzione borghese anti-feudale e dall’immediata contrapposizione dialettica alla dottrina della rivoluzione borghese. Da allora (indichiamo pure un testo e una data riassumenti in sé un intero percorso storico e sociale: il Manifesto del Partito comunista del 1848), la teoria rivoluzionaria non ha più bisogno di “ritocchi” – e coloro che non lo capirono furono i peggiori nemici del comunismo sull’arco di tutta la sua storia. 

Oggi, le condizioni per la ripresa della lotta rivoluzionaria su scala continentale appaiono ancora lontane, nonostante il rapido deteriorarsi delle condizioni di vita per numeri enormi e crescenti di lavoratori, la pressoché totale insicurezza del posto di lavoro, l’erosione del salario reale e le legittime ma saltuarie, non coordinate e presto esaurite, rivolte nelle cosiddette “periferie” urbane, dove da sempre sono stivate le masse proletarie. Se il processo rivoluzionario tarda a riaffermarsi in un mondo che sempre più scivola verso la violenza aperta tra Stati capitalistici avanzati – oggi ancora trattenuta nei limiti di guerre commerciali (sempre più cruente) e a stento nei canali della diplomazia – , non è certo un fatto “generazionale”, da collegarsi solo alle catene ideologiche imposte alle masse da una vigile e ben orchestrata pubblicità dell’inutile e dell’antisociale. Dobbiamo constatare che queste masse, nel loro insieme, hanno perduto completamente la memoria delle grandi lotte di classe che furono combattute in Italia, in Germania, in Russia, in Ungheria, nei primi decenni dello scorso secolo. E, soprattutto, hanno perduto il senso dell’appartenenza all’unica classe rivoluzionaria che il capitalismo ha espresso nel suo secolare percorso; hanno perduto la capacità di affrontare e discutere dei grandi temi posti dalla storia, che pure erano tutti noti (anche agli analfabeti), prima che l’ondata peggiore dell’opportunismo e dello stalinismo si abbattessero sul movimento rivoluzionario.

Contro questa perdita della memoria di classe è necessario reagire nel modo più vigoroso. L’esempio delle lotte rivoluzionarie del passato, che gli ideologi al servizio della borghesia cercano di nascondere oppure di presentare come pure agitazioni per la difesa della democrazia (cioè dell’ordine costituito, dello Stato borghese nella sua versione “gentile”), va riproposto con chiarezza. Va studiato. Esso non deve servire per “capire gli errori” (“se al posto di X ci fosse stato Y, come sarebbe stato meglio!”), quasi che ci trovassimo al cinema a vedere un film il cui finale è aperto e può sempre essere scelto a giudizio del rincoglionito spettatore. Va studiato per far piazza pulita, una volta per tutte, dei disfattisti, dei pessimisti, dei venduti, che ci hanno riempito le orecchie per decenni al grido di “il proletariato non esiste più!... la lotta di classe è finita per sempre!”, e che ora, alle ancora sporadiche ma violentissime rivolte che attraversano le città, tremano all’idea che “quegli anni” tornino. Va studiato e capito, perché quelle lotte si possano ripresentare con tutta la forza e la decisione che la battaglia per il comunismo richiede.

A questo infame processo, della rimozione della memoria di classe, hanno contribuito per decenni e decenni non solo il relativo “benessere” degli anni successivi alla II guerra mondiale, quando col sistema del credito l’operaio pensava di “arricchirsi” vendendo la propria forza-lavoro del futuro, e in realtà vendendo alla classe borghese la propria vita e diventando, di fatto, uno schiavo. Hanno giocato un ruolo nefando lo stalinismo, che ha presentato l’economia russa, mercantile e monetaria (e perciò capitalistica) e basata su ritmi infernali di sfruttamento della forza-lavoro, come se si trattasse di “comunismo”, e ha fatto bere alle masse di tutto il pianeta quest’infame menzogna, col suo corollario dell’URSS come “paese-guida” del proletariato mondiale, ridando vita alla neppur larvata ideologia di un “comunismo nazionale” (quando, fin dalla sua nascita, la teoria rivoluzionaria aveva distrutto ogni ottica di patrie e di bandiere nazionali); e il consueto lavorio condotto dall’opportunismo piccolo-borghese, secondo il quale i contrasti sociali andrebbero risolti attorno agli innumerevoli “tavoli delle trattative” col padrone o per delega a qualche “avvocato del lavoro”.

Contro questa rimozione della memoria di classe noi lavoriamo da sempre, e in particolare, fin dai primi anni ’60 del ‘900, con i volumi che si sono succeduti (spesso a lunghi intervalli, dovuti alle inevitabili traversie di un’organizzazione politica come la nostra, agente in un’epoca profondamente controrivoluzionaria) di questa nostra Storia della Sinistra comunista. Che non è, né potrebbe mai essere, una “storia nazionale”, legata a un paese specifico o – peggio ancora – ruotante intorno a questa o quella personalità: fin da quando la nostra corrente si è enucleata dall’interno del Partito Socialista negli anni ’10 del secolo scorso, i problemi che essa ha posto, a livello teorico-programmatico e strategico-tattico, hanno sempre avuto un indirizzo, un orientamento, un respiro, internazionali, in stretto e inossidabile legame con i principi del materialismo dialettico, del comunismo rivoluzionario. Tanto meno potrebbe essere, questa nostra Storia, una nostalgica o romantica rievocazione del “tempo che fu” o un’ennesima operazione di archeologia o paleontologia. La memoria di classe che noi difendiamo e riproponiamo non è “gelatina congelata”: è energia sociale che continua ad agire, forse oggi come fiume carsico, ma destinata domani a riaffiorare con tutta la forza materiale dei grandi sommovimenti storici. E’ parte del nostro complessivo lavoro di partito “in difesa della continuità del programma comunista”, arma affilata con cui prepariamo i quadri di partito in un oggi gramo e che consegniamo alle future generazioni di militanti rivoluzionari.

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Ribadito tutto ciò, passiamo a presentare questo V volume in preparazione della nostra Storia della Sinistra comunista, di cui abbiamo offerto, nei numeri scorsi di questo giornale, ampi assaggi tratti soprattutto dalla grande mole di documenti a nostra disposizione, che, almeno in parte, andranno a formare il corpo del volume. Il 1922, l’anno di cui ci occupiamo, è di eccezionale importanza per il movimento rivoluzionario internazionale, non solo italiano. Dopo il II Congresso del Partito (marzo 1922), di cui trattò il IV volume, il conflitto sociale toccò punte di grande violenza: da una parte, lo sciopero dei metallurgici, scesi in lotta per la difesa del salario e del posto di lavoro, una magnifica lotta di solidarietà durata quasi due mesi, che si trascinò dietro le lotte di tessili, edili, chimici ecc., alla fine tradita, una volta di più, dai vertici sindacali; dall’altra, le crescenti aggressioni fasciste a sedi di cooperative, di giornali operai, di partiti, preludio ai veri e propri saccheggi e devastazioni di campagne e di città (Novara, Ancona, Bologna ecc.) del mese di luglio.

In questo periodo, il PCd’I, che continuò a esortare e a operare per l’unità proletaria nelle lotte, per la preparazione non avventurosa dello sciopero generale (al contrario di quanto avverrà di lì a poco, per iniziativa sindacale), mandò i suoi rappresentanti a Mosca, per un importante incontro con i vertici dell’Internazionale Comunista: l’Esecutivo Allargato di giugno. Fu in quella sede che emersero, tuttavia in modo ancora contenuto, alcuni importanti contrasti tra il Partito e l’IC, sull’attuazione della tattica da usare in rapporto con le grandi questioni del momento: come fronteggiare l’offensiva fascista; come agire di fronte al massimalismo socialista; come cercare di acquisire maggiore ascendente sulle masse. È qui che si delinearono in modo assai netto due modi antitetici di concepire l’azione di un partito comunista: quello dell’Internazionale, tutto teso al recupero del massimalismo, nella vana speranza che esso, formalmente riassorbito nelle organizzazioni comuniste, cambiasse la propria pelle opportunista; e quello del PCd’I, che non mancò mai di mettere in guardia contro le tentazioni unitarie, sottolineando come queste, ben lungi dall’aumentare la forza del partito, avrebbero portato alla più totale confusione e quindi alla catastrofe. E tuttavia, nonostante dure prese di posizione da parte di Zinoviev, presidente dell’IC, che voleva imporre direttive equivoche (come quella del “governo operaio”, formula dietro la quale si celava, come la storia ampiamente dimostrò di lì a poco in Germania, il compromesso con la socialdemocrazia), i delegati del PCd’I fecero di tutto per smussare gli spigoli, cercando di mantenere la discussione entro i limiti di una controversia sorta tra comunisti, manifestando nelle corrispondenze internazionali e con il resto del partito in Italia un intatto ottimismo, e infine accettando anche le misure imposte dall’Internazionale: prima fra tutte, l’individuazione di un processo che avrebbe dovuto portare a una fusione con un rinnovato PSI epurato dagli elementi di destra.

La crisi di governo di fine luglio, dalla quale l’opportunismo socialista pensava di riuscire a ricavare vantaggi parlamentari utilizzando la tensione sociale, condusse allo sciopero generale dei primi giorni di agosto: malissimo preparato, senza nessuna indicazione sulle sue finalità, frettolosamente dichiarato finito, esso ebbe come risultato di dimostrare chiaramente che l’unico partito che sarebbe stato in grado di guidarlo – non verso l’assalto al potere dello Stato, cosa ormai impossibile dopo tre anni di lotte che avevano certo diminuito l’energia operaia, ma verso una riorganizzazione delle forze e delle resistenze contro l’assalto fascista – era il PCd’I. Dopo lotte disperate, che in molte città si protrassero per quasi tutto il mese di agosto, e in cui l’apporto del PSI fu solo quello di confessare la propria assoluta impotenza, era chiaro che le squadre in camicia nera sostenute vigorosamente dalla Guardia regia avrebbero vinto la partita.

Le manovre dell’Internazionale, condotte in modo assai poco limpido contro la direzione del Partito per tutto il mese di settembre, in vista dell’annunciata scissione del PSI con l’espulsione di Turati e altri riformisti di destra, portarono alla decisione di alzare la voce, in difesa non solo del Partito italiano, ma di tutta la conduzione politica dell’Internazionale, nel successivo IV Congresso, convocato a Mosca per il mese di novembre. È qui che, per la prima volta in modo assolutamente chiaro, si levò la voce della Sinistra comunista in nome dei principi rivoluzionari, contro tattiche equivoche, le quali facevano intuire come l’Internazionale stesse ponendosi su un piano inclinato estremamente pericoloso, con la rinuncia (certo non ancora espressa in modo formale) ad alcuni dei principi fondamentali del marxismo rivoluzionario, come quello del ruolo primario del partito, della dittatura del proletariato, della rinuncia al ricorso alla democrazia borghese in chiave opportunista.  Intanto, mentre si discuteva a Mosca, si era svolta la farsa della marcia su Roma: Mussolini prendeva legalmente il potere con l’appoggio della maggior parte dei partiti democratici e iniziava la repressione anti-operaia. Il volume si concluderà quindi con l’arresto – tra gennaio e febbraio 1923 – di buona parte dei vertici del PCd’I: il preludio e l’occasione per la sostituzione del vecchio Esecutivo del Partito, con altri militanti di centro e di destra, più graditi all’Internazionale.

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Negli ultimi decenni, le vicende della Sinistra comunista, che da allora dovette porsi in contrasto con la direzione internazionale in difesa del programma comunista integrale, hanno interessato parecchi storici, accademici o no.

In una prima fase, nei primi anni del secondo dopoguerra, si vide il forte schieramento del “comunismo” nazionale, sottoprodotto dello stalinismo imperante, andare a ritroso, sulla base delle posizioni della democrazia minacciata da qualche totalitarismo, per rivendicare le lotte di “difesa della patria”, il partigianesimo quale “secondo Risorgimento”, e di qui risalire al suo lontano (ma certo non così smaccatamente canagliesco come saranno i successori) antesignano, quel Gramsci spacciato niente meno quale “fondatore del Partito di Livorno”. Si trattava, allora, di ribadire, da parte di Togliatti prima e dei suoi lustrascarpe poi (i vari Germanetto, Robotti, Secchia e colleghi), che nulla andava risparmiato al fine di eliminare dalla memoria di classe quel periodo – il 1921-22 – e quel Partito diretto dalla Sinistra comunista.

In una seconda fase, più recente, cominciarono a manifestarsi voci “critiche” allo stalinismo, che, “criticamente”, cercavano di fare un po’ di luce su quei lontani anni. Ma anche qui, tutto il lavoro fatto allora dal Partito era ridotto, per la massima parte e in modo piuttosto pettegolo, a quello di quel suo famoso “capo”, di cui si pensava “che sì, era il migliore, ma ha spesso sbagliato” – e qui una interminabile lista di “errori”. Almeno, questo manipolo di studiosi ebbe il merito di riportare alla luce un materiale documentario di notevole importanza, benché regolarmente interpretato in chiave più o meno truffaldina, e sempre in ottica di bottega mercantile.

Per evitare i pettegolezzi, in cui spesso cadono questi storici che rovistano in fatti sovente privati e strettamene personali, e del tutto privi d’importanza alla scala storica, noi abbiamo utilizzato nella nostra ricerca non solo gli articoli e le lettere di chi fu sicuramente alla guida del Partito in quei difficili anni, ma anche i materiali prodotti dall’insieme del Partito, nei suoi manifesti, nei suoi editoriali, nelle sue corrispondenze talora anche locali; e ciò perché, in quel periodo nel quale la Sinistra ne ebbe la direzione, il Partito mostrò di essere veramente, nonostante alcune, controllate e controllabili opposizioni, un’unità di battaglia coerente e omogenea. È, certo, anche in quelle antiche meravigliose battaglie che il giovane proletariato di oggi e soprattutto di domani potrà ritrovare l’ossigeno necessario per prepararsi alle lotte che l’attendono, per sottrarsi alle vane chimere e lusinghe, che sempre si ripresentano, di tutte le parole d’ordine, programmi, ideologie di smaccata natura borghese e piccolo-borghese, come lo spontaneismo, il velleitarismo, l’immediatismo, l’antipartitismo. Tutta la nostra storia passata, così come i nostri testi, “si devono leggere pensando che non nacquero per andare a riempire un certo vuoto in uno scaffale della biblioteca aggiungendo un capitolo in astratto ad una astratta materia e disciplina, ma nel vivo di una polemica che era la sottostruttura storica di una reale battaglia di opposte forze ed interessi”, come si legge nella nostra Struttura economica e sociale della Russia d’oggi (1955, 1976). Ognuno è libero di “leggere” la storia di quegli anni secondo la propria ottica “critica”. Noi saremo lì a contrastargli il passo in tutte le occasioni. E’ questo il senso di questa nostra Storia, del nostro lavoro militante di partito.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista)

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