In Francia, si vieta il burqa; in Italia, si plaude alla decisione. Ma intanto di “burqa nazionali” il mondo si riempie sempre più, per iniziativa di quegli stessi che vietano il burqa o vorrebbero vietarlo. Di che razza di materiale, infatti, sono intessuti l'identità del luogo, la certificazione di nascita? Sono un marchio a freddo come l'unzione battesimale o a caldo come quello che si imprime dolorosamente sui corpi incatenati delle mandrie? Lascia liberi gli occhi o copre l'intero corpo?

Attraverso le fessure del “burqa nazionale”, occhieggiano le virtù patrie, gli eroici furori su cui si fondarono gli affari della borghesia (liberté, egalitè, fraternité), e cercano di affascinare i senza patria, i proletari di tutto il mondo. Ai quali s'impone d’indossarlo, quel “burqa nazionale”, e di sottomettersi alla disciplina sociale che esso rappresenta (gli “interessi nazionali”! l’“economia nazionale”!): la disciplina del lavoro incatenato che “rende liberi”, che dà “dignità ad ogni uomo”, come strimpella con il suo mandolino ogni piccolo-borghese (democratico, nazista, stalinista), venditore specializzato di simili vestiari. Oh! non si tratta di burqa indifferenziati! ognuno ha i colori della nazione, della bandiera nazionale, oltre che usi e costumi diversi: spaghetti, crauti, omelettes, cheeseburger…

Mentre il corso rivoluzionario della storia liberava l'economia e la società dai fardelli schiavisti e feudali, tra cui il possesso personale e l'attività servile, ecco che un pesante pastrano con qualche apertura “funzionale” all'altezza degli occhi e delle braccia (il lavoro salariato ha pur bisogno di mani per operare alla catena di montaggio e di occhi per vederla: non tutta, certo, basta quel piccolo settore che sta di fronte...) veniva calato sui proletari perché non sentissero il peso di doversi vendere come merce: il “burqa nazionale”, per l’appunto. “Per fortuna”, si sono poi trovati facilmente i venditori sindacali di merce forza-lavoro: e si sono sistemati per bene nella società del capitale, dentro a quel pastrano. Come dentro a quel pastrano, tutte le chiese, tramontata l’epoca medievale del loro dominio materiale e spirituale, si sono parassitate, spacciando la droga  della rassegnazione, della morte come segno di grazia, dell'assenza di speranza. A loro volta, tutte le menzogne opportuniste hanno forgiato e continuano a forgiare catene reali, con le illusioni progressiste e riformatrici di emancipazione sotto il segno del capitale – sempre ben dentro il “burqa nazionale”.

Quello del burqa, dunque, non è un “problema femminile”, ma un problema di classe. Non è possibile un'emancipazione umana che stia tutta dentro la miseria della società borghese: solo la rivoluzione proletaria può varcare la soglia della terribile divisione sociale e umana, nella gioia dei corpi non più vincolati nella stratificazione sociale in cui li iscrisse l’anagrafe. Le catene che legarono e che legano ancora le donne alla proprietà del maschio, della famiglia, della società, sono antiche quanto la società patriarcale, quanto la società divisa in classi: la società capitalista, che ne ha ereditato le atrocità, è la peggiore forma sociale per ogni essere – non solo umano, ma vivente. Al vecchio burqa religioso, divenuto più nascosto e pericoloso, il burqa del lavoro salariato ha impresso la sua direzione, il suo fondamento economico e nazionale. Alla lapidazione individuale, ai pogrom etnici e limitati ha aggiunto la sua impronta: il massacro nazionale di uomini e donne, gli olocausti. E dunque, via!, a caccia d’immigrati, di zingari, di rom, di extracomunitari, di diversi in genere, come complemento della caccia ai neri e ai chicanos nei democratici e civilissimi Stati Uniti d’America; e, per non essere da meno, via!, a caccia di proletari palestinesi e curdi, non a causa della loro identità nazionale, ma per il fatto di non averne una e in quanto tali più pericolosi per la stabilità sociale – soprattutto quando, a causa della crisi, nuova forza lavoro aggiuntiva si dimostra non necessaria. L’unica via d'uscita per liberarsi dal “burqa nazionale” non è quella di uscire dal proprio per indossarne un altro di colori diversi, non è quella di suggerire ai proletari di indossarne uno in nome di una presunta liberazione nazionale a causa di un nemico invasore, non è quella di avallare un periodo di transizione democratica a doppia o tripla nazionalità sperando che “passi la nottata”... Fin dalla sua nascita, il proletariato rivoluzionario ha un contenuto di internazionalità, di insofferenza per ogni burqa nazionale. Ed è proprio questo fatto oggettivo che inquieta i sonni della borghesia e dell’opportunismo. Su questa base, deve essere riconosciuto come parola d’ordine netta e indiscutibile quella del disfattismo rivoluzionario contro ogni nazionalismo, contro ogni rivendicazione nazionale, contro ogni pretesa appartenenza a un presunto marchio di fabbrica: il nemico è nel nostro paese, è la borghesia nazionale e la sua ideologia nazionale in tutte le forme!

Ed ecco che gli Stati, vere e proprie associazioni a delinquere, si palleggiano la questione degli immigrati, dei clandestini, dei senza fissa dimora, accusandosi l’un l’altro di non essere abbastanza civili o di non essere abbastanza dotati di una “vecchia e sana barbarie”. “Non si fanno pogrom, non si cacciano come spazzatura i derelitti, dopo la seconda guerra mondiale”, grida un’addetta ai lavori di montaggio e smontaggio delle identità, della carità e del sostegno civile, mentre un altro s’infuria osservando che le famiglie rom non sono state espulse, ma sono state… pagate e “accompagnate” (sic!) negli aeroporti per andarsene, e un altro ancora dichiara che saranno abbattute le imbarcazioni (altro che pietismi!) che osassero sbarcare in territorio nazionale e che occorre istituire dei lager ove rinchiudere la marmaglia e lasciarvela crepare… Che bella famiglia di mentecatti! Vecchi sensi di colpa che emergono? Montagne di cadaveri nascosti e non ancora rivelati negli armadi? Quando mai! Ognuno vuole mandare a quel paese l’altro, perché i senza patria nazionali e immigrati sono micce accese che possono costituire un innesco pericoloso, una volta che si avvia un processo a catena di lotte sociali. Sanno bene la lezione coloro che avallarono la deportazione, il lavoro forzato, la repressione e l’olocausto dei proletari nella seconda guerra mondiale, sanno bene la lezione coloro che decimarono popolazioni intere con gas e bombardamenti, sanno bene la lezione coloro che si spartirono l’Europa per farne un territorio di caccia.

Contro tutti costoro, la feccia della preistoria dell’umanità, niente sarà dimenticato: alla loro infamia, si risponderà con la dittatura del proletariato.

                                                                                                                                                                                          Il Programma comunista, n°5, 2010

 

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