Di che cosa si ha paura?

Le possibilità di fermare o regolarizzare i flussi migratori sono tante: dai lager australiani dove si internano gli immigrati e i profughi “illegali” ai muri statunitensi lungo il confine con il Messico, dalle navi da guerra nel Mediterraneo al blocco dei tunnel sotto la Manica e delle frontiere terrestri che delimitano la “fortezza Europa”. Ma questo tentativo di bloccare e controllare il flusso migratorio di lavoratori e di profughi che scappano dalla povertà e dalla miseria verso le zone più ricche del pianeta è destinato a fallire, poiché si scontra con fattori ineludibili e propri di questo sistema. Sono note le cifre dell’immensa spaccatura prodotta dallo sviluppo capitalistico mondiale: un recente rapporto ONU dice che il 20% degli stati più ricchi del pianeta controlla l’86% della sua produzione, mentre il 20% più povero solo l’1%; e che un miliardo e 200 milioni di persone vivono con meno di un dollaro al giorno, e 2 miliardi e 800 mila persone provano a farlo con meno di due dollari. Egualmente note sono le proposte avanzate in Germania e negli USA: visto la crescente e cumulativa necessità di sopperire a carenze demografiche e al bisogno di forza lavoro qualificata, e di cervelli, si devono orientare le politiche di immigrazione verso forme selettive, a punteggio, con lo scopo di creare corsie di ingresso per i più acculturati, per coloro che conoscono lingue e linguaggi scientifici. Cioè, un drenaggio di cervelli: che, per esempio, per i previsti 100 mila tecnici indiani che dovrebbero ottenere il visto per la permanenza negli USA ha un costo di 2 miliardi di dollari l’anno, visto che è in India che sono stati formati e preparati. Dunque, da una parte la depauperizzazione materiale dei paesi dei cosiddetti Terzo e Quarto mondo (generata dalla stessa dinamica dello sviluppo ineguale del capitalismo e della polarizzazione della ricchezza in aree economicamente più forti a scapito di altre) alimenta i flussi migratori. Dall’altra, sono la “necessità” e la “convenienza” del capitale, nelle cittadelle della ricchezza, a utilizzare questa immensa quantità di lavoratoti immigrati, per una manodopera qualificata e non, che sia ricattabile, a basso costo e disciplinata, pronta a essere scaricata fuori dalle proprie frontiere, nel momento in cui non se ne ha più bisogno. Tutte le normative in materia cercano di far quadrare il cerchio. Da un lato, tramite leggi e sanatorie, accettate contro voglia anche dai più intransigenti (si veda in Italia l’ultima sanatoria sulle colf inclusa nell’ultimo disegno di legge), non si fa altro che regolarizzare una situazione di fatto già operante, e cioè l’utilizzo massiccio di manodopera straniera clandestina

o meno, in molti settori dell’economia. Dall’altro, si vorrebbe dimostrare, attraverso un irrigidimento normativo, di poter veramente gestire un problema complesso come l’immigrazione che è un prodotto diretto della dinamica di sviluppo capitalistico. Alla fine, come al solito, ogni Stato riduce tutto a un problema di polizia, di blindatura ulteriore delle frontiere nazionali, di controllo e selezione della circolazione degli individui che compongono questa forza lavoro che vaga in giro per il mondo alla ricerca di un acquirente, affinché corrisponda nel miglior modo alle necessità produttive delle varie economie che la utilizzeranno. Tutto ciò in palese contraddizione con la integrazione del mercato mondiale e con la liberalizzazione e abbattimento delle barriere doganali, voluti per la circolazione dei capitali e delle merci, tipico ormai di quel fenomeno dell’internazionalizzazione della produzione capitalistica a livello mondiale che caratterizza l’imperialismo. L’emigrazione è sempre un fatto sociale di rottura rispetto allo “stato di cose presenti”, sia nella società di origine che in quelle di arrivo. Nell’odierno sviluppo di queste contraddizioni, a turbare i sonni della borghesia e delle mezze classi in Europa come negli USA è il movimento stesso di questa enorme massa di forza lavoro che non riesce a essere del tutto sfruttata dal capitale, più che non il suo insediamento, o i problemi sociali che essa può creare nei luoghi in cui si sposta. La mentalità del filisteo piccoloborghese terrorizzato, o del riformista filantropo, vorrebbe un’immigrazione organizzata razionalmente, e immagina che gli immigrati cerchino lavoro nei paesi stranieri per avere “ la possibilità di una vita migliore”. Non arriverà mai a capire che i lavoratori migranti seguono il capitale là dove può comprare la loro forzalavoro, poiché senza di esso non hanno la possibilità di sopravvivere, non possedendo altri mezzi di esistere se non quello di emigrare là dove qualcuno può comprarli. E che è il capitalismo stesso ad alimentare e incrementare questo fenomeno migratorio. Se poi teniamo conto del fatto che l’immigrazione oggi si inserisce in un quadro economico non riferibile al periodo espansivo dell’inizio secolo, né a quello immediatamente successivo alla Seconda guerra mondiale, ma avviene in un quadro di disoccupazione cronica anche nei paesi di arrivo, ci accorgiamo di come essa rappresenti materialmente e simbolicamente un limite sociale del sistema: l’incapacità del capitale di far fronte all’eccedenza di manodopera a livello mondiale, derivante dalla enorme capacità produttiva raggiunta d a l l ’ o rganizzazione del lavoro sociale. La sovrappopolazione relativa – di cui l’immigrazione e nello stesso tempo la disoccupazione sono due degli aspetti più evidenti – è un problema mondiale tipico del modo di produzione capitalistico. E a esso non c’è soluzione, se non modificando qualitativamente e sostanzialmente la società attuale, se non abbattendo l’insieme di organizzazioni statali che mettono in conflitto gli uomini tra loro, e questi con la natura.

 

A che cosa rispondono le normative sul controllo dell’ immigrazione ?

Di fronte a questi problemi, le leggi e normative via via introdotte dai vari stati nazionali, e nella fattispecie quella recentemente varata dal governo italiano e detta FiniBossi, sul contingentamento della manodopera straniera, si inseriscono nella continuità delle normative che le hanno precedute, e ci fanno comprendere benissimo a che cosa realmente servano e per quali motivi vengano introdotte . Visti gli estensori dell’ultima normativa italiana, ci sarebbe la forte tentazione (e molti ci sono cascati) di individuare un motivo elettorale nella loro politica: essi hanno fatto della paura dell’invasione immigrata e della xenofobia il terreno su cui raccogliere in forma di voti il diffuso senso di insofferenza della piccola borghesia e di settori della stessa classe operaia, verso i lavoratori immigrati clandestini e no. Che, di volta in volta, vengono visti come profittatori delle agevolazioni e dei benefici sociali, concorrenti diretti sul mercato del lavoro che se prima li ha relegati nei settori più degradanti, marginali e faticosi, adesso, vista la loro convenienza, li usa in tutti i settori produttivi (un lavoratore su 5 nelle imprese italiane è immigrato), incrementatori della manovalanza malavitosa e della microcriminalità diffusa nelle aree industriali del Nord, ecc. ecc. Queste motivazioni non sono del tutto marginali, ma non si discostano di molto da quelle che hanno animato i precedenti governi di centrosinistra, e vanno quindi a collocarsi in quel processo tutto ideologico di divisione tra lavoratori immigrati e nazionali che le classi dominanti si sforzano di approfondire a proprio esclusivo vantaggio, per ostacolare di fatto la ricomposizione dell’unità di classe. Questa prima motivazione ha dunque caratteristiche estremamente politiche: evitare che il nascere di uno scontro sociale causato dalla concorrenza insostenibile sui salari (visto che la possibilità di ricorrere ad una manodopera più flessibile e ricattabile abbassa di fatto le condizioni generali di tutti i lavoratori) si possa trasformare da guerra fra poveri in forme di solidarietà classista e in lotta di classe aperta. Ma a questa motivazione se ne aggiunge poi un’altra, anche questa comune a tutti i governi: quella di far corrispondere il contingentamento dei flussi migratori ai bisogni economici reali del paese, e assicurare così la possibilità di avere costantemente manodopera straniera flessibile, di cui ci si possa sbarazzare facilmente alla fine del suo utilizzo, per far funzionare certi settori economici. Il Ministero del Lavoro darà indicazioni sulla effettiva richiesta di manodopera per determinare il numero massimo di immigrati extracomunitari ammessi, e la normativa prevede la programmazione di flussi migratori stabiliti e approvati annualmente tramite decreto, fissando quote di ingresso per lavoro dipendente, stagionale ed autonomo. La normativa lascia praticamente il lavoratore immigrato alla mercé del padrone che ne ha richiesto l’utilizzo: concede infatti il permesso di soggiorno (due anni rinnovabile al massimo per altri due) solo a chi ha già un contratto di lavoro, o solo fino alla fine del contratto di lavoro per i lavoratori stagionali che vengono chiamati direttamente nei paesi di origine per essere impiegati esclusivamente nei settori e per il periodo per cui sono stati richiesti. Tale limitazione, impedendo di fatto qualsiasi mobilità all’interno del mercato del lavoro, è volta innanzi tutto a selezionare una manodopera remissiva e ricattabile dal padrone, a cui si può richiedere una maggiore disponibilità di orario, una maggiore produttività, una maggiore sudditanza: la paura di perdere il posto di lavoro è infatti più forte per chi rischia di perdere, oltre all’impiego, anche il permesso di soggiorno. Nello stesso tempo, la legge tende a favorire quei settori produttivi e le piccole imprese meno appetibili ai lavoratori nazionali, dove i lavoratori immigrati sono costretti a rimanere con minori salari: “l’assemblea del CNEL, in un documento approvato all’unanimità, ha chiesto esplicitamente al Governo di rivedere le norme ‘sulle procedure di ingresso degli immigrati in modo da renderle più adeguate alle esigenze delle piccole e piccolissime imprese di alcuni specifici settori’”, e qui basti pensare all’edilizia, all’agricoltura e al settore turistico alberg h i ero. Alla fine del rapporto di lavoro, il lavoratore immigrato deve lasciare “con certezza” il territorio italiano e per questo motivo sono aumentati i controlli di polizia sui rientri e sulle espulsioni. Nel caso di stranieri con permesso scaduto, o nel caso di licenziamento, il lavoratore disoccupato perde il diritto al soggiorno, e l’espulsione viene intimata entro i quindici giorni successivi, e lo straniero espulso non potrà tornare in Italia prima di 10 anni. La borghesia in realtà non può e non vuole chiudere totalmente il mercato del lavoro ai lavoratori immigrati, che di fatto giocano un ruolo non facilmente rimpiazzabile in alcune branche dell’economia. Ma, accentuando il controllo e contingentando i flussi dell’immigrazione, si da i mezzi per intervenire più facilmente sul mercato del lavoro, per regolare l’esercito di riserva del capitale e rigettare una parte di esso al di là delle proprie frontiere quando la situazione sociale rischia di divenire esplosiva. Le strettoie normative imposte dalla nuova legge, scontrandosi con l’inevitabilità dei flussi migratori provenienti dall’Est e dal Sud del mondo, producono l’effetto di un maggiore controllo e ricattabilità, come di una maggiore “clandestinizzazione” degli immigrati. Oggi non esistono in Italia, e in generale in tutto il mondo occidentale, canali di ingresso praticabili per l’immigrazione regolare, a esclusione del diritto d’asilo. Le nuove normative limitano l’ingresso in Italia solo ai lavoratori chiamati nominativamente a soggiornare per motivi di lavoro e gli stessi ricongiungimenti familiari sono stati fortemente ridimensionati: solo al coniuge, ai figli minori (o ai genitori nel caso in cui l’immigrato sia figlio unico), mentre i figli maggiorenni possono ricongiungersi solo se totalmente invalidi. Seguendo questa linea interpretativa, la nuova normativa azzera di fatto la possibilità di usare canali regolari di entrata, per incrementare quelli clandestini. La cosiddetta chiusura delle frontiere che di fatto incrementa e favorisce la clandestinità e la limitazione dell’ingresso della manodopera immigrata a certe condizioni rientrano nel tentativo della borghesia italiana, come del resto di quella di tutt’Europa, di usare la disponibilità di questo esercito di disperati costituito dalla manodopera clandestina e dagli stessi lavoratori stranieri regolari, per esigere condizioni di sfruttamento più favorevoli di tutta la classe o peraia, contribuendo così a incrementare divisioni e a frantumare le forze operaie. La principale carta della borghesia nella lotta contro la classe operaia è in effetti quella della divisione dei ranghi operai, fenomeno che si avvale di tutto un insieme di discriminazioni sociali, giuridiche e politiche introdotte dalla borghesia dentro le file del proletariato.

 

Che cosa significa essere contro le misure restrittive nei confronti degli immigrati?

La difesa del proletariato immigrato, l’appello incessante del nostro partito alla solidarietà di classe dei proletari autoctoni, sono le condizioni, per ora lontane ma indispensabili per rompere gli ostacoli le divisioni e le diffidenze, che si oppongono alla costituzione di una forza di classe unita e autonoma contro la borghesia. Non si tratta per noi, a differenza di tutti i riformisti democratoidi, di rivendicare attraverso la parità di condizioni dei lavoratori immigrati e dei loro diritti gli ideali atemporali e umanitari di “uguaglianza di qualsiasi cittadino del mondo”; ma di unire il proletariato, soprattutto mostrando ai lavoratori nazionali la necessità, per i bisogni di tutta la classe ope r a i a, di rifiutare tutte le situazioni di privilegio, tutte le discriminazioni e le manovre di divisione attuate dalla borghesia. La lotta per la libertà di circolazione e l’uguaglianza dei diritti fra lavoratori nazionali ed immigrati non è in contraddizione con la denuncia del carattere precario, per il proletariato, di tutti i “diritti acquisiti”, finché dura il carattere di classe della società. Contrariamente a quello che pensano e pretendono i democratici o i riformatori antiglobal, nessun diritto sotto il potere del capitale darà mai al proletariato (immigrato e no) una presunta uguaglianza con i loro espropriatori borghesi. Così, la rivendicazione della soppressione del controllo e delle discriminazioni verso i lavora tori immigrati non risponde solo agli interessi della classe operaia intera, ma è strettamente legata al suo stesso programma di emancipazione. Nella strategia internazionale della rivoluzione comunista, le masse operaie immigrate costituiscono il tratto d’unione vivente fra il proletariato delle metropoli capitalistiche e le masse proletarie e diseredate dei paesi periferici. E’ in questa prospettiva rivoluzionaria che si deve situare la difesa e la lotta contro l’oppressione particolarmente pesante dei lavoratori immigrati, una lotta che, come tutte le lotte di difesa immediata delle condizioni di lavoro e di vita della classe operaia, deve avere come scopo una “unione sempre più grande dei lavoratori”. Essa deve essere posta di conseguenza sul terreno e con i metodi della classe operaia (sciopero, solidarietà, autodifesa della classe), ripudiando le menzogne e le illusioni diffuse dai campioni della democrazia e dell’antirazzismo umanitario, che mirano a mettere il proletariato a rimorchio delle altre classi. Questa via suppone di auspicare già da oggi il ricompattamento dei lavoratori alla base, prendendo spunto dalle lotte esistenti e dai tentativi, anche embrionali, di formare organismi di solidarietà tra lavoratori immigrati e nazionali. Il paziente lavoro di tessere legami che affascino gruppi di lavoratori combattivi (sindacalizzati o non sindacalizzati, e qualunque sia la loro concezione politica) e la solidarietà attiva nella lotta sono le sole vie per rompere il muro d’isolamento di cui soffrono sia i lavoratori immigrati sia tutte le categorie operaie, dopo decenni di collaborazione da parte dei partiti opportunisti e degli apparati sindacali. Questa prospettiva noi la presentiamo a tutti i proletari immigrati e no, come esigenza pratica della loro vita, come esigenza che corrisponde ai loro bisogni reali sia immediati che storici: i diritti si conquistano e si riconquistano tutti i giorni e saranno definitivamente acquisiti solo quando saranno superati nel comunismo. Le spinte classiste sono oggi ancora molto deboli e il movimento rivoluzionario ha ancora una influenza ridottissima: non vi sono ricette che possano modificare questa realtà di fatto, ma l’ultima cosa da fare è quella di correr dietro all’opportunismo e alla democrazia filantropica dei vecchi e nuovi riformatori. Al contrario, sia il rafforzamento delle lotte immediate sia la preparazione rivoluzionaria esigono che ci si collochi su un terreno di classe, rompendo completamente con l’opportunismo e con tutti i falsi miti di giustizia e uguaglianza di cui si riempe la bocca questa tremenda e stritolatrice società di classe.

 

Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°04 - 2002)

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