Abbiamo seguito a Milano e Roma le Assemblee nazionali dei Comitati di base (Confederazione Cobas, RdB-Cub e SdL Intercategoriale) aventi come obiettivo l’unificazione (oggi, Patto di base) delle tre organizzazioni, e in due numeri di questo giornale [1] abbiamo contrapposto al riformismo politico che trasuda dalle considerazioni “sindacali” le posizioni di classe riguardanti la lotta di difesa economica della classe. Per completare il giro di osservazioni sugli organismi “sindacali” di base, diamo qui di seguito le nostre valutazioni sul 6° Congresso Nazionale dello Slai Cobas (Sindacato dei Lavoratori Autorganizzati Intercategoriale) tenutosi a Milano nei giorni 17-18-19 aprile.

Quest’ultimo Congresso [2] riconferma ancora una volta lo stato di confusione in cui versa l’organizzazione di questa parte minoritaria della classe operaia e al tempo stesso la sua diretta responsabilità nell’alimentarla. Il Documento elenca alcuni punti che dovrebbero fornire le linee guida del Congresso: come attrezzare lo Slai Cobas davanti alla crisi economica in corso; come rispondere alle politiche anticrisi del “centro sinistra” e all’offensiva della destra; come respingere la concertazione Governo, Confindustria, Sindacati e i metodi “inaccettabili” dei cugini del sindacalismo di base; e infine come affrontare i temi rivendicativi e politici che interessano i lavoratori. Ma vediamo più dettagliatamente questi punti.

 

Una coscienza sterile e contorta

 

A detta del Documento, il Congresso dovrebbe avviare un percorso politico e organizzativo adeguato alle contraddizioni del presente, poiché “la lotta di difesa economica da sola non basta in mancanza della necessaria prospettiva di classe, generale, politica e organizzativa, da costruire e rendere credibile”. Posizione condivisibile, questa, in linea generale: ma sterile e contorta nelle premesse e nelle prospettive, in quanto pretende, a differenza dei cugini che non vogliono neppure sentirne parlare, di aspirare a essere e divenire un sindacato di classe e nello stesso tempo di essere l’incubatrice di un’organizzazione politica. Confusione all’ennesima potenza perché presume che la prospettiva (la finalità) si costruisca dopo aver assemblato qualche idea raccolta qua e là tra le cianfrusaglie dell’opportunismo o che nasca spontaneamente. Ebbene, nascerà quella prospettiva di classe dal dibattito congressuale tra gli iscritti oppure con la collaborazione degli invitati politici e sindacali al Congresso? Volendo dar credito alla buona volontà, domandiamo: lo Slai Cobas ha coscienza delle condizioni in cui versa oggi la classe operaia per effetto delle molte malattie virali da essa subite (nazionaliste, corporative e staliniste)? ha coscienza della distruzione apportata alle sue organizzazioni di lotta e di difesa economica dagli anni venti in avanti e soprattutto subìta dal partito di classe rivoluzionario? E poi, la prospettiva di classe politica e organizzativa può mai nascere dal seno di un’organizzazione sindacale?e la finalità, di cui si lamenta l’assenza, può mai stare sul terreno puramente economico?

Qui gatta ci cova, direbbe Lenin! Mentre i cugini, con le loro ideuzze terzomondiste riguardanti la prospettiva (aiuto alle piccole comunità di produzione e di consumo, difesa della produzione locale, ambientalismo, ecologismo) e con le lotte in difesa del reddito (pura conservazione dell’esistente) e dell’intervento pubblico, si collocano su posizioni piccolo-borghesi, veri contenitori portaborse degli interessi della sinistra parlamentare o aspirante a rientrarvi, lo Slai Cobas “gioca” a battere il terreno dell’autorganizzazione di classe. Vedremo perché, coscientemente o no, si muove sugli stessi obiettivi dei cugini.

 

Una sponda alla “ sinistra radicale”

 

Diamo per buona la valutazione che nell’89 sono crollati nell’Est dei regimi a capitalismo di Stato e per nulla socialisti – valutazione che li distingue nettamente da tanti collitorti in circolazione. Interessante anche la “scoperta” che le forze politiche di sinistra “non sono la destra della nostra classe da ricondurre sulla corretta strada, ma la ‘sinistra’ della borghesia”. Ma, e la “sinistra radicale” (Rifondazione e Comunisti Italiani)? Ohibò, sarebbe solo colpevole di una “politica di sottomissione a una frazione della borghesia” nonostante le svendite contrattuali, le riduzioni salariali, la precarizzazione, le legislazioni antiproletarie, la guerra imperialista nei Balcani, che le si rimprovera. Se ne deduce che questi partiti che affondano le loro radici nel tradimento della classe, nell’opportunismo più bieco, fanno parte comunque della grande “area di sinistra” (di cui lo Slai Cobas è componente), da riportare comunque all’ovile, in quanto mal diretti da pastori “poco affidabili”. Ecco una prima dimostrazione che, di là dai pronunciamenti verbali, lo Slai Cobas rimane in realtà una damigella di corte (nel dibattito “aperto ai visitatori”, più di uno sono stati i corteggiatori, dai tre cugini di base ai rifondaroli, dal PC dei Lavoratori a Sinistra critica). “Non perderli di vista”, è la reale direttiva che ne è venuta fuori e non quella che a parole si dice di voler rappresentare, cioè: “una prospettiva sindacale di classe e, prima ancora, politica […] in cui prenda corpo un disegno di autonomia e indipendenza politica e organizzativa del proletariato”.

 

La critica ai sindacati di regime

 

Giustamente si dice: “Chi, oggi, partendo dalle contraddizioni interconfederali ‘sogna’ una Cgil che si riavvia sul terreno della lotta di classe, scambia lucciole per lanterne, e diffonde nuovamente l’illusione che la ‘sinistra’ istituzionale (sindacale e politica) si muova per qualcos’altro di diverso da una gestione ‘benigna’ della crisi e dei costi da far pagare al proletariato”. E le miriadi di sigle politiche “non istituzionali”, nate sotto il patrocinio e l’ombra del vecchio carrozzone del PCI, che abbaiano alla luna e si agitano per ottenere la collocazione istituzionale agognata, per che altro si muovono? La verità è che le due versioni della concertazione, quella di Cisl, Uil e Ugl e quella della Cgil, nell’attuale situazione di crisi si muovono divise, tramite i rigidi apparati di controllo delle loro organizzazioni, per colpire unite la classe operaia: il “realismo” dei primi (braccio destro del Governo e della Confindustria) si coniuga benissimo con la finta “intransigenza” dei secondi (tenuta in gran conto, vedi Fiom), in cambio di una subordinazione a tutto campo alle esigenze poste dalla crisi in difesa dell’economia nazionale. Ma la terza via “non concertativa”(?) in quale altro “mondo possibile” spinge i proletari da non potersi neppure pronunciare? D’altra parte, si sa, il socialismo non è credibile, la “dittatura del proletariato” è cosa del passato, della necessità del partito di classe meglio non parlare!...

Incomprensibile risulta poi l’invito nel documento a seguire attentamente “le mobilitazioni dei lavoratori e dell’insieme del conflitto sociale, compreso quelle, a oggi ancora prevalenti, interne a questo quadro, perché è nella lotta che si può dimostrare quanto la Cgil come gli altri sindacati confederali siano integrati nello Stato e come le loro proposte e mobilitazioni servono a controllare e sviare le forze dei lavoratori, frustrandone le aspettative”. Che spettacolo affascinante! Invece di dimostrare, con la lotta dei lavoratori, indirizzata con metodi e mezzi classisti, in quale condizione di subordinazione vive la classe, e attraverso di essa maturare una struttura organizzativa, coesa e disciplinata, e una forte e determinata capacità offensiva, si invita a starsene a guardare la scena della disfatta operaia nelle mani dei sindacati di regime!

 

La critica ai cugini e il cosiddetto “sindacato di classe e di massa”

 

“Non siamo stati mai così ‘distanti’ dai cosiddetti cugini”, si legge ancora nel Documento, “e può sembrare un atteggiamento ‘settario’, perché ‘giustamente’ i lavoratori richiedono un’unità per affrontare l’avversario. Ma l’unità necessaria per affrontare il nemico di classe non può essere costruita nei termini in cui la stanno facendo Cub-RdB, SdL e Confederazione Cobas”. I punti di dissenso sono molti e gravi, si ripete: ci sono “parecchi scheletri nell’armadio che vanno tirati fuori”. Vediamoli, allora: “La firma di ‘comodo’ su contratti e accordi contro i lavoratori; la partecipazione alla gestione dei fondi pensione; la costruzione di scioperi generali puramente rituali; la costruzione di realtà sindacali di facciata e senza iscritti”. Altro che scheletri! Qui si tratta di una denuncia politica senza peli sulla lingua. Sono scheletri di carta, a quanto sembra, perché nessuno degli imputati ha cercato di contestarli durante il Congresso.

Che la critica durissima che noi abbiamo sempre fatto alle tre sigle suddette ci venga confermata dall’osservatorio dello Slai Cobas, non ci lascia indifferenti, anche perché in quel mondo variegato dei Comitati di base ci sono state spesso e ci possono essere spinte di classe, che provengono da autentiche avanguardie di lotta, che tuttavia durano poco in quanto depredate e svuotate presto del loro autentico spirito di combattimento. Che siano poche non ha alcuna importanza: è da poche minoranze che può essere accesa la miccia della lotta di classe.

Si afferma ancora: “l’unità da costruire deve essere quella dei lavoratori, non tanto delle sigle esistenti, sigle che vanno superate nell’attesa di un sindacato di classe e di massa”. Giusto: l’unificazione non può essere un problema di sigle, ma di contenuti di lotta. Noi che abbiamo la memoria lunga, però, troviamo allarmante l’accoppiata “sindacato di classe e di massa” e dunque domandiamo: quanto “grande” deve essere quella “massa”? quanto il contenuto di classe deve dipendere, in questa prospettiva, dalla “quantità” di lavoratori che ne fanno parte? tale sindacato nascerà per via naturale, spontanea, o in vitro? Non c’è da aspettare la risposta: in realtà, si tratta di idee poche, ma… confuse! Lo Slai Cobas ignora che cosa sia un sindacato di classe, che cosa esso abbia realmente rappresentato nel primo quarto del secolo scorso; ignora la relazione strategica (cinghia di trasmissione) tra partito comunista rivoluzionario e organizzazione economica di classe. Anzi, non vuole saperne.

Il piatto forte sarebbe dunque questa attesa: che nasca un giorno il sindacato di classe, verso cui poi confluire. Esso dovrebbe sorgere e avere appunto un’estensione di massa, fondarsi sui luoghi di lavoro e su un programma rivendicativo condiviso, che esprima autonomia di classe e irriducibilità alla concertazione, esteso a livello nazionale. E sia! Ma c’è una pur debole traccia nel Dna dello Slai Cobas che lo determini a essere e rappresentare oggi una tale organizzazione?

“Un percorso ‘dal basso’ che si faccia carico delle questioni politiche, non per trasformarsi in partito, ma per creare le condizioni favorevoli sia a un sindacato di classe e di massa, sia a un’organizzazione politica e indipendente del proletariato”. Lo Slai Cobas ha dunque in mente di essere la levatrice di quelle formazioni della classe. “Un percorso, quindi, che non deleghi a terzi (all’interno o all’esterno della cosiddetta ‘sinistra radicale’) né la definizione del piano d’azione sindacale e delle rivendicazioni immediate, né i temi più generali della politica”. Sappiamo che un amore fraternamente opportunista lega lo Slai Cobas ai “padri fondatori, che solo recentemente avrebbero sbagliato”, e state sicuri che non gli negheranno nemmeno la consulenza sui tanti temi sul tappeto.

 

Le rivendicazioni maschere del nullismo

 

Esaminando le rivendicazioni, si comprende che quel “sindacato di classe”, cui lo Slai Cobas dice di aspirare, è solo un semplice feticcio. Quelli che dovrebbero essere gli obiettivi di lotta si dimostrano inconsistenti in quanto non hanno di mira il rafforzamento e l’unità della classe in tutta la sua estensione e articolazione, ma la semplice svendita della merce forza-lavoro e la conservazione “antiquaria” dei redditi o delle cosiddette “conquiste”.

La prima di esse, la questione salariale, viene legata alla diffusa precarizzazione e pertanto si rivendica “lo stesso salario per lo stesso lavoro”, una parola d’ordine talmente generica che, isolata, risulta inconsistente, perché mette sullo stesso piano ogni forma di lavoro, quello cosiddetto “normale”, quello notturno, quello usurante e a rischio, gettando fuori dal contesto della lotta coloro che “non lavorano” in quanto o sono stati espulsi o sono usciti dal ciclo produttivo (licenziati e disoccupati), per i quali un sindacato di classe rivendicherebbe invece il salario integrale. Stesso discorso per i pensionati. Risulta fuori anche la rivendicazione della riduzione drastica (fino alla loro sparizione) del lavoro notturno, del lavoro usurante e a rischio per evitare gli omicidi sul lavoro prodotti dai ritmi stressanti e dalle modalità del lavoro stesso: ma ciò che è importante per il capitale è l’uso della forza-lavoro (contro quest’uso deve giocare la forza unitaria della classe) e un’organizzazione che si pretenda di classe non può rimanere a reggere il moccolo ai padroni, elemosinando la “giusta mercede per un giusto tempo di lavoro”. Un sindacato di classe si porrebbe la finalità irrinunciabile, sotto la guida del partito di classe, dell’abbattimento del sistema del lavoro salariato. Ma tant’è: il sindacato di classe... “addà venì”.

Lo Slai Cobas tralascia di rivendicare la necessità di forti aumenti salariali, maggiori per le categorie peggio pagate, per giungere all’unificazione della classe e la drastica riduzione dei livelli per annullare le tante divisioni interne (qualifiche, parametri) imposte dall’azienda. Ora, è giusta la rivendicazione di aumenti salariali in paga base e del recupero del salario differito, ma la rivendicazione della scala mobile mortifica la spinta di classe e condanna la classe al silenzio.

Il salario ai disoccupati viene presentato come una “spesa sociale” necessaria nella crisi in atto, e a tal proposito, per non pagare i costi della crisi, “le aziende le si dovrà espropriare e nazionalizzare quale soluzione transitoria per impedirne la chiusura”! Magari poi, dopo averle risanate economicamente, le si riconsegna nelle mani dei legittimi proprietari!...

Per evitare, poi, contrasti con i lavoratori immigrati si dovranno rivendicare gli stessi diritti “minimi” (?), “altrimenti essi vengono usati per aumentare la concorrenza tra operai e ridurre i salari e i diritti”. Ci si scorda tranquillamente dei migranti interni, delle donne, dei lavoratori precari, dei lavoratori in nero, dei disoccupati (non hanno forse i “pieni” diritti?). Quel che manca non sono i diritti (ideologie fumose!): manca l’organizzazione della forza: chi ha la forza ha il diritto, si diceva un tempo tra i lavoratori combattivi. Il diritto di vendersi (immigrati e non) al mercato della forza-lavoro è riconosciuto pienamente dalla borghesia e dal suo Stato.

Per quanto riguarda la durata dell’orario di lavoro, mentre da più parti la si porta a superare le 60 ore settimanali, la rivendicazione dello Slai non va oltre a una semplice riduzione a parità di salario, per evitare gli straordinari e l’aumento dello sfruttamento, mentre occorre attaccare quella riduzione in maniera drastica, altrimenti gli operai saranno travolti dalla crisi. Per finire, la rivendicazione della democrazia sindacale, “un uomo, una testa”, non solo per abolire il 33% concesso d’autorità ai sindacati “maggiormente rappresentativi”, ma “per ottenere rappresentanza e poteri sindacali dentro l’azienda nelle mani dei lavoratori, precari compresi”. Rivendicazione che chiude l’organizzazione dentro le mura di un carcere, mentre occorrerebbero vere roccaforti sindacali fuori da quei recinti.

Non una parola sui metodi di lotta: sullo sciopero come mezzo di lotta e non come “diritto”, sulla sua estensione nel tempo e nello spazio dal terreno nazionale a quello internazionale, sul blocco della produzione e dei servizi, sulle casse di sciopero, sull’organizzazione territoriale, sull’unità di tutta la classe senza distinzione di razza, sesso, religione, età, sull’azione di lotta organizzata e generalizzata volta a interrompere e bloccare in ogni istante la produzione, ovunque sia segnalata la condizione, anche teorica, di probabilità di rischio...

A questo punto, vien da chiedersi: ma cosa credono che sia il sindacato di classe?

 


Note
 
 
1. “Assemblea dei delegati delle Confederazioni di base a Milano del 17/5” e “Dopo l’assemblea Nazionale di Roma del sindacalismo di base (7 febbraio)”, in Il Programma Comunista, n° 4/2008 e n°2/2009.

2. Si veda il “Documento preparatorio per il 6°Congresso Nazionale”, www.Slaicobas.it. 
 
Partito Comunista Internazionale
(il programma comunista n°03 - 2009)

 

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