A uno sguardo generale, assistiamo in ogni campo a una dinamica catastrofica, di fronte alla quale non c'è freno se non la catastrofe stessa e i suoi effetti crescenti sulle condizioni di vita della specie. Nelle aree non interessate (ancora) da guerre “locali” - riflesso di crescenti contrasti inter-imperialistici - tutto si svolge in una micidiale normalità e concorre alla conservazione dell'esistente: ma la conservazione dell'esistente è quanto di più esplosivo si possa concepire. Significa che non possono essere affrontati e risolti i punti di crisi: la crisi ambientale può essere affrontata e (forse) controllata solo con una drastica contrazione della produzione, ma al capitale serve una costante espansione della produzione che compensi con la massa del profitto il calo del saggio medio del profitto; parallelamente, le difficoltà dell'estrazione del profitto alla produzione continueranno ad alimentare il Grande Parassita del debito, che convoglia per ogni via la ricchezza sociale nella direzione del capitale finanziario sotto forma di rendita.

Per sostenere l'aumento forzato della produzione servono grandi quantità di energia che solo gli idrocarburi possono garantire, ma l'estrazione degli idrocarburi avviene a costi sempre più elevati, anche in termini di dispendio energetico e di danni ambientali. Secondo gli studi dell'ASPO (Association for the Study of Peack Oil and Gas), non ci sono alternative in grado di sostituire  gli idrocarburi in un sistema dissipativo come quello vigente, affetto da sovraconsumo. Se gli studiosi lanciano l'allarme nella speranza illusoria che possa essere raccolto da chi ha il potere di intervenire (chi?), noi che sappiamo che questo sistema non può non essere dissipativo arriviamo facilmente alle conclusioni.  Secondo alcune proiezioni, il picco produttivo dell'insieme complessivo delle risorse fossili si dovrebbe raggiungere già quest'anno, quello del carbone nel 2050 (ASPO), dopodiché si aprirà un periodo di scarsità di energia che manderà il sistema produttivo in blocco nel giro di qualche decennio: possiamo prevedere prezzi alle stelle e lotta all'ultimo sangue per accaparrarsi gli ultimi giacimenti sfruttabili, ma un crollo generale non potrà essere evitato.

La consapevolezza dell'approssimarsi dei punti di rottura del sistema si è da tempo estesa agli studi “economici”. Non è privo di significato il fatto che in ambienti accademici si tratti con le categorie che appartengono alla nostra visione e si raccolgano dati e valutazioni sul "corso del capitalismo", perché alla fin fine di questo si tratta [1]. E' un ulteriore segnale che il gran baraccone sta cedendo non solo sul piano ambientale - dato di fatto che la scienza ufficiale ormai non può ignorare - ma in ogni aspetto critico del sistema.

La contraddizione in cui si trova il sistema capitalistico sta nel fatto che il massimo sfruttamento delle risorse naturali e umane per alimentare la produzione crescente e valorizzare il capitale è l'unica modalità possibile perché esso si conservi. Pertanto, quanto più l'ordine economico sociale lavora per la sua conservazione tanto più sviluppa i fattori della sua dissoluzione. Il caos generale che si annuncia è però di una tale potenza distruttiva da mettere in gioco l'esistenza stessa della specie. Il punto di rottura "fisico" dovuto alla scarsità energetica si avvicina, il punto di non ritorno dei cambiamenti climatici potrebbe essere già stato superato, l'altissimo grado di composizione organica media è prossimo a un limite oltre il quale il capitale non si valorizza per l'insufficienza della base di forza lavoro vivente in rapporto alla massa del capitale fisso e circolante. Il fondamentale punto di rottura è interno alla stessa dinamica della valorizzazione: il capitale che non funziona più come capitale. Cresce la sproporzione tra la massa di risorse naturali e umane messe al servizio della valorizzazione e il nuovo valore effettivamente prodotto.

Sul terreno economico, i tentativi di soluzione entro i limiti del sistema sono venute dall'attivismo senza precedenti delle banche centrali che hanno garantito una massa enorme di liquidità al sistema bancario e finanziario. L'azione delle banche centrali non ha però rilanciato il processo di valorizzazione ed ha alimentato grandemente il circuito finanziario e borsistico. E' cresciuto enormemente il debito degli Stati, delle aziende, dei privati... Certo, il sistema è tenuto in vita, ma artificialmente, ed è disseminato di potenziali punti di esplosione che possono in ogni momento innescare la prossima grande crisi.

Sul terreno politico, la risposta del capitale è il rafforzamento della struttura produttiva e finanziaria imperialista. La guerra dei dazi scatenata dall'imperialismo dominante USA anticipa lo scenario prossimo di guerra con ogni mezzo per il controllo delle risorse energetiche, per il predominio industriale e tecnologico, per il controllo delle vie di comunicazione (oggi anche e soprattutto informatiche)... E' la linea dell'arroccamento protezionista e militarista - con il suo correlato ideologico del nazionalismo/sovranismo - che richiama l'analogo processo seguito alla crisi del 1929. Al processo di relativa deindustrializzazione dei centri imperialisti a cavallo tra i due secoli, attraverso la delocalizzazione produttiva e gli investimenti diretti esteri è seguita negli ultimi anni una tendenza inversa di rientro di alcune produzioni ad alto contenuto tecnologico, indotto più che dalla politica protezionistica e fiscale dagli stessi altissimi livelli di composizione organica, dove i risparmi sul prezzo della forza lavoro contano poco. Contano piuttosto i vantaggi strategici e militari del controllo degli sviluppi tecnologici ai fini della supremazia globale (e della preparazione alla guerra per la supremazia globale).

La lunga fase di apertura dei mercati mondiali ai flussi di capitale (l'esportazione di capitale, prima caratteristica della fase imperialista), spinta al massimo grado, ha distrutto gli equilibri e i rapporti di forza usciti dal secondo conflitto e creato le premesse per un nuovo scontro tra vecchi e nuovi Moloch. La caduta dei muri, dei quali quello di Berlino celebrava simbolicamente l'apertura di una fase di espansione globale, annunciata come foriera di ogni sorta di miracolo in terra, ha significato la rottura di ogni argine all'espansione del capitale che, nella fase suprema del suo sviluppo, non può essere contenuto entro confini o limiti di sorta senza implodere. Quell'espansione ha portato ai livelli massimi l'industrializzazione del pianeta, con ciò che ne consegue in termini di sovrapproduzione, profitti, consumo di risorse umane e naturali, aumento della massa di forza lavoro impiegata nel processo di valorizzazione. La crescita globale ha toccato il culmine e il suo limite nella grande crisi del 2008-2009.

Un sistema razionale capace di autoregolamentarsi virerebbe immediatamente verso una drastica de-industrializzazione nel tentativo di mettere una pezza ai guasti prodotti dalla follia produttivistica. Ma il capitale non può concepire una simile svolta: significherebbe ridurre la massa dei profitti, ciò di cui esso si nutre per continuare a essere se stesso. Non si può immaginare una deindustrializzazione assoluta, perché il capitale non può fare a meno della produzione, fonte primaria dell'estrazione del plusvalore/profitto dal lavoro vivente. Il suo problema è che quella fonte, la fonte primaria, si sta esaurendo.  Il crescente indebitamento delle imprese in titoli obbligazionari, in Usa come in Europa, favorito dai bassi tassi d’interesse dovuti alle politiche monetarie espansive delle banche centrali, è sintomo delle difficoltà del sistema produttivo a marciare sulle proprie gambe con gli attuali tassi di profitto. Per la stessa ragione, gli investimenti produttivi declinano.

Se la crescita del profitto che proviene dalla produzione rallenta e tende a zero, il capitale cerca altre vie per valorizzarsi: punta sulla circolazione (logistica, grande distribuzione) dove lo sfruttamento del lavoro avviene ai livelli altissimi consentiti dalla pressione esercitata dall'enorme esercito industriale di riserva sulla massa degli occupati. Ma anche la logistica si adegua rapidamente al livello medio di composizione organica e potenzia lo sfruttamento riducendo al minimo l'utilizzo di forza lavoro vivente. Questo mix di sistema supertecnologico abbinato a forme di neoschiavismo è descritto in modo superbo nell'ultimo film di Ken Loach (Sorry, we missed you). In un'atmosfera da fine dei tempi, senza speranza nel domani, si realizza la totale sussunzione della forza lavoro al capitale, la frantumazione del proletariato, la sua disaggregazione spinta fino all'atomizzazione, al singolo che gestisce in proprio l'autosfruttamento guidato da applicazioni basate su premi e punizioni. Il capitale celebra qui, in apparenza, il definitivo trionfo sul suo nemico storico: in realtà, si capisce che non ha futuro. Non è tanto una questione di aumento delle disuguaglianze e dello sfruttamento, quanto la consapevolezza diffusa che il capitale non ha altro da offrire che questo, e che questo è il massimo che potrà offrire d'ora in poi. Accontentati o crepa! Il film è una sacrosanta denuncia di una società senza domani: ma anche in questo caso, come per gli scienziati che documentano la crisi climatica ed energetica, chi raccoglie il messaggio? Questa marcia a ritmo sostenuto verso la catastrofe è ancora aperta all'esito rivoluzionario, alla liberazione delle forze produttive sociali, o è destinata a procedere nella spirale agonizzante di una progressiva dissoluzione delle forme economiche, sociali e politiche che ancora tengono insieme il tutto? D’altra parte, già il Manifesto del Partito Comunista metteva in conto questa eventualità come “rovina di tutte le classi in lotta”.

Una deindustrializzazione in regime capitalista si può concepire solo come distruzione di capitale conseguente a una crisi, premessa per un rilancio del meccanismo di valorizzazione su nuove basi. Tanto più alto è il grado di sviluppo del capitale, tanto maggiore è la distruzione, ma al livello attuale un grado di distruzione di capitale adeguato a un rilancio del meccanismo di valorizzazione sarebbe assai difficile da gestire in termini di ricadute economiche, sociali e politiche. Per evitare conseguenze destabilizzanti, gli Stati si sono fatti carico di assumere su di sé buona parte del debito privato, sono andati al salvataggio delle banche e tramite esse delle aziende indebitate: ma il conseguente incremento del debito pubblico ha ridotto i loro margini di manovra nel gestire le ricadute sociali della crisi. La grande disponibilità di capitale fatto circolare nel sistema bancario-finanziario avrebbe dovuto – nelle speranze della borghesia - rilanciare la produzione, ma ciò non è avvenuto. In generale, il capitale si orienta laddove l'investimento promette la maggiore redditività. Sotto questo punto di vista, il capitale anonimo nella sua forma finanziaria (il capitale in sé) è cieco. Se nel breve l'impiego speculativo rende più dell'investimento produttivo, è lì che il flusso di capitale si dirige, anche a costo di generare super-bolle che fanno rabbrividire perfino gli esperti più conformisti e fiduciosi nelle capacità di tenuta del sistema. Oggi, sulla scorta del can-can mediatico sulla crisi climatica, si fa un gran parlare di “svolta green”, di capitalismo "consapevole". L'ultima trovata degli sparaballe al servizio del Moloch vorrebbe illudere sull'apertura di una nuova fase di espansione della produzione basata sulla "sostenibilità", quando l'unica prospettiva "sostenibile" è la contrazione della produzione, la deindustrializzazione. Che l'espansione green sia una "consapevole" puttanata è dimostrato dalla sovrapproduzione di pannelli solari cinesi che qualche anno fa hanno invaso i mercati mondiali: si è consumata una quantità spropositata di materie prime e combustibili fossili per invadere i mercati mondiali di apparecchiature finalizzate a “risparmiare” energia da combustibili fossili. Se il futuro della specie è affidato alla percentuale crescente di investimenti "consapevoli" simili a questo, in aziende che fanno del green il loro marchio di fabbrica, allora siamo fritti. Dobbiamo credere che il capitale, dopo aver abbattuto ogni limite e ogni resistenza alla sua espansione planetaria, sia disposto a fermarsi di fronte a un limite "morale" autoimposto, a contenere la sua voracità per il bene del pianeta? Per i gruppi finanziari orientati al green si tratta semplicemente di un campo di investimento promettente in settori tanto più appetibili in quanto spesso oggetto di vantaggiosi trattamenti fiscali o di cospicui finanziamenti pubblici (talvolta occasione di colossali truffe, come è stato per i fondi europei destinati all'eolico in Sicilia).

Insomma, a sentire i profeti dell'ambientalismo aziendalista, per garantirci la sopravvivenza in questo pianeta dovremmo affidarci ad una classe incancrenita e fondamentalmente parassitaria, capace chissà come di coniugare profitti e benefici all'ambiente. Non occorre certo essere dei geni per capire che senza un piano di specie non se ne esce.

Per tirare le somme di questa breve riflessione sulla questione della “deindustrializzazione”, se è vero da un lato che il capitale fugge dalla produzione per la progressiva riduzione dei margini di profitto in rapporto agli investimenti, è altrettanto vero che non può rinunciarvi. Può ricavare margini dalla razionalizzazione della circolazione, può drenare ricchezza sociale attraverso il debito e il fisco (qualcuno la chiama “accumulazione terminale”, a chiusura del ciclo storico iniziato con “l'accumulazione primitiva”), può creare valore fittizio nei circuiti della finanza, può spingere all'estremo il suo parassitismo: ma nulla può sostituire la fonte primaria di creazione di valore dallo sfruttamento della forza lavoro nella produzione. Pertanto il capitale è costretto dalla sua stessa natura ad aumentare livelli produttivi che già superano la capacità dei mercati di assorbire la smisurata raccolta di merci che ne deriva, a tenere in moto una macchina enorme in grado di generare tassi di profitto che tendono a zero [2]. Si delinea uno scenario in cui anche la produzione contribuisce al parassitismo generale del sistema, assorbendo sempre più risorse finanziarie e fiscali, oltre che in termini di sfruttamento della forza lavoro vivente. Tutto questo immane e sempre più vano sforzo di valorizzazione si scontra ormai con dei limiti invalicabili interni alla dinamica capitalistica, con limiti fisici e con le stesse esigenze di conservazione delle condizioni necessarie alla sopravvivenza della specie.

Con l'avvicinarsi della resa dei conti possiamo affidarci solo al proletariato, alla ripresa su scala planetaria della lotta di classe, nella speranza che i tempi della ripresa non siano troppo lunghi in rapporto ai tempi della crisi sistemica, e che l'onda sia così forte da rimettere in gioco la questione del potere, che possa neutralizzare le iniziative che il capitale può mettere in campo, dalle guerre locali fino a un nuovo conflitto generale che, considerata l'attuale potenzialità distruttiva degli armamenti e gli spasmi di una classe storicamente decrepita, potrebbe riservare ad interi continenti la fine riservata a Dresda e a Hiroshima.

E, al centro di tutto ciò, sta la necessità urgente del rafforzamento e radicamento del Partito Comunista Internazionale.

[1] Cfr. il sito thenextrecession.wordpress.com/ (blog di Michael Roberts), dove ci sono molti riferimenti al dibattito in corso da anni tra studiosi accademici "marxisti", oltre a diversi grafici aggiornati.

[2] Scrivevamo settant’anni fa che la contraddizione insuperabile è: “Vulcano della produzione o palude del mercato?” (in “Il programma comunista”, nn.13-19/1954).

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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