La RWM è un’azienda che appartiene al gruppo tedesco Rheinmetall, con ben due stabilimenti produttivi sul territorio italiano: a Domusnovas (Iglesias) e Ghedi (Brescia). Sul numero dei lavoratori, anche a causa della difficoltà di ottenere informazioni, vi sono dati contrastanti: la maggior parte delle fonti parlano, per il 2019, di  circa 300 unità nello stabilimento di Domusnovas, di cui solo 90 assunti a tempo pieno e gli altri con lavoro somministrato. Ma, come vedremo, da fine 2019 sono iniziati i licenziamenti. Si tratta di personale con un certo grado di istruzione e di specializzazione, tanto che diversi lavoratori sono stati precedentemente arruolati nelle Forze Armate italiane, dove hanno potuto acquisire competenze specifiche per l'assemblaggio e il trattamento di materiale militare ed esplosivo.

 

Le licenze produttive concesse alla RWM dall'Italia si concentrano nella realizzazione di bombe d’aereo, missili, componenti per armi di precisione e altri strumenti di puntamento bersaglio, tutti finalizzati all'esportazione, in modo particolare verso l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, due paesi extraeuropei che, da soli, rappresentano oltre il 90% del mercato aziendale.

L'attenzione dei media si è concentrata su tale società a partire dal 30 dicembre 2017, quando il New York Times pubblicò un reportage e, a seguire, un articolo con il titolo “Yemen, bombe prodotte in Italia”, all'interno del quale – combinata con immagini di  bambini uccisi dai bombardamenti nella guerra civile yemenita [1] – spicca la domanda del giornalista americano: «Come hanno fatto bombe made in Italy a uccidere una famiglia in Yemen?»… Del tutto plausibile che, alla borghesia nostrana e a quella tedesca, possa essere sfuggita la frase: “Da che pulpito...!”, specialmente proprio quando gli Usa hanno deciso di riprendere la vendita di armi a Riyad, loro alleato! I governi italiano e quello tedesco, comunque, non si erano mai posti tanti scrupoli pacifisti. Tutto si svolgeva secondo la legge, e ciò era sufficiente per continuare a fare affari.

Quanto ai sindacati nazionali, hanno sempre difeso lo stabilimento, opponendosi alla riconversione della produzione, proposta dai movimenti pacifisti locali. Secondo Francesco Garau, segretario regionale della Filctem (CGIL): «Si tratta del primo caso di delocalizzazione al contrario, perché, al netto delle opinioni personali, dell’etica e delle discussioni in atto, qui siamo davanti a un’azienda che si muove all’interno del quadro normativo e che anziché investire all’estero o potenziare l’altro polo ha deciso di puntare sullo stabilimento sardo. Gli altri aspetti competono ad altri non a noi» (Il Sole24ore, 7/6/2018). La sua posizione è condivisa anche dalle altre sigle sindacali nazionali, Femca (CISL) e Uiltec (UIL) e da… Confindustria Sardegna.

La protesta dei portuali

La flotta della compagnia nazionale saudita, Bahri Shipping, dispone di 6 navi per il trasporto di veicoli su gomma (in gergo Ro Ro Cargo), utilizzate per acquistare e trasferire armi in tutto il mondo. Com’è ovvio, non è facile trovare informazioni sugli spostamenti e operazioni di carico. Sappiamo comunque che, il 9 giugno 2016, la “Bahri Janzan” si è fermata a Genova, prima di dirigersi a Veracruz, in Messico, tra il 23 e il 24 aprile e tra il 17 e 18 febbraio. Il 13 ottobre 2018 ha fatto anche 13 ore di sosta al porto di Cagliari. Stesso porto e stesse ore di sosta per la “Bahri Hofuf”, a dicembre 2018, che nel luglio 2014 era stata fermata dagli ispettori del porto di Genova perché non aveva le bolle d’accompagnamento necessarie a un carico di armamenti. Di certo, la “Bahri Jeddah” ha caricato al porto di Cagliari armamenti prodotti dalla Rwm il 9 giugno 2016, mentre la “Bahri Yanbu” ha attraccato a Genova il 15 marzo e il 6 gennaio  2019, e tra il 7 e l'11 novembre del 2018 era a Livorno. A caricare che cosa è impossibile dire e, soprattutto, sapere.

Cagliari e Genova sono stati attracchi per la “Bahri Abha” tra il 25 e il 27 marzo 2019, mentre la “Bahri Tabuk” non si vede in Sardegna dal luglio 2018.

In Europa, invece, le navi della Bahri hanno fatto spesso tappa a Danzica, Polonia. Le poche foto del carico trasportato da una delle Bahri risalgono a maggio 2019, un avvistamento testimoniato nel 2018 e un altro nel 2016. Nelle foto del maggio 2019, pubblicate da La Repubblica, si riconoscono dei LAV 700, di produzione canadese e usati dall’Arabia Saudita in Yemen, insieme a dei MaxxPro della Navistar Defense, mezzi made in USA in mano a milizie yemenite che combattono a fianco degli Emirati. Tra i porti di transito che appaiono più di frequente nei diari di bordo delle Bahri ci sono infatti Jebel Ali (UAE) e Halifax, ma anche Baltimora e Houston

Questi i movimenti tracciabili: in media, secondo i report dei Lloyd’s inglesi, nel 2019 le navi saudite per almeno 34 e fino a 71 giorni hanno tenuto spenti i transponders, rendendosi invisibili ai radar.

A maggio 2019, trova eco anche in Italia la mobilitazione dei lavoratori dei porti europei. I più decisi sono i portuali di Le Havre, i quali bloccano il carico di armi sulla nave saudita. La nave allora prosegue il suo viaggio per Genova. Quando i portuali di Le Havre chiedono ai portuali di Genova di unirsi alla mobilitazione, i portuali di Genova rispondono con lo sciopero delle operazioni di imbarco. Il 20 maggio 2019 si rifiutano di caricare la nave cargo saudita “Bahri Yanbu” con i generatori prodotti dalla azienda d’armi Teknel e destinati all’Arabia Saudita. I lavoratori del porto di Genova, come i compagni di Le Havre, annunciano che impediranno il carico perché contrasta con i valori di pace e di internazionalismo del movimento operaio. Vedremo poi come vengono interpretati pace e internazionalismo.

“La Guardia Costiera ligure fa sapere che non è la prima volta che la nave attracca ed effettua operazioni di carico e scarico nel porto di Genova, ma che forse fino ad oggi non si era al corrente di ciò che trasportasse: ‘Questa nave scala regolarmente il porto di Genova da circa 4-5 anni. Credo che la protesta sia legata a quanto successo in Francia. Probabilmente la consapevolezza di quali sono le merci trasportate è arrivata fino a noi e c’è stata questa sensibilità sull’accosto’” (Il Fatto Quotidiano 20/5/19).

La mobilitazione è partita dal basso, i sindacati sono trascinati dall’indignazione dei portuali: “La FILT-CGIL di Genova farà tutto il necessario per impedire l’imbarco di materiale bellico nel nostro porto”. “Vogliamo segnalare all’opinione pubblica nazionale e non solo che, come hanno già fatto altri portuali in Europa, non diventeremo complici di quello che sta succedendo in Yemen”, dichiara la Filt Cgil (idem). Cisl e Uil non aderiscono. L’azione dei portuali è anche contaminata dai movimenti pacifisti; tra influenza degli opportunisti e quella delle anime belle, i proletari si pongono su un piano legalitario e di difesa della Costituzione, che ripudia la guerra. Non riescono ancora a contestare la generale tendenza alla guerra del sistema capitalistico, ma si oppongono alla “illegale perché incostituzionale” esportazione verso paesi in guerra. Tutte le altre armi, destinate ad altri Stati, vengono caricate. Come se non fossero armi destinate, prima o poi, ad essere utilizzate, contro il proletariato!

Pesa sul proletariato anche l’azione dei crumiri e quindi la necessità di una maggiore organizzazione internazionale. A Cagliari ad esempio “Il trasporto è stato fatto con uso di aziende private di sicurezza e agendo con percorsi e procedure al di fuori delle normali regole e del porto, di fatto by-passando il controllo dei lavoratori portuali e utilizzando personale marittimo della nave per evitare proteste e boicottaggi” (La Stampa, 31/5/2019).

Sempre in riferimento a Cagliari: “La stessa tracciabilità del cargo è arrivata all'ultimo minuto – nel cuore della notte - proprio perché l'attenzione sui carichi di armi è massima in tutto il Mediterraneo. Ma tutto si è svolto senza intoppi, riferiscono fonti sindacali. A differenza di quanto accaduto a Genova, con la rivolta dei camalli che hanno fatto allontanare la nave gemella Bahri Yanbu” (La Repubbica, 31/5/2019). Di fronte al malcontento dei portuali, i sindacalisti fanno la voce grossa: "’Il Governo nazionale deve fermare l'export di armi verso l’Arabia Saudita, visto l'uso che la coalizione araba fa del mandato d'intervento Onu, con vittime civili nello Yemen’, questa la richiesta esplicita della Cgil regionale e Camera del Lavoro di Cagliari” (idem).

A giugno 2019, la “Bahri Jazan” arriva a Genova per provare a caricare i generatori che erano rimasti a terra un mese prima; trasporta corazzati acquistati in Canada, ma anche questa volta la mobilitazione dei portuali li costringe a rinunciare al carico di materiale militare destinato all’Arabia Saudita.

Ad oggi (marzo 2020), sappiamo che al porto di Cagliari ancora si procede al carico delle navi con modalità segrete e blindate: circa una nave al mese, benché non sia possibile reperire informazioni relative alla loro destinazione.

Le sigle sindacali che fingono di appoggiare le lotte dei portuali sono le stesse che hanno sempre difeso lo stabilimento RWM, che si sono sempre opposte alla sua riconversione, sottolineato la sua legittimità nel produrre bombe, nel rispetto della legge, e lodato i suoi investimenti. Ancora una volta, il pacifismo, sia quello delle buone intenzioni e delle anime pie, sia in veste ipocrita e sindacale, chiacchiera e strepita, ma sono i lavoratori che hanno bloccato le navi, e non importa se sono ancora poche o se l’hanno fatto ancora in modo insufficiente. Il blocco non è stato ancora attuato dai proletari del ciclo produttivo delle armi, ma solo dai proletari della catena del trasporto internazionale, i lavoratori portuali, e anche qui in modo ancora debole e non organizzato internazionalmente, non con una impostazione di classe. La protesta dei lavoratori ha fortemente risentito della direzione dettata dagli opportunisti e da movimenti piccolo-borghesi, democratici e pacifisti.

La sospensione delle esportazioni

Sta di fatto che, dopo numerose proteste delle anime buone, il 25 giugno del 2019, il Parlamento italiano approva una mozione di maggioranza, e quindi sospende l’esportazione di alcuni tipi di armi sia verso l'Arabia Saudita che verso gli Emirati Arabi Uniti. Non deve passare inosservato, si badi bene, che il provvedimento prevede solo di sospendere per 18 mesi l'esportazione, e solo di alcune armi, non la produzione in toto e, fra l'altro, solo verso i due paesi che risultano in guerra contro gli Houthi, gruppo ribelle yemenita.

L'ipocrisia dei pacifisti e dello stesso Parlamento traspare in tutta la sua untuosità, specie se si tiene conto del fatto che, già per altre merci, esiste la cosiddetta pratica della triangolazione: il paese acquirente stipula un contratto con un paese terzo che svolge il ruolo di tramite e può, di conseguenza, aggirare l'ostacolo imposto dai divieti. Ciò significa che Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti potranno continuare a comprare le armi prodotte in Italia, semplicemente acquistandole da un paese per il quale non è previsto l'embargo delle vendite, probabilmente anche a un prezzo superiore, ma senza danneggiare mercato e profitti. Si noti, inoltre, che la Germania impedisce l’esportazione di armi verso l’Arabia Saudita, ma non si preoccupa del fatto che un’azienda tedesca produca in Italia bombe per l’Arabia Saudita. Triangolazioni nella domanda e nell’offerta.

In quei giorni, lo ricordiamo, il Governo italiano che ha presentato la mozione per lo stop all’export dei missili era a guida Lega-M5S, mentre Pd e Leu hanno pensato bene di astenersi, motivando la loro scelta con la domanda “Perché altre armi no?”. Tutto questo potrebbe far apparire i nostri cari… sinistri come persone rette e di buon cuore. Eppure, è bene sottolinearlo, il governo attuale, composto da PD e M5S, si  è contraddetto più e più volte, rimandando in più occasioni la sospensione della vendita delle merci proibite. Lo sappiamo bene: le armi rimangono comunque merci.

Di fatto, se dal lato del governo l'atteggiamento appare doppiogiochista, dal pulpito dei sindacati le parole sono state piuttosto chiare e precise: “La produzione va mantenuta!”.

In realtà, il fronte in difesa della fabbrica d’armi unisce non solo sindacati di vari schieramenti, ma anche Confindustria, abitanti e lavoratori dei centri vicini, tutti pronti a difendere l'impianto produttivo di Domusnovas e a sostenere l'azienda, specie perché, prima della sospensione, erano stati annunciati nuovi investimenti, per 40 milioni di euro. L'azienda aveva dichiarato la propria intenzione di raddoppiare la superficie produttiva degli impianti, tramite il benestare da parte dei comuni di Iglesias e Domusnovas e altri enti. Si annunciò allora anche l’aumento degli addetti.

I licenziamenti

L’esportazione verso l’Arabia Saudita costituiva gran parte delle entrate, con una commessa da più di 400 milioni di euro. Dopo il provvedimento di sospensione dell’esportazione, la RWM annuncia che 160 lavoratori dello stabilimento di Domusnovas saranno mandati a casa. Lo fa con una nota del direttore generale, Fabio Sgarzi, in cui, gesuiticamente, si chiede che venga garantita la “continuità lavorativa per il maggior numero possibile di operai" (ll Fatto Quotidiano, 30/7/19) Come? Presto detto: “Si valuti di inserire RWM in un sistema di commesse legate ai sistemi di difesa nazionali europei, come già accade per altre aziende del settore”… Un vero e proprio paladino della giustizia borghese, a cui stanno a cuore le sorti dei lavoratori e dei dipendenti dell’azienda! Infatti: “Tale situazione non è dovuta a scelte aziendali, né causata dall’andamento del mercato, è espressione della volontà politica del Parlamento e del Governo e va serenamente accettata, nel rispetto delle leggi dello Stato che ha sempre guidato l’operato dell’azienda” (idem). Poi aggiunge, con tono di commovente mestizia e per cercare di rassicurare i lavoratori: “Inizia oggi un periodo sicuramente non semplice, che richiederà la massima collaborazione di tutti nel segno della razionalizzazione, dell’efficienza e della tempestività, perché l’azienda prosegua nella realizzazione degli investimenti strategici, mantenga la propria posizione di mercato e si faccia trovare pronta alla ripresa al termine del periodo di sospensione“ (idem). E continua: “I programmi di produzione degli stabilimenti di Ghedi e di Domusnovas potrebbero essere modificati per rispondere al meglio alle esigenze degli altri contratti acquisiti e in fase di acquisizione. Mi adopererò al meglio per dare continuità lavorativa al maggior numero possibile di lavoratori” (La Nuova Sardegna, 1/8/2019). Quali migliori argomenti che nuove commesse e investimenti?

Il sindaco Massimo Ventura, militante del PD di vecchia data, non ha dubbi su quale fronte schierarsi in questa vicenda: “Qui c’è un’alta professionalità. È bene ricordare che chiudere questo stabilimento significa mandare a casa quasi trecento persone, che per un territorio che sopravvive con gli ammortizzatori sociali o le pensioni non è una cosa di poco conto”. Ci troviamo davanti al classico caso di ricatto occupazionale. L’area è stata scelta oculatamente: si tratta di un'area fortemente depressa, Domusnovas è un paese dell’Iglesiente con 6.700 abitanti, a una quarantina di chilometri da Cagliari. Il Sulcis-Iglesiente è tra le province più povere d’Italia, dove la disoccupazione tocca numeri impressionanti, con conseguenze drammatiche sulla vita dei proletari. Facile, in quella miseria, obbligarli proletari ad accettare di produrre strumenti di morte, anche sapendo che verranno usati per sterminare altri proletari, posizionati su un'altra area, vittime inermi di scontri interimperialistici.

Fame o bombe? Pane e bombe!

I comitati per la riconversione

Le associazioni e i movimenti pacifisti, da parte loro, si tengono ben lontani dalla questione della lotta di classe e di rovesciamento dell’attuale sistema di produzione. Preferiscono buttarla sull’aspetto di carattere etico, perché – affermano – “il lavoro non deve produrre morte!”. Chiedono semplicemente la riconversione della produzione. Dimenticano che il sistema capitalistico, basato sulla schiavitù salariale, produce morte ad ogni piè sospinto, nelle fabbriche e, in generale, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Denunciano che il piano di emergenza della fabbrica è fermo al 2012, con centinaia di tonnellate di esplosivo che circolano per il territorio e un deposito di liquidi ad alta infiammabilità a ridosso delle abitazioni: ma quali azioni di lotta propongono? Appelli alle istituzioni e manifestazioni pacifiche.

Appare evidente che queste prese di posizione rifuggono il problema e si scontrano con le condizioni materiali di esistenza del proletariato di un'area costretta da ormai diversi decenni a una condizione di pura sopravvivenza e, quindi, pronta a vendersi al miglior offerente di turno, proprio perché spaventata da una chiusura dello stabilimento, che li getterebbe in una condizione di miseria ancora più grave.

Cosa diciamo ai lavoratori

A noi tutto ciò non appare come una sorpresa o un evento inaspettato. Abbiamo voluto riportare le parole precise pronunciate da questi omuncoli, non per metterla sul piano morale o etico, che non ci porterebbe da nessuna parte. Si tratta di un tema che non è confinato a un insignificante paesello della Sardegna sudoccidentale, ma si estende a livello planetario, valido anche per stati nazionali dell'ordine degli USA o della Russia. Come da tempo ripetiamo, non si tratta di essere buoni o cattivi, di tracciare linee di separazione fra un candidato affidabile e uno corrotto, fra chi è disumanizzato e chi ancora resiste. Il punto rimane sempre lo stesso: questo sistema di produzione impone, attraverso le sua legge ferrea (DMD') una precisa tabella di marcia che tutti devono rispettare. Non si può pretendere di riformare l'apparato capitalistico in modo graduale, scendendo a patti con le scelte aziendali e cercando di salvare capra e cavoli, o peggio, ipotizzando di procedere a colpi di scheda elettorale, scegliendo in modo oculato quei rappresentanti che potrebbero essere più onesti e corretti, affinché non ci siano più guerre e tutti possano stare meglio.

Il proletariato di Domusnovas, così come quello mondiale, deve sapere che non esistono scorciatoie o vie semplici verso la società senza classi. Bisogna comprendere che il mostro capitalistico, se non sarà affrontato e sconfitto, continuerà a fagocitare vite umane, distruggere intere popolazioni nei teatri di guerra come all'interno delle fabbriche, senza porsi freni o questioni etiche, perché la sua esistenza si basa solo sul profitto a scapito della stessa specie umana.

Appare, di conseguenza, sempre più necessario il suo abbattimento violento e la sua estinzione forzata attraverso la dittatura del proletariato, guidata dal suo partito di classe, per la creazione di una società senza classi, senza schiavitù salariale, senza mercato, e quindi, solo allora, senza armi e senza guerre. Questo è il compito immane che bisogna perseguire, pena l'estinzione della specie umana. Solo l’unione del proletariato, in una lotta coordinata e decisa, oltre gli interessi locali e nazionali, può interrompere la tendenza alla guerra. Il proletariato deve riappropriarsi della sua capacità di lotta, con l’uso della necessaria violenza, prima per rispondere alla violenza borghese e poi per attaccare. La rivoluzione è un passaggio inevitabile, per porre finalmente termine alle guerre, mentre un imbelle e traditore pacifismo piccolo-borghese non potrà mai realizzare questo obiettivo storico.

[1] Secondo l’organizzazione Armed Conflict Location & Event Data Project, una ONG legata al governo statunitense, sarebbero oltre 100mila le persone uccise in Yemen nella guerra in corso tra Arabia Saudita e insorti filo-iraniani a partire dal 2015. Similmente, secondo una previsione delle Nazioni Unite, potrebbero ammontare ad almeno dieci milioni di persone che rischiano una tremenda carestia.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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