L’intervista su la Repubblica del 7 novembre con l’economista Joseph Stiglitz, Premio Nobel 2001 per l’economia, sottolinea il profilo accademico di un personaggio “molto polemico”, che sconfina nei… “territori proibiti del socialismo”, presentato dalla stampa di natura economica come un “critico della globalizzazione, del neoliberismo e fautore di un capitalismo progressista”. Stiglitz proviene dalla “sinistra sociale” statunitense ed è uno dei più noti rappresentanti di questa corrente politica americana: “Se non aggiustiamo – dice lui! – il capitalismo saremo travolti dalle disuguaglianze sociali crescenti e da un sistema incontrollabile, diretto a scontrarsi con il populismo”.

Al contrario, le manifestazioni di lotta sociale che da anni investono aree diverse del mondo, da quelle più arretrate a quelle più sviluppate, prodotte dallo stato generale di malessere e di miseria, chiedono l’intervento urgente della lotta proletaria di classe, non certo del vecchio riformismo: e solo il diktat imposto dalla dittatura proletaria potrebbe mettere ordine al disastro dell’economia ereditata dal dominio borghese, sempre più distruttivo. Ma Stiglitz pretende, monotona cantilena riformista, che “gli Stati abbiano norme capaci di limitare il potere delle aziende, che usino investimenti pubblici, che aumentino l’efficienza per ottenere più produttività, che utilizzino un sistema fiscale progressivo, che usino un welfare state che non si risolva in un’assistenza sociale”: che intervengano insomma nelle contraddizioni sociali da “bravi aggiustatori”.

Il mercato globale, di cui si parla insistentemente in questi ultimi decenni, è ormai al centro della scena, mentre l’economia borghese, in condizioni di indebitamento generale, vive al limite del collasso. Le illusioni   e allusioni stataliste fanno di Stiglitz un vero e proprio sopravvissuto, il cui scopo è quello di voler rinverdire, nel buio di questo inverno, l’albero spoglio della socialdemocrazia. Dall’intervista del quotidiano emerge il carattere di una “vocazione antistorica”: Stiglitz pensa di riportare alla luce il ruolo dello Stato come “regolatore, investitore, distributore e risolutore”. Occorre, dice, “dopo un lungo periodo di neoliberismo, di trionfo del mercato sullo Stato, invertire il processo, cambiare tutte le modalità dell’attuale vita sociale, liberarci delle politiche globali macroeconomiche, ripudiare la favola inventata dai signori delle finanze”: ci vuole insomma un nuovo “contratto sociale”, nel quale “si riconosca che l’attuale diseguaglianza sociale è la vera causa che frena l’attuale crescita economica”.

Stiglitz non può capire che, viceversa, è il processo di accumulazione capitalistica a generare quella che Marx chiama “miseria crescente”. Perso tra gli spiriti del mercato e quelli legalitari dello Stato, il “nostro” economista non può che ripetere all’infinito il vecchio ciarpame riformista. Gli “spiriti selvaggi” del capitale, a detta del vecchio Adam Smith, risolverebbero la relazione dialettica fra produzione e consumo: “basterebbe assecondare, liberalizzare, globalizzare bisogni e consumi senza intralci, senza interventi esterni, senza barriere statali, senza organizzazioni sindacali, senza speculatori, senza protezionismi e la natura stessa del processo economico tenderebbe verso lo sviluppo e l’accumulazione del capitale”. Gli “spiriti legalitari” del Capitale, introducendo nuove regole al sistema, lo condurrebbero ad uno stato di equilibrio e di stabilità. Come si sa, i classici dell’economia borghese, da Smith a Ricardo, ritenevano, al contrario, che non si possono impedire le crisi economiche. L’uso dei mezzi di controllo e degli accordi fra Stati, come soluzione, non permetterebbe affatto di riportare il processo produttivo all’equilibrio. Il sistema capitalistico mostra, proprio con le crisi e a dispetto di tutte le cosiddette “leggi economiche” quantitative, la connessione dialettica tra merce e denaro: mostra in vero il suo proprio fallimento, perché esso porta in sé i caratteri dell’autodistruzione. Il vulcano della produzione non consente sosta e il mercato, comunque esso sia costituito, spinto dal motore della crescita tende a sprofondare nella palude sociale.

Per Stiglitz, “serve un equilibrio migliore fra Stato e mercato”. Vana illusione! Le distinzioni politiche tra destra e sinistra, tra libertà e uguaglianza, tra riformismo e fascismo, restano dentro il rigido cerchio della dittatura della borghesia. Solo la dittatura del proletariato, sotto la direzione del partito di classe, potrà portare la rivoluzione proletaria verso il comunismo. La produzione di merci condurrà di necessità la dinamica economica verso quel limite estremo rappresentato dal capitale stesso: lo stato di moto tenderà per sua natura obiettiva a incepparsi e a uscire comunque dallo stato d’inerzia. Comunque, ci si troverà di fronte a quel che è successo in questi ultimi quarant’anni: aziende in crisi di sovrapproduzione, banche che crollano, crisi finanziarie e un ambiente naturale e sociale devastato. Il rapporto fra Stato, mercato e crescita economica dipende da una moltitudine di fatti: ma, guardando il percorso di un secolo, mettere insieme Stato e mercato non ha salvato il sistema dalle crisi di sovrapproduzione, così come non lo ha salvato dalla caduta del saggio medio di profitto; la “mano invisibile” del mercato, la contrapposizione dialettica tra interesse personale e interesse generale, la deificazione dei mercati finanziari e la necessità di aumentare il saggio del profitto, non hanno migliorato le condizioni sociali esistenti: le hanno spinte invece verso il baratro. La Storia non concederà molto altro tempo ancora al modo di produzione capitalistico: a meno che esso ricorra a un ennesimo bagno di sangue mondiale...

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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