Prendiamo spunto da un'intervista all'ottantunenne ingegnere tedesco, fondatore e presidente del  Forum di Davos, il  consesso di Paperoni e politici di peso che ogni anno si runisce nell'ameno villaggio svizzero per fare il punto su come gira il mondo e, soprattutto, su come continuare a farlo girare a vantaggio della sempre più ristretta cerchia di potentissimi straricchi. Sgombriamo subito il campo da un possibile equivoco: di questo circolo, pur fatto di gente in carne ed ossa, interessano poco i dati anagrafici. Si  tratta semplicemente di una delle massime espressioni, intercambiabili e anonime, del potere capitalistico mondiale, oggi concentrato in poche grandi società multinazionali supportate servilmente dai rispettivi comitati d'affari: i cosiddetti governi.

Ora accade che, dopo mezzo secolo di efficaci maneggi – economici, politici, diplomatici – e straordinari successi nel garantire crescente potere e guadagno all'augusto circolo, e di riflesso all'intera classe di cui esso rappresenta la crema, tra i lussuosi chalet delle Alpi svizzere cominciano a circolare cupi presentimenti. È vero che anche nei decenni passati non tutto era filato liscio, ma tutto sommato lorsignori, dati alla mano, celebravano di anno in anno i successi che la piena libertà di movimento del capitale sui mercati mondiali comportava in termini – dicevano! - di riduzione della povertà e ampliamento della cerchia di quanti potevano godere di un reddito decente,  perfino nei cosiddetti paesi in via di sviluppo. Certo, il mondo non era perfetto, ma le conseguenze della cosiddetta globalizzazione in termini di sfruttamento, guerre, repressione, devastazione ambientale, ecc. venivano archiviati come danni collaterali sulla via di un progresso che avrebbe nel tempo risolto ogni guasto e garantito ricchezza e democrazia: una Bengodi in cui si sarebbe trattato solo di cogliere le opportunità a portata di mano di tutti, poveri diavoli compresi, a esclusione dei fessi.

Libera circolazione del capitale e piena libertà d'impresa erano i mantra che accompagnavano l'adozione di politiche di austerity e del lavoro che a poco a poco riducevano le risorse per il welfare e, negli stati di vecchio capitalismo, comprimevano all'osso le tutele e le garanzie conquistate in  decenni di lotte sindacali. Contemporaneamente, il movimento del capitale mondiale conosceva una lunga fase espansiva, interrotta qua e là da molte crisi locali e da alcuni crolli delle borse e segnata da una crescente finanziarizzazione e da un tasso di crescita mediamente inferiore rispetto ai cicli precedenti, che si interrompeva bruscamente con la grande implosione del 2008-2009. Trascorsi dieci anni da quel punto di svolta, il capitalismo è ancora vivo e vegeto, ma è  talmente inguaiato che il vecchio ingegnere è giunto alla conclusione che se non ci si mette una pezza, per i soci del club dei Paperoni la fine della pacchia potrebbe non essere lontana.

Nell'intervista concessa all'inviato di Repubblica (1), egli individua lucidamente alcuni nodi critici che caratterizzano l'attuale fase. Anzitutto, il crescente peso del debito mondiale, pubblico ma soprattutto privato, che sostiene le Borse mondiali e finanzia le imprese con una montagna di titoli "corporate", ma non è in grado di rilanciare investimenti, produzione e profitti. L'enorme massa di liquidità erogata dalle principali banche centrali, infatti, finisce in gran parte nel sistema finanziario, determinando un boom delle borse e l'abbattimento dei tassi di interesse di ogni sorta di obbligazioni. Ciò comporta che tutto il gran baraccone, tenuto faticosamente a galla dalle politiche monetarie ultraespansive, potrebbe crollare per uno stormir di fronde: basterebbe un semplice rialzo generale dei tassi di interesse per far precipitare la valutazione di una montagna di titoli e far fallire le molte imprese che si reggono solo grazie al basso costo dell'indebitamento. "Stesso discorso vale – riconosce il vecchio – per gli stimoli fiscali del Giappone o per le tasse più basse di Donald Trump che non hanno spinto gli investimenti ma fatto crescere i buy-back in borsa" (2). La crescita  dei prezzi azionari e dei dividendi – scopo dichiarato del management,  a cui tutto va sacrificato, in primis la pelle dei salariati – si nutre cannibalizzando lo stesso capitale sociale, contabilizzando guadagni che non hanno alcun rapporto con la crescita del profitto reale generato dalla produzione.  Dunque, per quanto i servi del capitale si sforzino, non c'è verso di rianimare il bestione, e l'euforia che di quando in quando prende i "mercati" è frutto di un'ubriacatura a cui seguirà un brutto risveglio.

Se è questo il traguardo cui è giunta la celebratissima libertà d'impresa, tutti dovrebbero trarne le necessarie conseguenze. Noi le nostre le abbiano tratte da quando il capitale si è affermato storicamente come compiuto sistema economico e sociale, e se registriamo le presunte soluzioni  prospettate dai rappresentanti del nemico di classe è per trovare conferme della sua impotenza a cavarsi fuori dalla merda, e magari per farci una sarcastica risata. Nel caso del nostro anziano benemerito, folgorato da un'improvvisa presa di coscienza maturata dopo lunghe riflessioni, le soluzioni fanno leva sui buoni sentimenti: per salvarsi, il capitalismo deve diventare "responsabile", un sistema dove le aziende  "non sono solo un fatto economico ma organismi sociali", che misurano non solo gli utili, ma anche "gli effetti negativi e i costi esterni dei loro prodotti per incoraggiare investimenti responsabili, rispettosi dell'ambiente e della coesione sociale". La storiella suona, oltre che già sentita, piuttosto inverosimile, ma il Nostro sembra voler profetizzare: o così o sarà la fine. Dei due esiti, è facile scommettere sul secondo. Tutti quelli che hanno tentato l'impresa di conciliare il capitalismo con le necessità della specie umana  hanno miseramente fallito, e non è un caso che le vecchie ricette per disciplinare e contenere lo sviluppo delle forze produttive sotto l'autorità della Morale (la Chiesa) o dello Stato (il fascismo) ritrovino oggi nuovo spazio e seguaci. Tanto la Morale quanto lo Stato esprimono semplicemente l'altra faccia dei mali del capitalismo, ne sono un necessario prodotto, non un'alternativa o una soluzione. Servono solo a farlo campare più a lungo e a coltivare l'illusione che lo si possa correggere. A questo proposito, se è un andazzo generale che gli investimenti vengano dirottati dalla produzione ai dividendi,  non è per l'“avidità” dei manager e dei loro clienti, ma perché oggi è più redditizio puntare sui prezzi finanziari che su una produzione che garantisce prezzi e tassi di profitto costantemente calanti. Nella logica del capitale complessivo, anonimo, non fa una piega: ciò che conta, l'unica morale riconosciuta, è la redditività dell'investimento.

Ad ogni modo, se il nostro notabile, tra una delizia e l'altra disponibile nel suo mondo ovattato, ha sentito la necessità di esprimere queste preoccupazioni e di partorire l'edificante rimedio, una ragione c'è: la strizza. Le grandi manifestazioni di masse esasperate dalla povertà e dalla violenza del sistema, dal Sudamerica al Medio Oriente e al Nordafrica, senza trascurare gli scioperi contro la riforma delle pensioni e, pur con i suoi limiti, il tenace movimento dei gilet jaunes in Francia, sembrano annunciare l'apertura di una stagione di rivolte sociali diffuse che fa tremare i polsi al gran mondo degli squali e dei parassiti dell'alta finanza. L'“uomo di Davos” paventa che tutto questo trambusto conduca a una crisi della democrazia. In effetti, la risposta data finora ai movimenti di protesta è stata una dura repressione. In Iran, dopo il sangue versato negli scontri di piazza (oltre 300 morti!) è seguita una chiamata alle armi contro un provvidenziale atto aggressivo del Grande Satana. Niente di più efficace per tacitare la rivolta sociale e dare fiato alle forze che sostengono il regime. Quando si tratta di fronteggiare il risveglio del proletariato, i nemici esterni sono i migliori alleati. La menzogna democratica lascia spazio alla cruda realtà dei rapporti di classe, alla dittatura aperta, alla guerra.

L'anziano signore di Davos dice che preferisce la democrazia e richiama la sua classe a una responsabilità morale nei confronti del mondo dominato. Ma è una morale ipocrita, frutto della paura delle masse sfruttate e della cattiva coscienza, che non basta certo a ridare dignità a una classe che, esaurita la sua missione storica, vive parassitariamente sulle spalle dei proletari e sul consumo sconsiderato delle risorse naturali. Il mondo a venire sarà sempre più segnato dallo scontro drammatico tra i fautori della agonizzante società presente e le forze reali, sociali e materiali, che lavorano  per la società di specie di domani.

 

Note:

1- Livini, "Mai più profitti senza un'etica", la Repubblica, 18-12-2019.

2 - Ricordiamo che il buy back è l'operazione attraverso la quale una società per azioni acquista azioni

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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