Le dure leggi del capitale smonteranno le illusioni sul “governo del cambiamento” e avvicineranno le condizioni per la ripresa della lotta di classe

Quando Marx si occupò dell'ondata rivoluzionaria in Francia del 1848 e del suo riflusso, mise in rilievo come in quelle vicende si riflettessero gli interessi delle classi in lotta, come il dominio dell'aristocrazia finanziaria sotto Luigi Filippo fosse stato scalzato dall'alleanza tra borghesia e proletariato e come, con il sostegno della piccola borghesia e del contadiname, la sanguinosa sconfitta del proletariato nel giugno 1848 avesse riconsegnato il Paese al ricatto della grande finanza.  Pur nella diversità delle forme assunte dallo scontro di classe, riflesso  del differente grado di sviluppo del capitalismo e di consolidamento del potere borghese, a distanza di 170 anni le vicende politiche di oggi sembrano specchiarsi in quegli avvenimenti, riproporne dinamiche, alleanze e contrapposizioni. La Storia – direbbe Marx – ripete i drammi di ieri in farsa, ma è pur vero che la farsa non cancella il dramma della permanenza della lotta di classe, anche se soffocata nelle forme della democrazia rappresentativa. Oggi, in epoca di avanzato imperialismo, l'aristocrazia finanziaria domina più che mai e l'equilibrio tra entrate e uscite nel bilancio dello Stato continua ad essere l'imperativo categorico  dei governi al servizio del capitale finanziario.

Scrive Marx :

Il disagio finanziario rese fin dall'inizio la monarchia di luglio dipendente dalla grande borghesia, e la sua dipendenza dalla grande borghesia fu la sorgente inesauribile di un crescente disagio finanziario. Impossibile subordinare l'amministrazione dello Stato all'interesse della produzione nazionale senza stabilire l'equilibrio nel bilancio, l'equilibrio tra le uscite e le entrate dello Stato.(1)

Le dimensioni dell'odierno debito pubblico italiano e le regole europee impongono agli esecutivi il contenimento del deficit di spesa al fatidico 3%. Il rigore fiscale è contemporaneamente il risultato dell'indebitamento dello Stato e la condizione affinché il debito sia onorato. Intanto, la miriade di imbonitori al soldo della finanza tuona all'unisono contro il debito pubblico,

“L'indebitamento dello Stato era [è], al contrario, l'interesse diretto della frazione della borghesia [l'aristocrazia finanziaria, ndr] che governava e legiferava per mezzo delle Camere. Il disavanzo dello Stato era infatti il vero e proprio oggetto della speculazione e la fonte principale del suo arricchimento”.

Nella Francia di Luigi Filippo, la pressione del debito pubblico si esercitava nello spazio nazionale, ma se la trasportiamo sul piano internazionale la seguente descrizione di Marx sembra scritta per l'oggi:

In generale la situazione instabile del debito pubblico e il possesso dei segreti di Stato offrivano ai banchieri […] la possibilità di provocare delle oscillazioni straordinarie, improvvise, nel corso dei titoli di Stato; e il risultato costante di queste oscillazioni non poteva essere che la rovina di una massa di capitalisti più piccoli e l'arricchimento favolosamente rapido dei giocatori in grande”.

La pressione del debito pubblico e la speculazione che se ne nutre, e il crescente carico fiscale sul proletariato e sulle mezze classi per far fronte alla spesa per gli interessi sono gli strumenti attraverso i quali il capitale finanziario subordina la Nazione. A questo riguardo poco è cambiato rispetto alla Francia del 1848. La speculazione che oggi vede protagonisti grandi banche, società finanziarie, fondi di investimento internazionali è sempre pronta a lucrare sulle oscillazioni dei prezzi dei titoli. Più elevato il debito pubblico, maggiore la rendita intascata dal capitale finanziario, sia in forma di tassi di interesse sia di speculazione sui titoli di Stato; più gli esperti in economia tuonano contro il debito pubblico, più gli speculatori si sfregano le mani pensando ai guadagni che ne ricaveranno. A gonfiare il debito pubblico italiano non è stato un welfare particolarmente generoso, bensì la spesa per interessi, aumentata enormemente da quando la Banca centrale ha smesso di garantire l'acquisto delle emissioni del Tesoro (2), affidandole alle decisioni del “mercati”. E “la massa dei capitalisti più piccoli” – sottoscrittori di fondi, titoli azionari, obbligazioni – ha visto andare in fumo le sue somme in conseguenza di politiche dei gruppi bancari che spingono a gonfiare le voci di debito nei bilanci per aumentare la massa dei rendimenti.

Chiarito che “il disavanzo dello Stato era [ed è] nell'interesse diretto della frazione borghese dominante”, se lo Stato dipende dal debito e il debito è nelle mani del capitale finanziario, è scontato che “la più piccola riforma finanziaria” naufraghi oggi come allora “di fronte allo strapotere dei banchieri”.  E' scontato che le banche vengano salvate con denaro pubblico e che la finanza conservi la libertà di speculare senza limitazioni nonostante i disastri che ha provocato. Alla dipendenza oggettiva dello Stato dal capitale si somma quella dei politici partecipi in vario modo dei profitti delle congreghe finanziarie e imprenditoriali. Dopo due secoli di dominio della borghesia, la cronaca di oggi racconta “l'identica smania di arricchirsi non con la produzione, ma rubando le ricchezze altrui già esistenti”, propria della aristocrazia della finanza e dei suoi servi, e le frazioni della borghesia francese che non erano al potere gridavano alla corruzione!... Abbasso i grandi ladri! Abbasso gli assassini! La borghesia industriale vedeva compromessi i propri interessi, la piccola borghesia era moralmente sdegnata, la fantasia popolare si ribellava (Marx, cit.)

Non molto diverso era lo stato d'animo delle classi che in Italia hanno votato per i cosiddetti “antisistema” alle elezioni di marzo 2018. Al grido di “Onestà! Giustizia!” anche oggi vediamo la borghesia industriale – le sue componenti meno integrate col capitale finanziario – allearsi con la piccola borghesia e settori del proletariato per contrastare il predominio soffocante della finanza che opera attraverso lo Stato. Certo, il parallelo tra la rivoluzione del 1848 e la sgambata alle urne 2018 suona blasfemo, ma è pur vero che se oggi il dominio consolidato e totalizzante della borghesia permette raramente alla lotta di classe di manifestarsi in forma aperta, l'urna è uno strumento della lotta di classe: strumento della borghesia che ne consolida il potere quale che sia il vincitore.

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Francia 1848: dopo le barricate di febbraio e l'abbattimento della monarchia si forma un governo provvisorio con larga rappresentanza borghese e due rappresentanti operai (Luis Blanc e Albert). Ci vorrà la sanguinosa repressione del proletariato in giugno per decretare la sconfitta delle forze rivoluzionarie; poi le elezioni per l'Assemblea legislativa del maggio 1849 avrebbero aperto la strada alla restaurazione del legittimismo monarchico in veste repubblicana e del potere dell'aristocrazia finanziaria.

 

Italia 2018: la zuffa schedaiola di primavera ha registrato la batosta dei partiti su cui si imperniavano le coalizioni di centrodestra e centrosinistra (Forza Italia e Partito Democratico) e il trionfo di due formazioni considerate “antisistema”, interpreti in modo diverso del filone cosiddetto “sovranista” o “populista”. Il parto del nuovo governo è avvenuto all'insegna di un inedito e imprevisto connubio tra queste due forze che hanno sottoscritto un contratto – anche questo del tutto inedito – che le impegna su alcuni obiettivi. Se si dà credito alle promesse elettorali, l'insediamento dovrebbe rappresentare una svolta rispetto ai precedenti governi che si proponevano come meri esecutori dei diktat dei mercati e delle burocrazie di Bruxelles. Questo, che si presenta come “governo del cambiamento”, pare intenda “fare politica”, riappropriarsi di una qualche autonomia rispetto alle rigidità economiche imposte dall'assetto imperialista mondiale ed europeo, recuperare “sovranità” nazionale su materie attualmente dirette o condizionate da soggetti sovranazionali (Unione europea e mercati finanziari) per poter dare risposta a istanze provenienti dai settori del “popolo” più penalizzati dal rigore di bilancio.

Il risultato elettorale è un effetto della contraddizione tra la base nazionale del capitale e la sua necessaria proiezione mondiale, resa acuta dalla crisi del 2008 in poi, quando il multilateralismo ha lasciato progressivamente il passo a politiche di più aperto sostegno agli interessi nazionali. Il cosiddetto “sovranismo” si va affermando a partire dal vertice, dalla superpotenza atlantica che mostra i muscoli a difesa delle proprie produzioni, progredisce in Europa per l'insostenibilità dell'attuale assetto delle relazioni tra i membri dell'eurozona, trova espressione nelle ambizioni di potenza di Paesi come Russia e Turchia,  conquista buona parte dell'America latina in nome della difesa delle istanze “popolari” e nazionali. Ma il sovranismo è il sintomo, non il fattore, dell'inasprirsi delle tensioni economiche che generano tensioni politiche e preparano un riassetto degli equilibri internazionali, delle sfere di influenza e delle alleanze.

L'Italia rientra tra le potenze che occupano posizioni non di primo livello nella catena imperialista – un tempo definite “anelli deboli” – oggi sottoposte a forti condizionamenti esterni che ne indeboliscono il peso economico e politico. Il Paese continua a subire la pressione della competitività tedesca in uno spazio a regime di cambio a parità fissa (eurozona), virtualmente irreversibile, e la contrazione del mercato interno dovuto alle politiche di rigore imposte dall'assetto comunitario (pareggio di bilancio in Costituzione, fiscal compact...). Per lungo tempo i governi hanno applicato politiche deflazionistiche di riduzione dei prezzi e dei salari per recuperare competitività internazionale. Se ne sono servite le aziende più innovative orientate all'export, mentre quelle rivolte al mercato interno hanno subito un forte ridimensionamento. I più colpiti sono stati il lavoro salariato – dal precariato diffuso ai dipendenti pubblici – e la piccola e media borghesia imprenditoriale del Nord, falcidiata dalla pressione fiscale e dal calo dei salari e dei prezzi interni.

Gli interessi di queste classi si trovano temporaneamente a convergere nell'obiettivo di ricreare un mercato interno più dinamico, con prezzi e salari crescenti. Il nuovo esecutivo nasce pertanto come espressione delle istanze di un'eterogenea alleanza tra classi, accomunate dall'interesse a contrastare alcuni eccessi prodotti dal dominio del capitale finanziario internazionale, nella duplice veste europea ed atlantica. Ma questo obiettivo comporta l'adozione di una politica nazionale di spesa in deficit che entra in rotta di collisione con le regole europee e con l'assetto imperialista mondiale, dove i mercati dei capitali premono per lo smantellamento delle residue forme di tutela del lavoro salariato e del welfare e dove l'internazionalizzazione dei cicli produttivi nelle “catene del valore” rende difficile collocare gli “interessi nazionali” entro confini definiti.

La vittoria degli “antisistema” in Italia ha messo in gioco gli equilibri dell'area europea a dominanza tedesca, già scossi dalla Brexit, e obbliga la Germania a riposizionarsi per evitare una “deriva mediterranea” della penisola dagli effetti imprevedibili. La formazione di un governo anomalo, fuori dagli schemi, è sembrato uno schiaffo al grande capitale finanziario internazionale e allo strapotere tedesco, una rivendicazione di autonomia dai ricatti dello spread e della speculazione che tengono costantemente nel mirino le politiche governative. Non per nulla il tentativo di formare il nuovo esecutivo è stato inizialmente bloccato dal Capo dello Stato con valutazioni strettamente politiche sulle opinioni del ministro dell'economia designato. Sul piano istituzionale, niente di simile era mai accaduto prima (3). Poi qualcuno si è accorto che annullare il risultato elettorale e andare a nuove elezioni, o peggio, imporre un governo tecnico di ragionieri alla Monti era più pericoloso che mettere gli “antisistema” alla prova, nella quasi certezza che, alle prese con i fatti, i ruggiti della propaganda si sarebbero trasformati in belati.

Alla fine, il “governo del cambiamento” ha preso avvio, dando respiro alle mal riposte speranze delle masse di proletari e semi-proletari sottoposti a un crescente sfruttamento e impoverimento. L'intento dichiarato dal nuovo esecutivo di ridare un po' di autonomia a una politica costretta nell'alveo del rigore deflazionistico nasce anche dalla situazione insostenibile di un proletariato umiliato e privo dei suoi tradizionali strumenti di difesa e dalle difficoltà in cui navigano ampi settori delle classi di mezzo. La diatriba se il nuovo comitato d'affari sia più di destra o di sinistra ci è indifferente, rimane comunque nell'alveo borghese e tanto ci basta. Ci interessa invece valutarne i programmi per riconoscere le direzioni che sta prendendo la politica borghese nel generale rimescolamento a cui si assiste di questi tempi.

La politica sui flussi migratori – quella che più ha suscitato scandalo nello spettro arcobaleno che va dall'“estrema sinistra” ai preti – non è così distante da quella dei precedenti governi, con la differenza che quest'ultima abbinava la non-gestione del fenomeno alla vomitevole ipocrisia dei “diritti” e del “multiculturalismo”. Era così sensibile ai “diritti” da permettere lo sfruttamento bestiale del bracciantato africano nelle campagne del Sud o nelle cooperative del Nord, per indignarsene di tanto in tanto, quando qualcuno di quei poveri cristi ci lasciava la pelle; era tanto “solidale” da permettere a cooperative mafiose di lucrare sui finanziamenti pubblici all'accoglienza; era così “tollerante” da lasciare campo libero al diffondersi dell'ostilità xenofoba tra i proletari indigeni, esposti alla pressione al ribasso del proletariato immigrato sul mercato del lavoro e al degrado crescente delle periferie lasciate in balia delle mafie autoctone o di importazione. Tolleranza, solidarietà e diritti volgevano poi in intransigenza repressiva ogniqualvolta i proletari immigrati – autentici “senza riserve” – erano impegnati in dure lotte nelle campagne e nella logistica. Tutto questo insieme di atteggiamenti ha preparato la strada alla politica del neoministro leghista sui migranti – disumana come può esserlo la politica chiamata ad amministrare i fenomeni di una società disumana – che rispetto alla precedente ha dismesso un po' di ipocrisia e ha fatto emergere quella dei Paesi europei che si atteggiavano ad “accoglienti” salvo poi tenere ben chiusi porti e confini e, se del caso, usare la forza per ricacciare i disperati (4).

Altra novità rispetto agli esecutivi precedenti, almeno nelle dichiarazioni d'intenti, è l'inversione di rotta in materia di lavoro, previdenza e ammortizzatori sociali. Il nuovo governo promette di contrastare il precariato, di riaffermare i “diritti” del lavoro, di attenuare gli effetti della riforma Fornero, di rafforzare e dare nuova forma ai sussidi per i disoccupati... Tutte materie che entrano nel vivo della condizione proletaria. Non c'è bisogno di aggiungere che l'indirizzo non ha niente di radicale e che l'attuale assetto legislativo su lavoro e previdenza non sarà smantellato. Rispetto ai proclami elettorali molte promesse sono già state smorzate e ridotte nel loro potenziale impatto: il reddito di cittadinanza riprende l'impianto della legislazione tedesca che subordina l'erogazione del sussidio all'accettazione di un lavoro attraverso i centri per l'impiego; l'introduzione di quota 100 per la pensione avvantaggia chi ha una lunga storia contributiva, ma esclude in prospettiva le giovani generazioni e quanti hanno percorsi lavorativi discontinui; il Jobs Act ha subito modifiche assai limitate, sufficienti a suscitare le proteste di una Confindustria abituata a incassare vantaggi, ma che in realtà non toccano il principio della licenziabilità per motivi economici. Dunque, è cambiato poco, ma perfino troppo rispetto alle misure draconiane dei precedenti esecutivi, all'ingordigia degli sfruttatori, ai limiti imposti dalle regole europee in materia di bilancio quando si tratta di venire incontro alle necessità delle classi inferiori. Tant'è che, a distanza di poco più di un mese dall'insediamento, aveva già preso avvio una guerra interna alle istituzioni e alle classi dirigenti a colpi di dichiarazioni,  interventi della magistratura, campagne giornalistiche all'insegna della denigrazione e del discredito che prendevano di mira i rappresentanti del governo, specie se dei più “anomali” Cinquestelle.

Al di là delle difficoltà e dei nemici che incontra ad ogni tentativo di applicazione, il “contratto” politico che lega le due componenti del governo e che ha permesso la convergenza di questo, chiamiamolo così, “fronte di classe” presenta una sua interna debolezza. E' evidente la contraddizione tra la promessa di un incremento della spesa in deficit e l'adozione di una flat tax – storica bandiera della Lega e di tutta la destra neoliberista. Ben più che sulle questioni etiche sollevate dalla durezza di Salvini sui migranti, è sui danèe che si gioca tutta la partita. La flat tax almeno sulla carta, contraddice il principio stesso dell'imposta progressiva che, dice Marx, “non è solamente una proposta borghese, attuabile, su scala maggiore o minore, entro i rapporti di produzione esistenti; essa era l'unico modo per legare i ceti medi alla repubblica dabbene, per ridurre il debito dello Stato.  La flat tax, comunque venga concepita, porterà a una riduzione delle  entrate fiscali. Da cosa saranno compensati i minori introiti, se di imposta patrimoniale sui redditi della borghesia medio-alta non si osa nemmeno parlare? Quali magiche alchimie potranno contenere la crescita del debito dello Stato?  Forse il vicepremier Cinquestelle, che ogni anno assiste a o' miracolo, confida in San Gennaro. In verità, il governo affida la soluzione a una ripresa degli investimenti pubbliciper favorire il rilancio di consumi e produzione grazie all'effetto moltiplicatore di keynesiana memoria. In questo modo, l'incremento del Pil – e il conseguente aumento delle entrate fiscali e dei prezzi – compenserebbe la maggiore spesa, il calo della tassazione e l'inevitabile incremento del debito pubblico.  La scommessa sull'efficacia dell'effetto moltiplicatore riprende una vecchia ricetta che i Paesi di vecchio capitalismo hanno adottato in modo sistematico fino alla grande inflazione degli anni Settanta e che la Cina continua ad applicate a sostegno del Pil, ma con efficacia via via decrescente, in rapporto al livello della sovrapproduzione (di capitali, mezzi di produzione, merci e forza lavoro) (5). Pertanto il calcolo del governo è alquanto ottimistico e si scontra con le limitate risorse finanziarie a disposizione, nemmeno lontanamente paragonabili a quelle cinesi.

Per quanto contraddittorio, il contratto di governo esprime comunque una specie di programma generale. Sul piano interno l'obiettivo è attenuare l'impatto di una legislazione troppo punitiva in materia di lavoro, previdenza e fisco. Il tutto all'insegna di un dichiarato pragmatismo, alla ricerca delle migliori soluzioni per mantenere la coesione sociale, a partire da un rilancio della spesa pubblica per investimenti.

In politica estera, i partiti al governo condividono l'idea di una politica nazionale, di agire come borghesia nazionale nel contesto comunitario, di ridiscutere accordi e trattati in materia di immigrazione, fisco, banche, politica industriale, ecc. Nei rapporti con l'Europa, l'obiettivo è affrontare il problema degli squilibri di area per giungere se possibile, a un rafforzamento dell'Unione basato su equilibri diversi, senza escludere in via di principio – nonostante l'abbondanza di rassicurazioni  in merito – che il banco possa saltare. D'altra parte la possibilità di una disgregazione dell'UE e dell'eurozona prima che in qualche testa calda sovranista è nelle cose, nei rapporti reali che sono maturati al suo interno da inizio millennio ad oggi. Il prodotto degli attuali rapporti è infatti il rafforzamento del ruolo dominante della Germania che si manifesta nell'enorme surplus di partite correnti, ma è un ruolo cui non corrisponde una leadership continentale capace di considerare i soci di area qualcosa di più che dei vassalli. Un assetto di questa natura non può reggere ancora a lungo.

E' in questo contesto interno e internazionale che l'asse Cinquestelle-Lega ha  espresso il governo del rinnovamento della politica, del cambiamento in nome del “popolo”. Le due nuove formazioni – anche la Lega di Salvini è in parte una novità rispetto alla vecchia Lega Nord – hanno raccolto  l'allarme di una società alle prese con una crisi politica e sociale non così distante da un punto di rottura oltre il quale si potrebbero innescare le prime fiammate classiste. Bisognava conquistare la cabina di comando per intervenire sugli effetti devastanti del perdurare della crisi capitalistica prima che le tensioni sfociassero nella rottura della pace sociale.

Sotto questo aspetto le forze al governo sono interpreti di una visione piccolo-borghese che rifugge la lotta di classe e contempla la possibilità di una soluzione delle contraddizioni all'interno dell'attuale sistema politico e sociale. Esse sono espressione di una mobilitazione delle classi intermedie che hanno subito un duro attacco dalla crisi esplosa un decennio fa e sono soggette a un processo di proletarizzazione che da un lato le avvicina alle condizioni della classe dei senza riserve, dall'altra le spinge  ad aggrapparsi alle vecchie certezze, al senso di appartenenza a una condizione di relativo benessere garantito, all'illusione che il vecchio mondo possa ricostituirsi

assieme al conto in banca.

Con la loro visione interclassista e sbandierando la prospettiva di un rinnovamento nazionale, le due formazioni hanno raccolto il sostegno di un ampio spettro di classi che vanno dalla borghesia industriale del Nord agli operai di fabbriche e servizi, dal dipendente pubblico al precario e al disoccupato meridionale. I Cinquestelle sono visti come interpreti degli interessi immediati di lavoratori salariati, disoccupati, giovani precari abbandonati dai partiti tradizionali della Sinistra borghese; la Lega si propone di riservare “agli italiani” quei diritti sociali e di rispondere all'esigenza di ordine e sicurezza economica che viene dalle mezze classi a rischio di proletarizzazione e dalla media borghesia a rischio fallimento. Più presenza poliziesca, meno invadenza in materia fiscale: insieme, i due campioni realizzano la classica sintesi, per la quale il fascismo porta a compimento le istanze della socialdemocrazia. Il connubio di governo sembra proporre una nuova edizione del Partito della Nazione già riesumato da Renzi, che ha nel fascismo la versione originaria (6) alla quale si avvicina per il taglio poliziesco, per la volontà di soddisfare la domanda di ordine e sicurezza, all'epoca prodotta dalla minaccia proletaria, oggi dal generale degrado sociale di cui si dà massima responsabilità ai flussi migratori e al lassismo dei precedenti governi.

Su questa strada il governo in carica si incammina, come i suoi predecessori e successori, verso una forma più aperta di dittatura di classe a partire dalle emergenze che si susseguono in campo economico e sociale. L'istrione a cui si deve la paternità della creatura politica dei Cinquestelle a suo tempo dichiarò, papale papale, che senza il suo Movimento le tensioni sociali sarebbero esplose in violenza e sfociate in dittatura. Grazie ai nuovi profeti di giustizia, ordine e onestà, tutto rimane per ora contenuto nelle forme democratiche e si rinnova l'illusione della possibilità di un cambiamento entro le istituzioni vigenti. Insomma, il nuovo esecutivo del capitale si è proposto di dare all'Italia una nuova stabilità, e su questa base restituirle un ruolo meno subalterno nel consesso dei Paesi imperialisti. Il governo non si sottrae al compito che la politica  borghese è chiamata a svolgere in condizioni di crescente difficoltà:  riaffermare la capacità del metodo democratico di far valere gli interessi di tutte le classi; riaffermare la comunione dei destini dell'impresa e del proletario, uniti nei superiori interessi della Nazione, nella proiezione di una politica di potenza che è già contenuta nel sostegno alla competizione economica internazionale delle patrie produzioni. Più che degli “antisistema”, questo è il governo dei nuovi “salvatori della Patria”.

Ma il tentativo di realizzare tutti gli ambiziosi obiettivi sul piano interno e internazionale si scontra in primo luogo con la crisi generale del modo di produzione capitalistico che, pur tra alti e bassi, vive in una cronica instabilità. Nell'immediato, come si è detto, deve fare i conti con le regole comunitarie e con i mercati. La possibilità di operare in deficit è condizionata, oltre che dai trattati, dalla minaccia della speculazione internazionale contro il gigantesco debito pubblico, che potrebbe scatenare la corsa alla vendita dei titoli pubblici italiani e riaprire la prospettiva di un'uscita dall'eurozona, per altro coltivata da non pochi componenti del governo. L'eventuale riconquista della sovranità monetaria con l'uscita dall'euro assumerebbe i contorni della catastrofe, più probabilmente come conseguenza della deflagrazione dell'unione monetaria che come suo fattore scatenante, giacché nessun gruppo politico sano di mente si assumerebbe la responsabilità delle conseguenze di un'uscita unilaterale. Già ora gli equilibri all'interno dell'Ue vacillano sotto la pressione dei flussi migratori, patiscono i successi sovranisti e l'assenza di una linea comune che la Germania – l'unica che potrebbe farlo – non è in grado di dare perché condizionata anch'essa da forze sovraniste interne. I partners dell'Unione possono ricompattarsi su una comune risposta alla guerra commerciale mondiale scatenata da Trump, ma lo scontro sui dazi annuncia anche il tramonto o il ridimensionamento del surplus tedesco, il vantaggio che finora ha dato un senso alla presenza della Germania nell'unione monetaria. I penta-leghisti dichiarano di voler contribuire a un assetto europeo più coeso e all'altezza dei tempi, ma la loro sfida ai burocrati di Bruxelles più che annunciare una soluzione è un segnale di allarme e un potenziale fattore di disgregazione. La presenza sempre più significativa di governi e formazioni sovraniste in Europa sembra prospettare un futuro da “liberi tutti”.

In tutto questo gran ribaltone c'è di buono che gli interessi di classe stanno tornando allo scoperto. L'esito delle elezioni italiane di marzo ha dimostrato che la politica è costretta nuovamente a rappresentare interessi definiti, ad abbandonare l'uniformità centrista che metteva insieme interessi di classe opposti nella rincorsa alla modernizzazione e alla globalizzazione. Mentre la politica imponeva il suo pensiero unico modellato sulla internazionalizzazione del capitale, gli effetti di questa hanno accentuato enormemente la polarizzazione sociale, il processo di proletarizzazione ha coinvolto settori sempre più ampi della società, si sono ricreati confini più netti tra le classi, si sono poste le premesse per il riaccendersi del conflitto.

Così sono maturate le condizioni che hanno fatto completamente saltare il vecchio quadro politico italiano e realizzato quello che oltralpe si era solo profilato con i successi dei lepenisti. Se in Francia l'opposizione sociale alle riforme neoliberiste ha avuto ancora modo di manifestarsi, anche se sporadicamente, nelle classiche forme degli scioperi e delle dimostrazioni operaie, in Italia tutte le aspettative si sono appoggiate alle formazioni politiche che promettono cambiamenti radicali. Ma se le divisioni di classe si sono ricomposte temporaneamente nella sintesi sovranista ed è tornato protagonista il “popolo”, i contrasti non tarderanno ad emergere.

Come il governo provvisorio nella Francia del 1848, il governo appena insediato in Italia “non poteva essere altro che un compromesso tra le diverse classi” e ugualmente si fonda sulla “pretesa eliminazione dei rapporti di classe in nome di una “idillica astrazione dei contrasti di classe, questo livellamento sentimentale degli interessi di classe contraddittori, questo immaginario elevarsi al di sopra della lotta di classe – la fraternité” (Marx).

Composizione dei contrasti e fraternité per via... contrattuale. Ma sarà difficile conciliare flat tax a vantaggio di imprenditori, autonomi e partite Iva con i costi di reddito di cittadinanza e revisione della Fornero; difficile far digerire alle imprese la fine delle sconfinate possibilità di sfruttamento consentite dal Jobs Act, ma anche far accettare agli sfruttati una ritirata su questo terreno; ampi settori dell'imprenditoria settentrionale che si appoggiano alla Lega non guardano certo con favore ai limiti posti alle delocalizzazioni dai decreti del vicepremier Cinquestelle. Interessi di classe storicamente divergenti possono convivere in temporanea tregua finché profitti e salari crescono insieme, e non è certo la condizione dei tempi odierni. Questa è la ragione che fa delle promesse elettorali in materia di condizioni di lavoro e di welfare altrettante bordate a salve. Se qualcosa si realizzerà, sarà la decima parte di quanto spavaldamente annunciato e sarà facilmente smantellato

alla prima emergenza. Oggi il capitale, il grande come il piccolo, per fare profitti deve spremere il proletario fino all'osso oppure morire di concorrenza o di scarsi profitti.

Intanto, sul piano internazionale, la guerra dei dazi apre una frattura nella storica alleanza occidentale, i partners europei – sempre più “fratelli coltelli” – non si accordano su nulla e la Germania mostra una crescente difficoltà a fare da magnete. In questo quadro, l'alternativa del sovranismo è una risposta nazionale alla crisi che accentua le divisioni. E' l'espressione dell'inasprimento dei contrasti tra imperialismi grandi e piccoli, del caos che accompagna la definizione di nuove alleanze ed aree di influenza.

Il tentativo di controllo e gestione dei flussi migratori messo in atto dal nuovo governo si scontra – oltre che con gli egoismi altrettanto “nazionali” degli altri Stati dell'Ue , ancor più se in mano ai sovranisti – con la portata di un fenomeno frutto della sovrapproduzione di merci e di forza lavoro alla scala mondiale, e come tale non arginabile.

Sul piano interno, i due partiti di governo dovranno in qualche misura realizzare il loro programma. Ogni promessa è debito: in questo caso, debito pubblico; ma  la scure dei mercati finanziari è sempre pronta a calare su provvedimenti di spesa che appesantiscono l'indebitamento dello Stato senza andare a vantaggio del capitale. Il nuovo comitato d'affari della borghesia avrà perciò grandi difficoltà a onorare il debito contratto con le masse impoverite, proprio perché impegnato ad onorare il debito contratto dallo Stato con il capitale finanziario. Più in generale, questo governo,  frutto dell'ideologia delle mezze classi prive di prospettiva storica, non sarà in grado di sostenere uno scontro con il capitale finanziario di cui per altro non nega il diritto a lucrare sul debito. Vale la pena riportare un passo di Marx, sempre tratto da Le lotte di classe in Francia, sul significato politico del credito:

“Riconoscendo la cambiale presentata allo Stato dalla vecchia società borghese, il governo provvisorio era caduto sotto il dominio di questa... Il credito diventò condizione vitale della sua esistenza, e le concessioni al proletariato, e le promesse fattegli diventarono altrettante catene che dovevano essere spezzate. L'emancipazione degli operai – anche solo come frase – divenne per la nuova repubblica un pericolo insopportabile perché era una protesta permanente contro la restaurazione del credito, la qual poggia sul riconoscimento indisturbato e incontestato dei rapporti economici e di classe esistenti. Si doveva dunque farla finita con gli operai (Marx, cit. p.25-26)

Alla fine di tutta questa manfrina, sull'altare della Patria saranno immolati ancora una volta gli interessi del proletariato, poiché il destino a cui nessun “salvatore della Patria” sfugge è di essere, volente o nolente, l'esecutore di questo sacrificio (Tsipras insegna!). Le velleità redistributive dei pragmatici post-ideologici nostrani dovranno anche fare i conti con l'esaurimento del debole ciclo di crescita degli ultimi anni e l'annunciato ritorno di uno tsunami finanziario globale, tutti fenomeni connaturati allo sviluppo capitalistico, alla sovrapproduzione di capitali e di merci che nessuna politica “anticiclica”  sarà mai in grado di scongiurare.

C'è da aspettarsi che l'inevitabile crisi decreterà la scomparsa della carota e che il bastone securitario prenderà ancor più vigore. Fallito il tentativo di rinnovare la democrazia parlamentare, il passo successivo va nella direzione della dittatura di classe senza orpelli. Già ora la situazione presenta tratti che annunciano una ulteriore evoluzione del potere borghese in senso autoritario: la rivalutazione del nazionalismo, l'esigenza di ordine e la priorità data alla sicurezza, la personificazione del potere nel leader capopopolo, la crisi della vecchia classe dirigente – solo ieri “rottamatrice” in nome del nuovo – lo scontro tra fazioni borghesi interne e internazionali, la latente crisi istituzionale, il richiamo ai valori tradizionali della famiglia e della religione come reazione allo sgretolamento sociale e alle contaminazioni indotte dalla mondializzazione, il razzismo montante...  Manca solo la cancellazione unilaterale del debito con l'estero – una versione attuale del ripudio hitleriano di Versailles – per completare il quadro. Quest'ultimo passaggio non sembra al momento nelle corde dei politici del “cambiamento”, ma nel ribaltone generale non rappresenta uno scenario irrealistico.

Alla fine, insomma, spunterà un nuovo Luigi Napoleone, forse impersonato da chi avrà saputo raccogliere i frutti dell'immagine di “uomo del popolo” coltivata con lungimirante calcolo politico, e con lui prenderà forma una dittatura borghese ancora più blindata, a riaffermare pienamente i diritti predatori del capitale finanziario. Noi sappiamo, con Marx, che chi “spinge alla perfezione il potere esecutivo, lo riduce alla sua espressione più pura, lo isola, se lo pone di fronte come l'unico ostacolo, per concentrare contro di esso tutte le forze di distruzione” (Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850) è la Rivoluzione. La vecchia talpa ha continuato a scavare anche in assenza del protagonismo diretto del proletariato, e forse proprio per questo ancor più in profondità. Il nostro augurio è che il sommovimento generale lo costringerà a salire nuovamente sulla scena da primattore politico facendo proprio il motto di Marx: “La borghesia consente al proletariato una sola usurpazione; quella della lotta”.

 

Note

1- Marx, Le lotte di classe in Francia, 1848-1850, Editori Riuniti, 1992. Tutte le successive citazioni virgolettate in corsivo sono tratte dal medesimo testo di Marx.

2- “Tra gli anni ’80 e ’90, si afferma e generalizza il principio dell'indipendenza delle banche centrali. Queste si svincolano dall'obbligo di scontare illimitatamente i buoni del Tesoro per finanziare la spesa dello Stato, il quale – non potendo più contare su un acquirente sicuro – è costretto a finanziarsi sui mercati internazionali e per farlo deve ridurre il prezzo dei suoi titoli e aumentarne i rendimenti (l'espansione del debito pubblico italiano si deve più che alle mani bucate dello Stato spendaccione, questa bella novità introdotta già nel 1981). Il divieto di finanziamento monetario del fabbisogno statale diventerà legge in tutta l'Eurozona con la ratifica del Trattato di Maastricht (1991)” (“Continuando il lavoro sul corso del capitalismo mondiale – II”, Il programma comunista, n.2/2017).

3- Non è il primo caso di intervento del Capo dello Stato sulla scelta di un ministro. Tuttavia, non era mai accaduto che venisse motivato non da ragioni formali o di opportunità, ma da valutazioni strettamente politiche. E non era mai accaduto che la più alta istituzione della Repubblica andasse oltre l'azione di persuasione e si spingesse fino al veto.

4- Posto che per il capitale la forza lavoro è una merce, la maggiore o minore apertura ai flussi migratori non è che l'espressione di politiche più o meno liberiste o protezioniste nei confronti di questa particolare mercanzia. Chi giustifica l'accoglienza in nome del principio che l'uomo “non è una merce” chiude gli occhi di fronte al fatto che nella società del capitale l'essere umano è in effetti una merce. Negarlo invocando principi universali equivale ad accettare un ordine fondato sul lavoro salariato, quella “merce particolare” che regge tutto il sistema, rifiutandone nello stesso tempo le contraddizioni. Per noi comunisti, pertanto, la questione non si pone tanto in termini di accoglienza o respingimento, quanto di solidarietà di classe senza confini con tutti gli sfruttati, di qualsivoglia colore e  provenienza.

5- L'intento del governo è riassunto nell'articolo del ministro Paolo Savona “Con investimenti pubblici e privati crescita al 2%” (Il Sole-24ore, 18 agosto 2018). Sull'efficacia decrescente degli investimenti pubblici sulla crescita del Pil si veda il nostro articolo sul debito cinese, pubblicato sul n.5-6/2018 di questo giornale.

6- Mentre la democrazia politica ripropone contenuti nella sostanza affini al fascismo, gli emuli dichiarati del fascismo storico coltivano le loro truppe nelle periferie e nelle pieghe delle contraddizioni sociali, ne riprendono i simboli e l'ideologia e si addestrano a contrastare con la violenza il ritorno in scena del proletariato. Anche questa organizzazione preventiva della controrivoluzione è sintomo di una possibile ripresa della lotta di classe.

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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