Riassumendo

In alcuni articoli pubblicati su questo giornale negli anni passati, abbiamo tracciato una breve storia della Turchia, cui abbiamo affiancato alcuni caratteri della sua struttura economica e sociale odierna, oltre a una più ampia storia della classe operaia e soprattutto delle lotte, degli scontri e delle proteste di piazza, partendo dagli anni settanta del ‘900 e giungendo fino alle manifestazioni del 2013 a Istanbul (Gezy Park). Alcune note più brevi hanno poi evidenziato le continue stragi di lavoratori nelle miniere di carbone (1992: 263 vittime; 2010: 30 vittime; 2013: 93 vittime) che hanno alimentato il terreno della disperazione sociale senza però tradursi in risposte vere e proprie.

 

Più significativa, nel 2015, l’esplosione delle lotte economiche e sociali che hanno investito le fabbriche (Renault, Bosch) a Bursa, città di 2 milioni e ottocento mila abitanti a sud del Mar di Marmara, durante la quale hanno incrociato le braccia 1500 lavoratori che in 48 ore sono cresciuti fino a 20.000, per la presenza di forze-lavoro poste al di fuori del distretto industriale. La forza operaia è scesa in campo in gran numero, e si è fatta forte la richiesta della riduzione dei tempi di lavoro, uniformando i metodi di lotta: tutti aspetti di un vero scontro di classe. Allarmata, la piccola borghesia, chiamata dal governo, per giorni ha fatto il giro delle strade tentando di frenare lo slancio delle lotte operaie. Lo stato di agitazione si è propagato poi dalle fabbriche metalmeccaniche alle aziende petrolchimiche e da qui al comparto edile. In due settimane, la Turchia è stata attraversata quindi da un’ondata di straordinarie agitazioni sul terreno economico. Inoltre, mentre tutto ciò era in corso, alla stazione di Ankara, in occasione di un grande corteo-filocurdo, si è consumata una vera e propria strage di Stato, con un centinaio di morti.

In pochi anni, dunque, un ampio movimento sociale si è sviluppato spontaneo, prima di tutto a Istanbul, seguito da un grande sciopero nelle aziende della Koc Holding e di Fca (elettronica di consumo, elettrodomestici e automotive) fermatesi per 9 giorni a causa del crollo della domanda domestica e del mercato interno dell’auto, con la perdita del 51% dei volumi di produzione in agosto e del 67% a settembre. In seguito, la vittoria elettorale di Erdogan, la lotta interna contro il Partito dei lavoratori del Kurdistan, la partecipazione alla guerra siriana contro i Peshmerga curdo-iracheni e l’Isis, la detenzione forzata di migliaia e migliaia di migranti siriani in territorio turco in fuga dai massacri di guerra, hanno riempito gli ultimi anni di questo ultimo decennio.

A proposito del “golpe di luglio”

Nella notte di metà luglio 2016, si è consumato un colpo di Stato organizzato, secondo Erdogan, dal predicatore “democratico ed europeista” Gülen (trasferitosi dal 1999 negli Usa ed entrato in rotta di collisione con il presidente nel 2013): uno scontro politico-militare nel corso del quale una parte minoritaria dell’esercito ha tentato di rovesciare il governo e hanno perso la vita almeno 260 persone e 2000 sono stati i feriti. L’invito a scendere in strada a difendere le istituzioni contro i cosiddetti golpisti, la ripresa del controllo della situazione con i carri armati nel corso della notte e la vasta epurazione che ne è seguita, tesa a rafforzare i poteri del Presidente, hanno avallato piuttosto la convinzione comune che il cosiddetto golpe è stato in realtà sfruttato per reprimere non solo gli organizzatori (una vera e propria fronda interna all’esercito), ma in primo luogo per disperdere il generalizzato dissenso serpeggiante nel paese.

Da alcuni anni, la Turchia è ormai divisa politicamente tra i sostenitori di uno Stato di ispirazione islamica in tutte le sue manifestazioni sociali e religiose e i difensori di una nazione che si presenta laica fin dall’epoca della fondazione dello Stato turco da parte di Ataturk; ma anche tra i diversi gruppi etnici come le varianti, in parte confinanti, del popolo curdo (turco, iraniano, iracheno, siriano) e soprattutto tra le classi sociali, e in primis il proletariato industriale ormai diffuso ampiamente sul territorio: una realtà sociale divisa politicamente anche a metà, come ha dimostrato il referendum sulla Costituzione, approvato con il 51,4 per cento dei consensi; un misto di ideologie che impedisce al proletariato di unirsi economicamente e politicamente.

Dopo il “fallimento del golpe”, migliaia di persone, che lavoravano in settori diversi della pubblica amministrazione, della giustizia, dell’esercito, della polizia, dell’istruzione e dell’informazione sono state arrestate o sospese dai loro incarichi. I cosiddetti osservatori internazionali (le grandi borghesie imperialiste) sono rimasti invischiati nella difesa dello status quo, soprattutto ai confini siriani e nell’area nord-occidentale di Idlib e di Afrin. Molti dei critici interni del governo di Erdoğan sono stati arrestati, come le migliaia di persone che avevano collegamenti con gli episodi di quella notte. Da allora, in un anno circa, 50mila persone sono state arrestate e altre 150mila sono state rimosse dal loro posto di lavoro e circa 7.400 dipendenti pubblici sono stati accusati perfino di avere legami con organizzazioni terroristiche. La repressione ha colpito pure i giornali e le televisioni: un decreto governativo ha infatti ordinato la chiusura di 131 tra giornali, televisioni, riviste e case editrici. La repressione, iniziata subito dopo il golpe, ha avuto una sua conclusione nel Referendum costituzionale, approvato tra molte accuse di brogli, con il quale il presidente turco intende trasformare il paese in una Repubblica presidenziale, aumentando i propri poteri e garantendosi la possibilità di restare presidente fino al 2029. La riforma, che entrerà in vigore dopo le prossime elezioni nel 2019, darà al capo di Stato il potere di nominare i ministri e gli permetterà di intervenire nel sistema giudiziario.

La “rotta turco-balcanica” e il proletariato

L’“isolamento” della Turchia, causato in parte dal golpe turco e in parte dalle tensioni con gli Stati Uniti in merito alle sanzioni sui dazi di alluminio e acciaio, dal dislocamento dei carri armati turchi ai confini siriani e dal riavvicinamento alla Russia e all’Iran, ha mostrato una volta di più che il Medioriente e l’area turco-greco-balcanica sono percorsi da grandi contrasti politici e sociali e soprattutto da grandi masse proletarie in movimento.

Almeno sei miliardi di euro legano la Turchia all’Unione Europea, con un accordo destinato al “controllo” della popolazione siriana, che impedisce a migliaia di migranti, donne, bambini di fuggire dai “lager turchi”. Gli accordi cercano di garantire l’arresto dei flussi di migranti dalla Turchia alla Grecia, prima tappa della cosiddetta “rotta balcanica”, ora sostanzialmente chiusa, con cui i migranti entravano in Europa attraverso i Balcani per raggiungere la Germania o arrivare ancora più a nord. L’accordo, entrato in vigore nel marzo del 2016, ha consentito alla Turchia di ottenere molti fondi europei di diversa specie, nonostante Erdoğan abbia minacciato più volte di far saltare il piano “concordato”. Nei campi profughi, migliaia sono i giovani, la maggior parte siriani, che cercano nella fuga una via di salvezza. Molti continuano a lavorare nelle tante fabbriche turche o chiedono l’elemosina per le strade delle città. A tutti basterebbe, sostengono i buoni samaritani, un’accoglienza in linea con la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo “status di rifugiati”: ma al momento la disperazione dilaga.

La Turchia professa, con i miliardi che incassa dall’Europa, una politica di “frontiera aperta” per accordare ai profughi il cosiddetto “diritto di asilo”; ma i luoghi di attraversamento del confine sono stati chiusi in gran parte negli ultimi due anni, e di conseguenza molti siriani in fuga dalla guerra entrano irregolarmente, attraversando i campi minati tra Turchia e Siria. E’ per questo che, in massa e spinti dalla disperazione, molti fanno ricorso all’assistenza dei trafficanti, ovviamente dietro pagamento di grosse somme di denaro. La maggior parte dei giovani e della popolazione siriana in Turchia abita oggi in tende, baracche e tuguri, come lo sono spesso i luoghi dove lavorano. I marchi europei, i colossi svedesi della moda H&M e NEXT, dichiarano che nelle proprie fabbriche lavorano moltissimi minori siriani che ricevono salari miserabili finendo per subire abusi e violenze sessuali. In questo stato di reclusione, attualmente “vivono” in Turchia 4 milioni di rifugiati: di questi, 3,5 milioni sono siriani, un terzo dei quali minori. Finora solo 4 mila di loro sull’ammontare totale hanno ottenuto il “permesso di lavoro” dal governo turco. L’industria tessile turca è la sesta più grande del mondo, con il 60% della forza-lavoro turca irregolare, e in questo inferno trova rifugio una parte dei migranti.

Fino a tre anni fa, prima dell’accordo, la Turchia non riconosceva il diritto alla “protezione temporanea” di chi era in fuga dai conflitti: i profughi non europei, infatti, erano considerati “ospiti”, e per questo potevano entrare solo attraverso un visto turistico o illegalmente. Dei tre milioni e mezzo di migranti siriani solo 300 mila vivono nei campi profughi finanziati dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati e gestiti dall’Afad, l’agenzia governativa di aiuto alle famiglie, analoga alla protezione civile. Erdogan sostiene che la Turchia provvede ai bisogni di tutti i profughi, ma non dice che solo coloro che vivono nei campi di concentramento legali hanno diritto alla tessera alimentare e a un posto nelle tende dell’Onu; come non dice che visitare i campi profughi è proibito ai giornalisti, se non dopo una lunga trafila burocratica. I lager sono delimitati da filo spinato e i profughi possono uscire solo durante il giorno, trovandosi in mezzo al nulla, dato che i campi sono lontani dai centri abitati. Non dice, Erdogan, che solo i primi siriani in fuga erano riusciti a trovare un lavoro in nero, per venire poi licenziati. Il tasso di disoccupazione in Turchia è in crescente aumento: all’inizio si riusciva a sopravvivere, oggi non ce la si fa più. I rifugiati godevano oltre alla tessera alimentare anche delle cure mediche… ma solo chi si era potuto registrare come profugo. La favola bella dell’Unione Europea, volta a mettere a rassicurare la coscienza dei benpensanti e delle classi medie, è stata di dire al mondo che “la Turchia è un paese sicuro e accogliente per chi fugge dalle guerre”. E l’ufficio di propaganda si vanta orgogliosamente: “Restate nel paese di Erdogan e non entrate in Europa!”.

Tutti contro tutti nella regione curdo-siriana

Parallelamente alle divergenze diplomatiche successive al colpo di Stato, Erdogan ha riallacciato i rapporti economici con il presidente russo Putin. I due paesi hanno raggiunto un accordo sul progetto di un nuovo gasdotto che dovrebbe trasportare il gas naturale dal territorio russo fino all’Europa occidentale, passando per il mar Nero, la Turchia e la Grecia. Tra i due paesi, tuttavia, è rimasto irrisolto il problema della Siria, nel cui territorio Turchia e Russia combattono su fronti diversi. La Russia sostiene il regime siriano con il sostegno di quello iraniano, mentre la Turchia “sostiene” le varianti islamiste interne alla Siria, nemiche di Assad. La strategia turca non si è mai allontanata comunque dal suo vero obiettivo: limitare l’espansione dei curdi siriani nel nord della Siria. Entrando con i carri armati insieme all’Esercito Libero Siriano, i soldati turchi hanno conquistato i territori ad ovest del fiume Eufrate, con l’obiettivo di contenere l’espansione dei curdi.

Uno degli ultimi sviluppi della guerra in Siria, che ha determinato la crisi politica nei confronti dell’Occidente, è stata la decisione degli Stati Uniti di armare i curdi siriani impegnati nella riconquista di Raqqa, ricevendo in risposta l’opposizione della Turchia, visto che le milizie, cui sono state destinate le armi americane per la Turchia, sono, a detta di Erdogan, un “gruppo terrorista” molto vicino al PKK, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, che da decenni combatte contro il governo turco per ottenere uno Stato curdo indipendente: ennesima, devastante illusione patriottica, con cui il proletariato curdo (come quello palestinese) viene condannato a girare all’infinito con un enorme tributo di sangue. Estendendo i bombardamenti contro i combattenti curdi in Siria e in Iraq, la Turchia ha messo in conto la possibilità che le milizie iraniane potessero allearsi con il PKK e agire in futuro in funzione anti-turca. Con l’invasione della Siria dell’agosto del 2016, non furono conquistate soltanto le città controllate dai curdi siriani, perché rimaneva in piedi l’altro obiettivo: quello della sconfitta dello Stato Islamico nel nord della Siria, un’operazione condotta dagli Stati Uniti, e solo in parte contrastata dalla Turchia. Nonostante l’operazione abbia colpito direttamente lo Stato Islamico, l’obiettivo indiretto, il più importante, è stato quello di limitare un’ulteriore avanzata dei curdi siriani nel nord della Siria. La riforma costituzionale, che intende a trasformare la Turchia in una Repubblica presidenziale, tuttavia ha attirato le critiche e le reazioni preoccupate degli osservatori internazionali e dei paesi europei: l’approvazione della riforma dal punto di vista giuridico è stato l’ultimo capitolo dell’allontanamento della Turchia dai desiderata dai paesi europei, anche se il vero obiettivo della riforma Erdoğan era ottenere il consenso dei nazionalisti turchi, contrari all’ingresso nell’Unione Europea.

L’avvio dell’aggressione turca ai territori curdo-siriani di Afrin e di Idlib ha messo in allarme anche la Francia di Macron, che si dice disponibile alla soluzione del “problema siriano” e al “rispetto della sua sovranità”. L’operazione lanciata il 20 gennaio 2018 dalle Forze Armate di Ankara nella regione di Afrin “non ha come obiettivo quello di occupare delle terre, ma di liberare la zona dai terroristi”, ha intonato in risposta il presidente Erdogan, che ha invitato la Francia a non “dare lezioni” alla Turchia, con riferimento alla lunga storia del colonialismo francese. “La Francia non può darci lezioni in materia – ha detto il capo della diplomazia di Ankara riguardo alla campagna militare turca in corso – noi non siamo la Francia che ha occupato l’Africa”, minacciando, per meglio farsi intendere, di estendere le operazioni dalla regione di Afrin ad altre aree della Siria. Il 27 ottobre, tuttavia, a Istanbul, c’è stato l’incontro diplomatico sulla crisi siriana cui hanno partecipato la Russia, la Francia e la Germania su invito della Turchia, segno della volontà imperialista di banchettare sul futuro prossimo della Siria.

Gli “sforzi diplomatici” espressi in questi sette anni di guerra per trovare una soluzione politica al conflitto non hanno sortito a nulla. Ci sarà dunque un punto di svolta per la presenza di Francia e Germania? L’ ONU non è riuscita fino ad oggi a scongelare il processo decisionale. La situazione tenuta in equilibrio dai tre alleati (Russia, Siria e Iran) con la garanzia della Turchia ha permesso ad Assad di riconquistare buona parte del paese, ma la richiesta di un “cambio di regime” a Damasco non s’è realizzata. Le offensive militari, dunque, “dovrebbero” cessare! Quale il finale di partita? Semplice: la Siria sarà ricostruita. Le gigantesche macerie che coprono il Paese da sud a nord verranno cancellate, le città ricostruite, Tartus e Latakia rimarranno basi pacifiche nel Mediterraneo, il territorio curdo-siriano “godrà” del controllo turco, i curdi si rassegneranno a fare da birilli, l’Iran sarà una presenza costante del paesaggio politico siriano-libanese-irakeno, e, come in passato, Francia e Germania avranno un vero protettorato sulla Siria e ricostruiranno il paese. Nuovi investimenti impegneranno Parigi e Berlino e l’Europa nella ricostruzione, al centro di privilegi acquisiti in Medioriente. Ci sarà un nuovo ritorno delle migliaia di disperati verso la Siria?  La colomba della pace statunitense scenderà dal cielo con il suo ramoscello di ulivo? Israele smetterà di inviare missili su Damasco e su Gaza? l’Arabia Saudita rimetterà nei suoi arsenali i suoi nuovi armamenti miliardari, forniti dagli Usa? Cesseranno le divergenze su fronte sud della Nato? La Russia sarà il nuovo partner dell’area europea? Insomma, la bella favola avrà il suo lieto fine?

Crescita e crisi economica

Negli ultimi anni, dissoltasi l’illusione di una crescita smisurata, l’economia turca è entrata in una fase di crisi, Il motore dell’economia, integrato da complotti politico-militari, affarismo e corruzione, ha cominciato a girare a vuoto. Il fabbisogno di infrastrutture si è messo a viaggiare in modo fantastico entro i mille miliardi di dollari di investimenti: acqua (53,4 miliardi), telecomunicazioni (98,8 miliardi), energia (241,5 miliardi), trasporti (581,1 miliardi, di cui porti per 1,1 miliardi, aeroporti per 18,2 miliardi, ferrovie per 62,7 miliardi, strade per 499,2 miliardi). Alla fine di ottobre, verrà inaugurato il nuovo aeroporto internazionale di Istanbul, un progetto faraonico che renderà la Turchia, quanto a strutture aeromobili, una piattaforma economica grandiosa e il cui costo iniziale ammonterebbe a 12 miliardi di dollari. Diventerebbe, dicono, il più grande aeroporto del mondo con un traffico di 200 milioni di passeggeri e oltre 300 destinazioni: più di quello di Francoforte.

Ma i progetti non si fermano qui: includerebbero un tessuto di piccole e medie aziende, i cui collegamenti permetterebbero di spostare merci e persone per 400 miliardi di dollari. Il tutto sostenuto da migliaia di imprese europee: settemila sono attualmente le imprese tedesche attive in Turchia (quelle italiane sono 1400), con più di 100 mila lavoratori coinvolti (senza dimenticare i cittadini di origine turca che in Germania sono 3 milioni, integrati nel tessuto economico tedesco). I dati economici dell’interscambio tra Germania e Turchia ammontano a 36,4 miliardi e tra Turchia e Italia a 19,8 miliardi, mentre gli investimenti diretti esteri tedeschi assommano a 9,5 miliardi di dollari. L’Italia è il quinto partner commerciale: una presenza storica industriale in Turchia sono la FCA con lo stabilimento di Bursa-Tofas (modelli della gamma Fiat), ma anche la Pirelli e la Ferrero. Una parte dei progetti infrastrutturali turchi, realizzati negli ultimi 10 anni, ha funzionato a dovere, scrive la stampa: il ponte Osnam Gazi non ha avuto problemi, e non li hanno avuti il ponte sotto il Bosforo, i progetti della metropolitana, il comparto ferroviario e gli ospedali… Strade, ponti, treni superveloci, centrali elettriche innovative sono sorretti da un diffuso ottimismo: la tabella di marcia, almeno per il 30%, fino al 2023 dovrebbe reggere attraverso una partnership pubblico-privata. Il crazy project dovrebbe poi essere l’orgoglio, la punta di diamante di Erdogan: il raddoppiamento del Bosforo, un canale artificiale lungo oltre 35 km che dovrebbe collegare il Mar Nero al Mar di Marmara, con un costo che va dai 15 ai 65 miliardi di dollari – e che… la Turchia non può permettersi.

La crisi che ha cominciato a mordere la realtà economica in questi ultimi mesi tuttavia farà crollare sia i sogni che la realizzazione della massa di progetti in corso e la formula magica della crescita dovrà arrendersi ai suoi numeri spietati. Basta guardare il motore economico attuale per accorgersi che il sistema è destinato a sfasciarsi: i tassi di interesse sono al 17,75% e dovranno ancora salire (il Sole 24 ore, 4 settembre 2018); per questo motivo, l’inflazione dovrebbe risultare, a fine anno 2018, del 21% (dati del 29 settembre), ma con una tendenza al rialzo; la lira turca, dall’inizio dell’anno, ha sfiorato il 40% di svalutazione e tende a continuare la sua flessione, il cambio ha guadagnato il 3% e quindi la lira è tornata a scambiarsi attorno a quota 6,1 sul dollaro; il deficit delle partite correnti (=differenza tra import ed export di beni e servizi) si trova attorno al 6% del Pil e almeno un terzo delle imprese private turche si trova in grandissime difficoltà: il totale dei debiti in valuta pregiata in scadenza nei prossimi 6-9 mesi ammonta a 150 miliardi di dollari e il governo può far poco per soccorrerle, anzi ha un grande bisogno di flussi di capitale in valuta pregiata per finanziare il deficit. L’inflazione (17,9% prezzi al consumo e 32,1% prezzi alla produzione) sembra inarrestabile e agli attuali livelli sta già creando il malcontento generale della popolazione. L’aumento dei tassi di interesse rischia però di soffocare un’economia già in frenata: la decrescita del Pil è passata dal 7,7% del 2017 al 7,4% del primo trimestre del 2018 fino al 5,2% tra aprile-giugno e per l’intero 2018 al 4,4%. La variazione annua dello stesso Pil presenta questi dati: 7%( 2017), 3,8% (2018) e 2,3% (2019)). Dove è andata a finire, dunque, la stima di crescita del 5,5%?

Molti economisti non escludono che l’economia possa entrare in recessione nei prossimi anni. A deludere gli investitori governativi è stato il prudente taglio degli investimenti (5 miliardi di dollari) con cui si giocava sulla crescita: e il credito è in forte contrazione. I grandi progetti che non sono stati messi a gara saranno sospesi; gli altri saranno realizzati con finanziamenti internazionali: ma i soldi per ora non ci sono! Dalla metà di giugno, le banche commerciali turche hanno venduto oro per 4,5 miliardi di dollari, in modo da dotarsi di liquidità ed entro settembre 2019 matureranno obbligazioni per 118 miliardi di dollari, per il 59% emesse da istituti finanziari. Per far fronte ai maggiori costi energetici, la Turchia, un paese importatore di beni e di materie prime, importa anche gran parte dell’energia che consuma: il governo ha corretto al rialzo il prezzo del gas naturale e dell’elettricità, per uso industriale e per uso domestico. La crisi che sta montando si muove intorno alla sovranità monetaria, che ha limiti oggettivi e costi molto elevati. La svalutazione della moneta è un aspetto della debolezza intrinseca dell’economia: e proprio la perdita di valore ha segnalato l’arrivo della crisi, dovuta all’aumento della quantità di moneta necessaria alla circolazione delle merci.

E’ difficile rinsaldare gli anelli deboli della catena dei mercati emergenti, perché questi hanno bisogno di valuta straniera per finanziare debiti e importazioni che, da un certo punto in poi, non riescono a pagare. Gli investitori internazionali, infatti, “sono restii a far credito ad un paese in cui è facile stampare moneta in quantità eccessive al fine di provocare una svalutazione e con essa una perdita di valore del debito contratto” (Il Sole 24 Ore, 22 agosto 2018). La Turchia è esposta con l’estero per un ammontare pari al 51,4% del Pil (437 miliardi di debiti). Il surplus fittizio di mezzi monetari e di pagamento per equilibrare la relazione tra produzione e circolazione, a parità di velocità di circolazione del denaro, porta inevitabilmente alla crisi. L’inflazione, destinata a salire, ha come effetto un aumento delle esportazioni e quindi un aumento delle entrate: ma queste entrate risolleverebbero in quantità insufficiente la crescita economica perché per l’equilibrio con l’estero occorre uscire dall’indebitamento, recuperare competitività, aumentare la produttività, comprimere il potere d’acquisto dei salari e le pensioni. 

In questo magma indistinto di illusoria crescita dell’economia e di crisi reale, in questo orrore in cui la guerra di tutti contro tutti distrugge e massacra le popolazioni di interi paesi (si chiamino Siria, Egitto, Iran, Israele in quanto paesi reali, o Palestina o Kurdistan, Giordania, Libano in quanto paesi fittizi), in un territorio devastato da armi, batterie missilistiche, carri armati, attraversato da masse di migranti in fuga, tra golpe e colpi di Stato finti e reali, tra miseria, sfruttamento e repressione della nostra classe, s’aggira il mostro dell’attuale società disumana: quella capitalista.

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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