Sviluppi del debito mondiale

Intendiamo tornare a occuparci di uno dei fenomeni più rilevanti che si manifestano alla superficie dell'attuale crisi del modo di produzione capitalistico: l'aumento del debito mondiale (1). I dati riportati da alcuni articoli apparsi sul Sole24ore negli ultimi anni riportano cifre non sempre congruenti: secondo alcune fonti, il debito al 2016 aveva raggiunto i 215 trilioni di dollari; secondo altre, il totale del debito mondiale si fermerebbe a 152 trilioni. D'altra parte, le statistiche vanno prese con le pinze, come avverte la stessa Banca dei regolamenti internazionali: “oggi è impossibile fare un tracciamento preciso del cosiddetto 'debito nascosto', cioè quello contratto per conto delle aziende da società controllate con sedi in Paesi 'offshore'. Insomma, la bolla potrebbe essere più grossa di quello che i numeri ufficiali ci dicono” (2). Assumendo pure le cifre con beneficio d'inventario, la progressione e le dimensioni del fenomeno risultano evidenti. Negli ultimi vent'anni il debito mondiale è più che triplicato in termini nominali. Il dato in sé ha un significato relativo se non “depurato” dell'inflazione, ma ciò che gli conferisce importanza è il rapporto con la crescita del Pil. Se nel 2000 il debito mondiale valeva due volte il Pil, nel 2015 era salito, nelle valutazioni più prudenti, al 225% (3). La tabella sottostante riassume la progressione dal 1996, distinguendo tra Paesi avanzati ed emergenti (in miliardi di dollari):

1996

2006

2016

Emergenti

56.000

128.000

160.000

Paesi avanzati

7.400

16.000

56.000

Totale

63.400

144.000

215.000

(da "La bolla del debito globale”, Il Sole24ore, 12 aprile 2015)

Altrettanto importanti sono i mutamenti avvenuti nella collocazione e nella tipologia. Se fino al 1996 era stato il debito degli emergenti a correre di più, portandosi a un valore di sette volte superiore a quello degli avanzati, nel 2016, per effetto dell'espansione finanziaria che ha visto protagoniste le banche dei centri dell'imperialismo, lo superava solo di tre volte.

Un confronto approssimativo mostra che intorno al 2006-2007 metà del debito totale era a capo del settore finanziario; nel 2014 la percentuale era ridotta al 25%. Il dato è indicativo del trasferimento del debito agli Stati e ai settori “non finanziari” meno protetti. Una parte del debito è stata certamente distrutta dalla crisi, per azzeramento o drastica riduzione del valore nominale di titoli e asset bancari. I settori economici non finanziari protetti dalla posizione nella “rete di relazioni” capitalistiche (apparati politici, clientele...) e dal peso economico (grandi gruppi, multinazionali) hanno scaricato sulle banche e sulla componente finanziaria una parte della distruzione di capitale. I salvataggi bancari hanno poi semplicemente trasferito il peso del debito sulla cosiddetta “fiscalità generale”. In conseguenza, l'ammontare del debito pubblico è raddoppiato e la sua percentuale sul debito totale è salita dal 15 al 20%.

Nel periodo post-grande crisi si è registrato il livello massimo dei bilanci di Fed, Bce e Bank of Japan (quasi 13.000 miliardi di dollari) e della Bank of England. Le politiche monetarie hanno continuato a essere fortemente espansive, inondando i mercati di liquidità. La drastica caduta del saggio dell'interesse nel periodo 2007-2013, dovuta principalmente al calo del tasso di incremento della produzione e del tasso del profitto, è stata anche assecondata dall'acquisto massiccio di titoli da parte delle principali banche centrali e dalle loro politiche monetarie.  Solo nel corso del 2017 la Fed ha dato l'avvio a interventi di “normalizzazione” della politica monetaria, con la prudenza di un artificiere (4), consapevole dei rischi connessi a un aumento dei tassi in presenza di una bolla finanziaria (di debiti e crediti) di enormi dimensioni.
 
Sebbene le banche centrali siano intervenute per alleggerire il peso del debito accollandosene una parte consistente e convertendolo in denaro per le banche private, il fardello ha continuato a crescere a ritmi più rapidi di quelli dell'economia. La politica dei bassi tassi di interesse per rilanciare il credito ha spinto un po' tutti a far debiti, dagli emergenti alle aziende e ai privati; perfino le potenti compagnie petrolifere e i ricchissimi petro-stati del Golfo hanno preso a indebitarsi per fronteggiare il calo del prezzo del petrolio. Negli Usa, il livello di indebitamento delle carte revolving (che permettono acquisti a debito) ha superato quota 1000 miliardi di dollari, e negli ultimi otto anni i prestiti a studenti sono raddoppiati, portandosi a 1300 miliardi. E' di particolare interesse l'evolversi della massa dei titoli corporate, le obbligazioni emesse dalle grandi aziende per finanziarsi direttamente sui mercati. Il valore attuale ammonterebbe a circa 30 trilioni di dollari, in crescita di ben 3,7 trilioni solo nel 2016, sebbene siano in crescita anche i fallimenti nel settore. E' anche più significativo il dato che solo il 3% dei fondi resi disponibili per le imprese sia investito nella produzione, mentre il restante rimane a disposizione degli ingegneri della finanza.

A distanza di un decennio, si ripropongono dunque gli stessi segnali di bolla finanziaria che avevano caratterizzato la fase pre-crisi. I CDS, quei prodotti finanziari concepiti per proteggere il creditore dal rischio default ma solitamente utilizzati come puro strumento speculativo, sono saliti dal valore di 10 miliardollari del 2015 a una cifra tra i 20 e i 30 miliardi nel 2017. L'ingegneria finanziaria continua a sfornare prodotti nuovi e sempre più sofisticati, dei quali fan man bassa gli hedge funds e le banche d'affari. Oggi anche investitori come i “fondi pensione”, tradizionalmente votati alla prudenza, sono spinti dai bassi tassi alla speculazione e al rischio crescente.

Questa esasperata ricerca di rendimenti in gran parte sganciati da ogni rapporto con la produzione di plusvalore dovrà prima o poi fare i conti con i ritmi reali dell'accumulazione e sfociare in una nuova crisi finanziaria. Alla fine del 2017, la fuga dai “titoli spazzatura” e la corrispondente crescita dei loro rendimenti – mai così bassi come nel periodo immediatamente precedente – è un segnale di come questa tendenza abbia raggiunto il culmine (5). 

La ragione della catastrofe prossima ventura risiede nella natura stessa del capitale produttivo d'interesse. Tutte le varie forme in cui si presenta questa massa di titoli implicano una promessa di valorizzazione fondata sulla prospettiva illusoria di crescita infinita in virtù del meccanismo dell'interesse composto: “Il prodotto del lavoro passato, il lavoro passato stesso è qui in sé e per sé pregno di una parte del plusvalore vivo presente e futuro. Si sa invece che in realtà la conservazione e pertanto anche la riproduzione del valore dei prodotti del lavoro passato sono soltanto il risultato del loro contatto con il lavoro vivo” (Il Capitale, citato in “A proposito dei pagamenti del debito”, Il programma comunista, n.5/2015). Il capitale produttivo d'interesse, se non nutrito alla fonte del plusvalore, deperisce in quanto lavoro passato non valorizzato dal lavoro umano e perde la sua natura di capitale. Possiamo aggiungere che una buona parte di quella massa di denaro non è neppure espressione di lavoro passato, ma denaro creato dal nulla dal sistema bancario attraverso il credito e l'ingegneria finanziaria che si origina autonomamente entro il sistema del credito, prende la forma di denaro a tutti gli effetti nei conti correnti bancari e di prodotti finanziari che vengono scambiati come merci in un circuito per lo più del tutto autonomo dalla fonte reale della valorizzazione. L'aumento del rapporto debito/Pil è un risultato di questo crescente autonomizzarsi della finanza dalla produzione reale e del vano tentativo del capitale di cercare altrove il nutrimento che il plusvalore non è più in grado di generare in misura sufficiente in rapporto a tutta questa massa di denaro affamata di interesse. E' questa la ragione di fondo per cui i titoli a reddito fisso hanno alti prezzi e bassi rendimenti: spesso, per quanto la stessa inflazione sia a livelli storicamente bassissimi, i rendimenti reali sono addirittura negativi. I massicci acquisti di titoli da parte della banche centrali hanno prodotto una lenta svalorizzazione determinata da rendimenti reali negativi, ma hanno evitato un crollo brutale dei prezzi – eventualità che avrebbe massacrato i bilanci delle banche e generato fallimenti a catena. In ogni caso, questa svalorizzazione, lenta o brusca che sia, è risultato del mancato contatto di questa espressione del lavoro passato con l'energia vivificante del lavoro umano, e non esclusivamente il risultato di questa o quella politica monetaria. Il capitale non ha vie di fuga: il rapporto tra debito e produzione è destinato ad aumentare come conseguenza del decremento del tasso di crescita. Anche gli economisti borghesi sono costretti a registrare questo declino inesorabile che noi da sempre identifichiamo come caratteristico di tutto il corso storico del capitale: il tasso di crescita dell'economia mondiale è passato “da + 4% nel decennio '60-'70, a +3% negli anni '70-80, a +2% nel ventennio 1980-2000, per arrivare a +1% nei primi dieci anni del nuovo millennio” (L. Ricolfi, cit. in M.Bersani, Dacci oggi il nostro debito quotidiano, 2017). La tendenza riflette la marcia verso quella “crescita zero” che segnerebbe la morte virtuale del capitale, anche se, in quanto tendenza, di per sé è insufficiente a decretarne la morte effettiva. Il debito ha avuto finora un ruolo fondamentale tra le risorse a disposizione del capitale per sopravvivere e rilanciarsi nel suo tradizionale movimento ciclico.

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Non per pedanteria, ma per non dare nulla per scontato, è bene chiarire che cosa sia in effetti questo debito globale. Chi si è indebitato con chi? Tentiamo una definizione: il debito globale è l'insieme dei rapporti di debito e di credito che lega tra loro soggetti pubblici e privati in ambito mondiale. Il suo ammontare è dato dalla somma totale dei debiti aggregati (somma di debiti pubblici e privati), dei crediti e dei debiti reciproci tra tutti i soggetti, interni ed esteri, pubblici e privati, che deve essere versata a scadenze prestabilite su un arco di tempo più o meno lungo.

Per soggetti pubblici intendiamo gli Stati e gli enti pubblici che emettono o acquistano titoli di debito; per soggetti privati intendiamo gli enti che compongono il sistema bancario nelle sue articolazioni nazionali, internazionali, regolamentate e non regolamentate (sistema bancario ombra) e gli investitori istituzionali (fondi pensione, fondi di investimento, hedge fund, assicurazioni) (6). Alcuni di questi svolgono prevalentemente il ruolo di creditori, investendo capitali raccolti da privati che  affidano loro i propri capitali o i propri risparmi per ottenere una rendita. Altri, come gli hedge funds, agiscono a leva con capitali presi a prestito, solitamente dalle banche.

Tutti questi soggetti non sono nettamente catalogabili tra i creditori o i debitori, ma appartengono a entrambe le categorie e sono legati tra loro da complessi rapporti di debito e credito. Ogni soggetto è contemporaneamente debitore e creditore. Il debito costituisce dunque una rete di relazioni basate su obblighi reciproci dei contraenti in cui ognuno dipende dall'altro. I nodi di questa rete di relazioni sono evidentemente le banche.

La lettura di un bilancio bancario ci fornisce conferma del peso crescente dell'indebitamento. I depositi e i prestiti rappresentano le voci tradizionali, gli uni iscritti come passività, gli altri come attivi (su questo, vedi Marx, Capitale III**, Ed. Riuniti, 1980: “Elementi del capitale bancario”, p.553 e seguenti). I bilanci attuali delle banche sono più complessi. Qui sotto riportiamo il bilancio 2014 della Bank of America, tratto dalla pubblicazione di un ex governatore della Bank of England:

Attivi (miliardollari)

Passivi (miliardollari)

contanti

139

Depositi

1119 a)

Prestiti

867

Prestiti ricevuti

743 b)

Investimenti finanziari + beni immobili e altri beni reali

1099

[attività -

passività] =

Capitale proprio

[2105 -

1862 (a+b)] =

243

Totale

2105

2105

(da M.King, La fine dell'alchimia, Il saggiatore, 2017)

Il commento che segue è dello stesso autore: “In questo bilancio sono due le cose che colpiscono. La prima è che i prestiti erogati rappresentano solo il 40% del patrimonio (attività) della banca. La seconda è che, sebbene i depositi superino nettamente i prestiti erogati, gli altri prestiti ricevuti sono una fonte di finanziamento significativa. E' evidente che BofA non si limita affatto a raccogliere depositi da famiglie e aziende e a erogare prestiti” (King, p. 102). La voce prevalente degli attivi è costituita dagli investimenti finanziari e l'indebitamento (prestiti ricevuti), la cosiddetta “leva finanziaria”, è una voce consistente delle passività (7). 

Il punto chiave è che il peso dell'indebitamento è la condizione per l'espansione delle attività e per raggiungere un volume d'affari bastevole a collocare l'istituto nella schiera dei “too big to fail”.

Nei rapporti di debito/credito tra due banche o tra due Stati sarebbe teoricamente possibile una riduzione complessiva del debito attraverso la cancellazione dei debiti reciprocamente interconnessi, ma I banchieri non vogliono che si parli della cancellazione reciproca del debito perché sarebbe necessario imporre una riduzione della leva finanziaria. I banchieri non vogliono il deleveraging perché la leva è il segreto su cui i banchieri fanno i loro profitti. La ragione per cui la cancellazione del debito costringerebbe alla riduzione della leva finanziaria è che gran parte del debito che verrebbe annullato è attualmente registrato sui libri delle banche come un ‘asset’ che serve da garanzia ad altri prestiti e ancora più debito. Così, se si inizia a cancellare il debito la piramide del debito a leva dei banchieri comincia a sgretolarsi. Il fatto che dovrebbe sbriciolarsi se si vuole avere una ripresa, e non essere paralizzati dal tentativo di pagare debiti impagabili, non riceve mai un accenno nel mondo dei banchieri.” (da wordpress.com/2011/06/03/come-cancellare-la-ragnatela-del-debito).

Le banche dunque agiscono sempre più a leva, ossia ricorrendo all'indebitamento, e manovrano con capitali presi a prestito. Più cresce la leva, più aumenta il volume degli attivi di bilancio; con ciò cresce anche l'esposizione al rischio di fallimento, ma raggiunte certe dimensioni, la banca può contare senz'altro sul salvataggio pubblico. L'indebitamento delle banche è pertanto il presupposto per l'espansione smisurata del credito in molteplici forme e di conseguenza dell'indebitamento della società nel suo insieme. Più la banca si indebita, più è in grado di espandere il credito e conseguentemente il debito stesso (8). Significativo è il fatto che alla fin fine a incoraggiare questa follia privata sia lo Stato, suo premuroso custode e garante pubblico.

L'espansione del credito ai soggetti finanziari (investitori istituzionali, altre banche, ecc... che spesso sono partecipati dalle stesse banche prestatrici) va ad alimentare i cosiddetti “mercati”. Già Marx rilevava ai suoi tempi questa “'bella' concatenazione dei crediti. Il depositante rurale crede di affidare i suoi depositi semplicemente al suo banchiere e pensa inoltre che il banchiere, se concede dei prestiti, lo faccia soltanto a privati di sua conoscenza. Egli non immagina neppure lontanamente che il banchiere pone il suo deposito a disposizione di un bill-broker londinese, sulle cui operazioni né lui né il depositante possono esercitare alcun controllo” (Il capitale, III*: “Suddivisione del profitto”, cit., p. 586).

I complessi rapporti che si instaurano tra soggetti finanziari creditizi e speculativi (i moderni bill-brokers), in virtù dei quali una banca presta denaro a un hedge fund, di cui spesso detiene quote azionarie e che manovra per speculare, fanno sì che non solo una crisi dei titoli fortemente speculativi di qualunque settore abbia poi delle ricadute violente sull'intero sistema, ma anche che non si possa più stabilire una netta distinzione fra le banche stesse e tutto il baraccone finalizzato a creare soldi con i soldi. Le stesse aziende di una certa dimensione per finanziarsi ricorrono sempre più spesso all'emissione di titoli piuttosto che al credito bancario. Per farlo si affidano però alle banche che ne traggono guadagno delle commissioni per l'intermediazione. (9).

L'espansione del credito degli ultimi decenni si è verificata con il ricorso alle cartolarizzazioni, ossia emissioni di titoli che consentono alle banche di recuperare immediatamente le somme stanziate per un prestito senza dover attendere i tempi del rimborso. Il credito viene acquisito da speciali società-veicolo create appositamente dalle banche per trasformare i crediti in prodotti finanziari da collocare sul mercato. Il vantaggio è duplice: il capitale ottenuto può essere utilizzato per nuovi prestiti e il rischio di credito che vi è connesso è trasferito sugli acquirenti delle obbligazioni (MBS e ABS).

Questi meccanismi di espansione del credito confermano la centralità delle banche nell'aumento complessivo dell'indebitamento e sono all'origine della crescita del loro peso economico (10). Questo ruolo discende dal processo di liberalizzazione finanziaria che si è progressivamente affermata dagli anni Ottanta del ‘900 e ha permesso agli istituti di operare indistintamente come banche commerciali e banche d'affari. Il processo ha interessato prima l'Europa, ma l'atto che ha decretato la definitiva deregolamentazione e l'avvento della compiuta finanziarizzazione dell'economia è stato emanato negli Stati Uniti: la “banca universale” si afferma pienamente nel 1999 con l'abrogazione della Glass-Stegal Act, la legge che negli anni della Grande Depressione delimitò il campo d'azione delle banche distinte per tipologia.

All'espansione del debito/credito corrisponde l'espansione della base monetaria generata dal sistema bancario, indipendentemente dalle politiche monetarie delle banche centrali. La principale modalità con la quale le banche private creano denaro è il credito: “Quando una banca presta denaro crea nel conto di chi presta [probabile errore di traduzione; dovrebbe essere 'di chi ha ricevuto il prestito'] un deposito di pari valore. Quel deposito può essere ritirato a vista e usato per effettuare pagamenti: in pratica è denaro... oggi la maggior parte del denaro è formata proprio dai depositi bancari” (King, cit. p. 102). Su questa base creditizia si è andata costituendo, nelle modalità che abbiamo seppur parzialmente descritto, l'enorme pletora del debito. Tutti questi prodotti finanziari, di crescente complessità, che le banche hanno generato attraverso le cartolarizzazioni (la trasformazione dei crediti in titoli di debito emessi sui mercati finanziari dalle società-veicolo, le banche ombra, per trasformarli il liquidità e quindi in nuovi crediti), costituiscono altrettante forme, rappresentazioni del denaro (11). Il meccanismo di espansione del credito/debito trasferisce alle banche private la prerogativa di creare denaro, riducendo sensibilmente il ruolo delle banche centrali in questo campo. Il ruolo delle banche centrali si delinea sempre più come supporto nel fornire liquidità ai sistemi bancari quando questi hanno ecceduto nella concessione di crediti e nel corrispondente indebitamento provocando un clima di sfiducia sulla possibilità di convertire quei titoli di credito in denaro effettivo.

Nel 2008, alle prime difficoltà del sistema bancario-ombra nel garantire il rimborso dei titoli, si è scatenata la corsa alle vendite che si è rapidamente riflessa sulle banche, le quali hanno smesso di prestarsi denaro l'un l'altra. Senza quei flussi interbancari veniva meno la liquidità necessaria alla normale operatività e una parte dei conti correnti creati con la concessione di crediti risultava improvvisamente scoperta (12).

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Quanto abbiamo fin qui cercato di descrivere costituisce la base economica dello svuotamento del potere degli Stati a favore del potere dei cosiddetti “mercati”. La crescente subordinazione della politica ai diktat dei poteri finanziari globali (multinazionali, grandi banche, investitori istituzionali) è avvenuta attraverso i passaggi fondamentali della liberalizzazione finanziaria: la libertà di circolazione dei capitali su scala planetaria e la facoltà delle banche di operare senza limitazioni sui mercati dei capitali.

Rientra nel processo di liberalizzazione la “conquista” dell'indipendenza da parte delle principali banche centrali, che trova la sua applicazione più pura nell'Unione monetaria europea.

Questo passaggio, che ha comportato il cosiddetto divorzio tra Tesoro e Banca centrale (13), ha sottratto allo Stato la capacità decisionale sull'emissione di nuovo debito, cancellando l'obbligo di acquistare i titoli di Stato emessi dal Tesoro. L'obbligatorietà consentiva ai governi di finanziare con nuovo debito le spese dello Stato a tassi di interesse controllati, anche se questo poteva costare in termini di crescente inflazione. L'ottenuta indipendenza ha portato a subordinare il finanziamento dello Stato alla discrezionalità dei sistemi finanziari globali e ha creato i presupposti di un default di uno Stato sovrano qualora i suoi titoli di debito non siano collocabili – e sono le banche d'affari a collocarli – o lo siano a interessi troppo elevati (14). 
Dal momento in cui, storicamente, gli Stati (per tramite del ministero del tesoro) non collocano più direttamente i propri titoli di debito, ma si avvalgono dell'intermediazione delle banche d'affari, non è più possibile stabilire una netta separazione tra debito pubblico e debito privato (15). Sulla base dei titoli di Stato che colloca sul mercato, la banca d'affari crea e colloca una montagna di titoli collaterali (CDS) che dovrebbero garantire quei titoli di debito pubblico dal default. I titoli di Stato diventano così obiettivi della speculazione (16) che opera spesso tramite i derivati: si acquista a leva un derivato che dà diritto ad acquistare a scadenza una certa quantità di un bene (es. un titolo di Stato) a un certo prezzo. Se alla scadenza il prezzo è cresciuto, lo speculatore intasca la differenza (senza dover acquistare materialmente quel bene). Di solito il derivato viene venduto prima della scadenza se il suo valore sul mercato è aumentato. Si può fare la stessa operazione acquisendo il diritto a vendere quel bene a un certo prezzo. In tal caso si guadagna se il prezzo di quel bene alla scadenza è calato. Esistono forme di azzardo anche più spinte, non essendoci in questo campo alcun limite alla fantasia (17). Attraverso queste pratiche e simili si può speculare sui titoli di Stato senza doverne in effetti acquistare materialmente, ma inducendo una loro caduta di prezzo attraverso l'opzione di vendita o la vendita allo scoperto, che possono scatenare la corsa a liquidare i titoli da parte di chi li detiene effettivamente.
Tali pratiche espongono gli Stati a un ricatto sistematico esercitato da forze esterne e incontrollabili che li costringono a politiche di bilancio restrittive. Il maggiore o minore appeal dei titoli – inversamente proporzionale al tasso di interesse – dipende in linea di massima dalla capacità di uno Stato di funzionare come un'azienda che riduce al massimo i costi, si organizza in modo da massimizzare la redditività del capitale investito, ma soprattutto garantisce il controllo ferreo del suo proletariato, ne contiene le istanze e la combattività, lo schiaccia sotto la pressione dell'apparato mediatico-poliziesco. I mercati, queste divinità cui vanno offerti in  sacrificio la carne e il sangue proletario per placarne le ire, altro non rappresentano se non “la proprietà del capitale come mezzo per appropriarsi del lavoro altrui, come dominio sul lavoro altrui”, che si manifesta nella forma estraniata e mistificata di “potenze personali rispetto al lavoro e sopra il lavoro” (Il Capitale, III*, “Suddivisione del profitto”, cit., p. 452), come se agissero indipendentemente da esso e sopra di esso. In quanto sacerdoti del culto del capitale produttivo d'interesse, gli Stati si riservano l'unica libertà di aumentare l'imposizione fiscale (18) per compensare con attivi di bilancio l'incremento delle spese per gli interessi sul debito pubblico. Il rimborso del debito è evidentemente una prospettiva puramente illusoria. Un incremento degli introiti fiscali tale da consentire di ripagare una parte del debito sarebbe possibile solo in presenza di tassi di crescita da “golden age”, oggi impensabili. D'altra parte, è la stessa riduzione della spesa pubblica ad aggravare l'andazzo stentato delle economie dei vecchi capitalismi, comprimendo la domanda interna. Altrettanto illusoria è la prospettiva di un'effettiva riduzione del debito, o peggio, di una sua cancellazione per via legislativa, come espressione di una “volontà popolare”. Una simile soluzione troverebbe la resistenza feroce nel sistema di potere capitalistico che affida ormai al debito un ruolo fondamentale ai fini della sua sopravvivenza (19).

***

Riassumiamo molto sommariamente le tappe di questo processo di liberalizzazione per riconoscerne l'evoluzione e gli esiti (20):

1) Primi anni Settanta del ‘900: con la dichiarazione di inconvertibilità con l'oro, il dollaro si impone come moneta fiduciaria mondiale; masse di dollari inconvertibili (eurodollari e petrodollari) già riempiono i forzieri delle banche mondiali, specie europee. La liberalizzazione dei movimenti di capitale è indotta dagli squilibri commerciali, in particolare dalla crescente posizione debitoria con l'estero degli Stati Uniti. Sorge pertanto la necessità di finanziare i deficit con l'estero con capitali fluttuanti sui mercati mondiali;

2) Anni Ottanta: il volume crescente dei movimenti internazionali di capitali alimenta il debito del cosiddetto Terzo mondo: inizia un processo di indebitamento che vede i Paesi meno sviluppati finanziare con gli interessi le banche del centro imperialista, con il supporto degli organismi internazionali creati per favorire “lo sviluppo” (FMI, Banca mondiale); la crisi delle banche americane “Savings” e “Loans”, conseguenza degli squilibri internazionali e della politica di alti tassi d’interesse per il sostegno al dollaro, dà avvio a un'epoca di ricorrenti crisi bancarie. L'aumento dei tassi di interesse americani innesca inoltre la crisi debitoria dei cosiddetti Pvs (Paesi in via di sviluppo).

3) Anni Novanta: la libertà di movimento internazionale dei capitali alimenta la speculazione internazionale e dà il via alla formazione di bolle azionarie ed immobiliari tanto nei PVS (Sud est asiatico) quanto nei centri dell'imperialismo (Giappone, Scandinavia...), dalle quali bolle derivano altrettante crisi bancarie. Inizia la lunga stagnazione giapponese. Decolla lo sviluppo cinese sulla scorta di grandi movimenti internazionali di capitale.

4) Anni 2000: la crisi dei titoli della new economy induce la Fed a una politica ultra-espansiva. Nel frattempo accelera il processo di deregolamentazione dei sistemi bancari e di creazione di nuovi prodotti finanziari. E' l'apice della globalizzazione e della finanziarizzazione economica. La bolla finanziaria si nutre della bolla immobiliare e sfocia nella Grande recessione.

Con l'ultimo passaggio si chiude un ciclo di espansione che vede i capitali circolare liberamente sui mercati mondiali ad alimentare, oltre alla crescita strepitosa della Cina, fasi speculative in diverse aree sviluppate e in via di sviluppo, sfociate in altrettante crisi bancarie e nella lunga stagnazione giapponese. Fino alla crisi del 2008 la finanza ha forzato lo sviluppo economico attraverso gli investimenti esteri, alimentando le borse e il settore immobiliare come volano per l'intera economia. In questa azione i sistemi finanziari sono enormemente cresciuti e hanno rafforzato il controllo sulle imprese e sui vari aspetti della vita sociale. I crolli bancari del 2008 non hanno segnato la fine del predominio finanziario, ma il suo consolidamento. Le immediate procedure di salvataggio messe in atto dagli Stati rafforzano l'autorità di banche e finanza, in qualche modo la ratificano in via definitiva e ufficiale. Le esigenze della finanza sono dichiarate prioritarie. Da questo momento in poi, la finanza agisce più che da fattore di forzatura della produzione, che alimenta e si alimenta di fasi espansive create artificiosamente, come sistema predatorio autoreferenziale che subordina a sé ogni aspetto della vita economica e sociale e lo indirizza al profitto.

(continuazione e fine al prossimo numero)

 

NOTE

1- Rimandiamo all'articolo L'indebitamento della borghesia schiaccia il proletariato, Il programma comunista, n.5,/2015.

2- “Emergenti, nei debiti in dollari una bomba inesplosa da 9mila miliardi”, Il Sole24ore, 20 marzo 2015. Altri articoli del Sole sull'argomento: “Il debito globale record e quella strana calma sui bond”, 28 marzo 2017; “La bolla del debito globale”, 12 aprile 2015.

3- Secondo altre fonti il rapporto sarebbe addirittura salito nel 2016 al 3,25:1. Altre stime calcolano che il valore complessivo dei titoli finanziari mondiali valga sette volte il Pil. Anche in questi casi ci affidiamo ai dati solo per il significato generale che se ne può ricavare.

4- “Ma quale tapering? I bilanci delle banche centrali sono a livelli record”, Il Sole24ore del 7 ottobre 2016.

Nel 2017 la Fed ha iniziato una prudentissima fase restrittiva con l'obiettivo di “riportare la politica monetaria alla normalità” (tapering), ma è difficile ipotizzare che possa proseguire con decisione su questa strada in assenza di una crescita sostenuta dell'economia. Da parte sua la Bce, nonostante la grande enfasi sulla ripresa in atto, ha manifestato grande prudenza anche solo nell'annunciare un rientro dalla politica monetaria espansiva. Nel prossimo futuro si limiterà a ridurre gli acquisti di titoli, mantenendo basso il tasso di interesse di riferimento. Tuttavia è un fatto che gli acquisti delle cinque principali banche centrali sono destinati a calare, secondo alcuni drasticamente (dagli attuali 2540 miliardollari a 510 nel 2018), per volgersi addirittura in in vendite nel 2019 (“Mercati globali al bivio della stretta di liquidità”, Il Sole24 ore, 29/10/17), secondo altri a ritmi inferiori, ma comunque sostenuti: la sola Fed taglierebbe 600 di miliardi di dollari l'anno di acquisti di titoli, creando un vuoto di domanda, in particolare di titoli di Stato americani, che potrebbe essere riempito solo da un aumento dei tassi, con effetti a cascata su tutti i prezzi dei titoli di Stato e sui rapporti valutari. Tassi più elevati comportano infatti un apprezzamento della valuta dell'emittente. Tanto più che l'annunciata riduzione delle tasse promessa da Trump graverebbe sul deficit pubblico e spingerebbe in alto l'offerta di treasuries. Questo scenario complesso e denso di incognite merita senz'altro una trattazione a parte. Qui basti segnalare che non si intravede nessuna riduzione dell'ammontare del debito mondiale, semmai un ulteriore incremento, e che nel mare già agitato del capitale finanziario mondiale si profilano nuove e forse devastanti tempeste.

5- Sulla crescita dell'indebitamento, i seguenti articoli del Sole: “Da Big Oil ai Petrostati, passando per lo shale: quando petrolio fa rima con debito”, 31 maggio 2016; Vito Lops, cit.; “A 10 anni dalla crisi torna la corsa ai CDS”, 25/8/2017. Inoltre, “La bolla del debito dei ‘corporate bond’”, www.wallstreet.italia, 19 maggio 2017. Sulla crisi dei titoli più rischiosi, “Fuga dai bond spazzatura, riscatti per 6,8 miliardi”, Il Sole24ore del 18/11/2017.

6- Baranes, “Per qualche dollaro in più”, p. 62-64, Datanews, 2011.

7- In questo bilancio, il rapporto tra capitale proprio e attivi è solo di 1/8,6, ma altre grandi banche hanno avuto un rapporto ben più elevato; ad esempio Deutsche Bank al momento della crisi operava con una leva di 53/1. Anche quando il rapporto di leva è relativamente basso, è prassi che buona parte degli attivi sia portata fuori bilancio tramite le società veicolo, argomento cui si fa cenno più avanti nel testo.

8- Sul passaggio delle banche dal credito alla speculazione, cfr. Baranes, cit. p.79-81.

9- “Nei grandi istituti bancari i ricavi provengono solo per metà dall'attività creditizia, mentre l'altra metà è costituita da commissioni, in particolare su derivati e titoli strutturati. Il processo è stato accelerato dalla trasformazione dei debiti delle grandi imprese, che ricorrono sempre meno ai crediti bancari e sempre più all'emissione di obbligazioni sui mercati. I crediti erogati, inoltre, si spostano verso i soggetti a maggiore vocazione speculativa. Hedge fund e fondi di private equity lavorano in massima parte grazie ai prestiti bancari [con una elevata leva] … In molti casi sono le stesse banche ad acquistare partecipazioni in tali strumenti, a operare sui mercati tramite propri hedge fund e fondi di private equity o a operare in proprio. La separazione tra istituti di credito e soggetti speculativi si è fatta via via più sfumata, fino a scomparire del tutto. Le banche hanno raggiunto livelli di leva superiori persino agli Hedge fund”, idem.

10- “Finchè ha funzionato, questo sistema ha garantito profitti giganteschi a pochi grandi attori. In soli sei anni, tra il 2000 e il 2006, gli utili netti delle banche a livello mondiale sono più che raddoppiati, passando da 372 a 788 miliardi di dollari...” (Baranes, cit. p.81)

11- “… la creazione di un mercato globale dei capitali regolato da banche visibili – cioè quotate – e invisibili (shadow banks), ossia non quotate ma attivissime nell'allocazione e circolazione del capitale attraverso dark pools, entità di scopo finanziario adatte a veicolare valori simbolici a fronte di un'estesissima collateralizzazione del debito e di altissima leva di rischio, a fronte di tutto ciò anche l'emissione di moneta simbolica degli Stati è stata sottratta agli Stati medesimi dalla istituzionalizzazione esoterica – dark states – delle banche universali collocanti i titoli di Stato. Questa è la trasformazione che oggi la globalizzazione che declina ha reso evidente ai più. Questa è l'evidenza costituzionalmente più rilevante della crisi in corso.” (G. Sapelli, “Vi spiego il gioco dei poteri forti che comandano la crisi”, da IlSapelli, blog di una crisi 2004-2014, GoWare). Se non si fa caso al linguaggio, a sua volta esoterico, il concetto è abbastanza chiaro.

12- Su questi aspetti, cfr. Marx, Il capitale, Ed. Riuniti, III**, “Capitale monetario e capitale effettivo”, in particolare alle pagine p. 576 e seguenti; anche “Il mezzo di circolazione nel sistema creditizio”, alle pagine 619 e 670.

13- M.King, La fine dell'alchimia, 2017, p. 154-155. A proposito del divorzio Tesoro-Banca d'Italia, cfr. L. Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi, 2013.

14- La Bce continua ad acquistare titoli di Stato dalle banche nell'ambito del QE, ma li acquista sul mercato secondario, non su nuove emissioni. Pertanto finanzia le banche, non gli Stati.

15- “… le banche centrali nazionali non collocano più direttamente sul ‘mercato’ titoli di stato, ossia non lanciano più il debito pubblico nello spazio delle popolazioni organizzative che lo abitano creandolo direttamente, ma attraverso le unioni di fatto delle banche universali che affrontano il rischio di una pericolante statualità collegando le monete simboliche statuali a collaterali cds o similia, che debbono proteggere le banche collocanti dai rischi a fronte degli acquisti: la sovranità degli Stati è appesa al filo della collateralizzazione della nuova banca universale che non fa più margini concedendo credito alle attività dell'economia reale, ma vendendo ad altissimo rischio per i depositanti, ignari e bastonati, prodotti finanziari: i titoli di Stato si sono trasformati in prodotti finanziari.”(da IlSapelli, blog di una crisi 2004-2014, GoWare).

16- Sui meccanismi speculativi tramite derivati vedi Baranes, cit. p.33 e 39-40.

17- Lo short selling (vendita allo scoperto) “consiste nel prendere a prestito un titolo per poi venderlo a prezzo di mercato. Si spera che i prezzi scendano, si ricompra al nuovo prezzo e lo si restituisce. Prendo in prestito un'azione che vale 100 e immediatamente la vendo sul mercato. Dopo un mese il valore è sceso a 80. Ricompro l'azione e la restituisco al proprietario, ottenendo un guadagno di 20, tolta la commissione di chi mio ha prestato l'azione” (Baranes, 39). La versione ultraspeculativa del naked short selling prevede di vendere un titolo senza averlo, nemmeno a prestito, e ricomprarlo subito dopo per poterlo consegnare. Se nel breve lasso di tempo tra la vendita e l'acquisto il prezzo è calato, c'è un guadagno (Baranes, cit, p.40).

18- “Chi pagherà per il salvataggio delle banche, per il crollo dei titoli immobiliari senza copertura? Saranno le imposte su tutta l’attività produttiva, cioè sui salari operai, imposte che dovranno servire a pagare oltre al debito pubblico precedente, che le fameliche bocche del capitale hanno già inghiottito, anche la classe dei nuovi creditori dello Stato, autorizzati a prelevare a loro favore grosse somme sul gettito delle nuove imposte per i titoli comprati ed emessi dallo Stato per risanare i rinnovati deficit di bilancio”, da “A proposito dei pagamenti del debito”, Il programma comunista, n.5/2015.

19- Un'altra via che sembra aprirsi di questi tempi, apparentemente in controtendenza, è quella della riduzione dell'imposizione fiscale alle imprese, nell'illusione che l'afflusso di capitali determini una crescita tale da ridurre il debito pubblico. La possibilità di ridurre per questa via il debito pubblico si fonda sull'ipotesi aleatoria che un nuovo ciclo espansivo possa nascere semplicemente da manovre fiscali. Al contrario, il debito pubblico crescerà, e il calo della pressione fiscale sul capitale dovrà essere compensato da un corrispondente aumento della tassazione sul lavoro e sui consumi, o da un processo inflazionistico. Certamente darà avvio a una concorrenza internazionale al ribasso che annullerà tutti i (presunti) vantaggi competitivi e aumenterà le tensioni tra imperialismi.

20- Baranes, cit. p.53-55.

La crescita del debito mondiale e la sua valenza nel corso storico del capitale (II)

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

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