A oltre quindici anni dall’introduzione dell’euro, gli economisti borghesi rilevano disavanzi e avanzi commerciali, perdite, guadagni di competitività e crolli della produttività nei paesi aggregati all’euro: il tutto mascherato da un uguale tasso d’inflazione che dovrebbe (?) inchiodarsi al 2%, sotto l’occhio vigile di Draghi. Nell’economicismo borghese, i dati economici (produttività, PIL, tassi di occupazione e disoccupazione, aumenti e diminuzione dei salari, investimenti, spese pubbliche, tassi di profitto, d’interesse, di rendita, etc.) sarebbero solo effetto di “scommesse capitalistiche” sui mercati e non avrebbero nulla a che vedere con il tasso di sfruttamento della classe operaia: sarebbero grandezze indifferenti e sconnesse fra loro non legate dalle forze produttive e dai rapporti di produzione fra le classi sociali. Ma come sono stati possibili quei disavanzi? A partire dal 2002, cioè dalla messa in circolazione delle banconote in euro, la divaricazione tra le tre principali economie europee comincia a crescere, divaricazione che si allargherà ancor di più. Il tasso d’inflazione “tenuto sotto controllo” dall’autorità monetaria, considerato come “indice di stabilità” in relazione alla massa di denaro circolante, del prodotto interno lordo potenziale e della velocità media di circolazione del denaro, prima della crisi si era messo a ballare come se avesse il diavolo in corpo. Il suo valore è precipitato poi nel corso della crisi di sovrapproduzione, prima in zona di bassa inflazione (meno del 2%), poi nella zona di deflazione (sotto zero %), facendo impazzire gli economisti. Oggi il valore sarebbe, dicono, in zona di reflazione, si starebbe cioè rimettendo – ma solo per gli Usa – in un terreno appena superiore al 2%, nello stesso tempo in cui la Fed ha rialzato la forchetta del tasso d’interesse (0,75% - 1%) di un quarto di punto tra 1% e 1,25%, prospettando minori rialzi nel corso dell’anno. Il tasso d’inflazione, se l’economia uscisse dalla crisi, crescerebbe rapidamente, ma le carrozze del treno avrebbero bisogno di grandi locomotive e di potenti motori e non di verniciature o semplici manutenzioni! La trappola deflattiva, in cui l’economia europea ha rischiato di cadere trascinata dalla crisi di sovrapproduzione, si sarebbe ormai allontanata (dicono), mentre la ripresa sarebbe ancora anemica. Una politica economica più aggressiva di quella attuale, aggiungono, rischierebbe d’essere devastante perché una nuova crisi, ancor più violenta della precedente, si abbatterebbe sulla struttura sociale.

Le differenze di produttività e di competitività tra i diversi Stati-pedine dell’Eurozona sono prodotte dai prezzi-valori di produzione delle merci che determinano avanzi (o disavanzi) nelle bilance commerciali e nelle partite correnti dei mercati nazionali. Poiché nessuno Stato dell’Unione può autonomamente svalutare la propria moneta per farla divenire competitiva (lo impedisce la Banca centrale europea), le cause delle crisi vanno cercate altrove. La legge del valore di Marx aiuta a svelare realmente le contraddizioni relative alla perdita (o guadagno) di competitività, non solo in seno all’area dell‘euro, ma anche a livello internazionale. Accade che i prezzi di produzione delle merci, prodotte nei paesi con gli apparati produttivi più moderni, cioè quelli con una più elevata composizione organica e tecnica del capitale (Cina, Germania, Usa, Francia, Regno Unito, Italia) e con una maggiore produttività per un tasso di sfruttamento maggiore, tendono ad abbassarsi. Crescono, invece, nei paesi con apparati produttivi meno avanzati da un punto di vista capitalistico, cioè quelli con una più elevata presenza di imprese di piccole e medie dimensioni e/o impianti mediamente di più vecchia concezione e, di conseguenza, con una più bassa composizione organica del capitale e minore produttività. Caduta la maschera dei cosiddetti equilibri monetari, le merci prodotte dai paesi più deboli dell’Eurozona si ritrovano “nude”, perché la quantità di lavoro socialmente necessaria per produrle è maggiore, essendo l’apparato industriale che le produce meno efficiente.

Nel frattempo, tuttavia, la produzione materiale nazionale s’intreccia profondamente con le produzioni internazionali, tali da costituire una rete inscindibile per la presenza delle grandi realtà multinazionali. Anacronistico è lo scenario di un ritorno al protezionismo vecchio stampo. In un mondo integrato come l’attuale, l’imposizione di un super-dazio, come promette Trump, colpirebbe non solo l’ultimo settore della catena produttiva, ma tutta la rete: la tassazione rischierebbe di rivelarsi un boomerang. Il ritorno al protezionismo potrebbe causare, non la ricollocazione del lavoro nella manifattura, bensì uno spiazzamento del lavoro nei settori a monte della catena internazionale di creazione del valore. La finanziarizzazione dell’economia, a sua volta, cresciuta in modo esponenziale, farebbe emergere nuove aree capitalistiche e contemporaneamente ne farebbe sprofondare altre.

In questo contesto, parlare d’Europa significa parlare delle istituzioni europee, forme politiche vuote, che presto o tardi crolleranno come castelli di carta; ma significa anche parlare della recente proposta di costituire per l’Europa e per l’Euro un percorso a più velocità d’integrazione, cominciando dalle politiche di difesa e di sicurezza comune (un comando unificato è stato messo in cantiere per pianificare le missioni di addestramento all’estero: Somalia, Mali, Centrafrica), segnali non della crescita ma dell’invecchiamento avanzato di quest’Europa che “vorrebbero unita”, ma che mai lo è stata realmente, economicamente e politicamente, dimostrando solo la propria ineluttabile paralisi e lo scioglimento forzato e violento cui andrà incontro a partire proprio dalle perdite di produttività.

Non sembri strano che la corsia più veloce sia quella delle economie più avanzate, fondate su accordi militari, a dimostrazione che capitalismo e militarismo (imperialismo) vanno sempre insieme. Se nell’Unione Europea si esamina la stretta connessione tra difesa, sicurezza, immigrazione, infrastrutture, investimenti in ricerca & innovazione tecnica, sviluppo della concorrenza, mercati finanziari (i caratteri unificanti dell’economia capitalistica) non si può non riconoscere che la sovranità dei singoli stati nazionali che la compongono è solo una miserabile illusione. Quella stretta connessione strutturale per essi è impossibile, l’Europa unita è solo una panacea, un placebo proprio per la divaricazione sempre più forte che si va costituendo. Il nazionalismo di ritorno è solo un indice di debolezza per gli Stati fittizi, che ancora veleggiano nell’Est europeo. Ancora una volta, mentre si festeggia a Roma il 60° dalla fondazione europea, si evoca il grande passato dell’Europa (l’Impero romano, il Sacro romano impero, il Disegno imperiale napoleonico e il Nazismo), accostando insieme epoche diverse e incompatibili fra di loro dal punto di vista economico, politico e sociale.

Una serie di eventi – l’uscita del Regno Unito (la Brexit), il “probabile rientro” di cui si parla della Scozia tra le braccia europee, i milioni di europei residenti in Gran Bretagna che rischiano di rimanere invischiati nelle scartoffie burocratiche di un impossibile rientro nelle rispettive patrie, il nazionalismo accesi dei paesi del gruppo di Visegrád (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) e quello dell’area baltica – aprirà le porte dell’inferno. L’economia tedesca, a sua volta, la più dinamica dell’Eurozona nei suoi settori industriali, presto o tardi vedrà aprirsi profonde spaccature sul suo stesso terreno. Il cosiddetto protezionismo di Trump, a sua volta, è il segnale di fatto della decadenza americana: tra il 2008 e il 2014, è aumentato di 9 milioni non solo il numero degli occupati, ma anche il numero dei poveri, accrescendo così le disuguaglianze sociali. Nel frattempo, nello scenario di bassa crescita, di bassa inflazione e bassi scambi internazionali e di decelerazione del commercio mondiale, l’Unione europea mostra già i segni del crescente invecchiamento che trasformerà gli Stati nazionali dell’Europa in un negozio di cristallerie.

 

Valute forti e deboli, criteri di convergenza e stati di divergenza

Il valore dell’euro, nell’ambito dell’Eurozona, è entrato in circolazione soltanto il 1º gennaio 2002 a un tasso di conversione fisso con le valute nazionali, ad esempio 6,56 (franchi francesi), 1,96 (marchi tedeschi), 1936,27 (lire italiane), 166,39 (pesetas spagnole), etc. Agganciato ai valori di mercato, l’euro rispecchiava naturalmente i diversi rapporti di forza economica fra gli Stati: se essi variano, inevitabilmente la divaricazione economica dei diversi paesi s’allarga. A nulla vale mascherare questa divaricazione: presto o tardi, essa emergerà in superficie con la realtà dei disavanzi e delle perdite, ma anche dei guadagni di competitività e della produttività, comunque tratti dalla caduta tendenziale del saggio medio di profitto. Le banche centrali dell’Euro-sistema, emittenti ufficiali delle banconote poste in circolazione dagli Stati membri, dovrebbero, dicono, far sì che il contante continui a essere un mezzo disponibile, affidabile ed efficiente (sic!). Il trattato di Maastricht ha introdotto, allo scopo, dei criteri di convergenza di diversi parametri rispetto ai quali i paesi devono essere in regola per poter “garantire la stabilità dell’euro e uno sviluppo economico equilibrato e senza tensioni” (sic!).

Essi sono legati alla dinamica “reale” capitalistica e, in quanto tale, variano, lentamente o rapidamente, forzati anche dalle diverse politiche economiche nazionali. Perché tali criteri di convergenza? La crisi di sovrapproduzione, in cui siamo ancora immersi, non è stata determinata da un colpo di sonno del conducente o da una rotazione errata del volante. Il primo criterio (deficit/PIL, il disavanzo pubblico annuale) è di non superare il 3% in rapporto al PIL. Esso è una misura del rigore nei conti pubblici dello Stato ed è dato dal rapporto tra il saldo tra le entrate (principalmente il prelievo fiscale) e le uscite (la spesa pubblica e gli interessi pagati sul debito) di uno Stato e il suo prodotto interno lordo.In caso contrario (?), tale rapporto deve essere diminuito in modo sostanziale e costante e raggiungere un livello prossimo a quel valore. Il secondo criterio (il rapporto tra il debito pubblico lordo e il PIL) non deve superare il 60%. In caso contrario (?), tale rapporto deve essere ridotto in misura sufficiente e deve avvicinarsi al valore di riferimento con ritmo adeguato. Nel 2015, i rapporti tra debito pubblico e PIL sono stati per il Giappone 229%, per la Grecia 177%, per l’Italia 133%, per il Portogallo 129%, per Cipro 109%, per il Belgio 106 %, per gli Usa 104%, per la Spagna 99%, per la Francia 96%, per il Regno Unito 89%, per la Germania 71%. Spese pazze?

Se guardiamo solo agli Stati aderenti all’Eurozona, attualmente nessuno sta sulla linea del 60% del PIL. E’ chiaro che le grandezze economiche capitalistiche non saranno mai in grado di stabilizzare un sistema che è per sua natura instabile; anzi, creeranno instabilità crescente.

Cambi fissi o flessibili fra le monete? Nel 1971, inizia il sistema mondiale dei cambi flessibili: i paesi che da quella data fino al nuovo secolo hanno cercato di stabilizzare i rapporti di cambio hanno ritenuto che le disparità monetarie fossero di ostacolo al mercato unico e al progetto di integrazione e di cooperazione. Hanno dubitato che fosse possibile integrare le diverse macchine economiche nazionali nel sistema capitalistico. Se nel periodo postbellico il tasso di crescita annuale fu molto alto e successivamente è subentrato il declino economico, e svalutazioni si sono succedute a svalutazioni, fissare nuovamente il cambio tramite l’euro avrebbe riportato alti tassi di crescita? La crisi di sovrapproduzione a partire dal 2008 non è forse stata partorita dallo stesso sistema, non ha forse investito il capitalismo mondiale con tutte le sue rappresentazioni monetarie? L’euro fu nel 2002 il compimento dell’integrazione, o non fu piuttosto una gabbia? Coloro che nella situazione presente pensano alla svalutazione competitiva come strumento di politica economica per far crescere l’economia o pensano al sistema americano come a una macchina economico-finanziaria che “funziona” bene (bilancio federale, unione bancaria) sono vittime di qualche allucinogeno. Tutti gli strumenti che sono serviti a costruire l’attuale macchina economica americana sono stati adottati dopo l’introduzione del dollaro: l’integrazione è venuta dopo la Guerra civile e la crisi finanziaria, dopo la Grande depressione e le due Guerre mondiali. Non si tratta di trattati, di parametri, di parlamenti, di istituzioni, si tratta di un’economia imperialista. L’imperialismo del dollaro ha funzionato sia all’interno che all’esterno degli Usa, come moneta mondiale, ma la dinamica capitalistica non si esaurisce in una funzione monetaria, nella realtà dello scambio delle merci. La crescita economica in questi anni, dopo tutti i possibili strumenti utilizzati da Draghi, arriva nell’Eurozona appena al 2% e in Italia all’1%.

Nel caso di valute differenti (euro-dollaro, yuan-dollaro ecc.) nei rapporti di commercio mondiali, la relazione di scambio è significativamente variabile: le differenze di natura economica fra i paesi non tendono verso alcun equilibrio; anzi, la concorrenza, la dinamica di fondo del capitale, porta a divergenze sempre più accentuate (saggio di profitto, saggio di sfruttamento, produttività). In linea generale, tra le diverse valute nazionali si stabiliscono, per la legge del valore, equilibri solo temporanei, in quanto i processi attivi, in dati istanti, creano squilibri inevitabili. Le grandezze in gioco rimangono le importazioni e le esportazioni dei vari paesi, ovvero l’avanzo o il disavanzo commerciale: “gli arrivi dalla Cina negli Usa sono passati, ad esempio dal 2% (1990) al 17% (2010) con un tasso medio di crescita della Cina nel periodo del 14%. Se si guarda ai dati di settore gli Usa hanno acquistato dalla Cina rispettivamente il 50% ed il 40% di tutte le loro importazioni nell’abbigliamento e nell’elettronica” (Il Sole-24 ore, 19 aprile).

In linea generale, Stati con la valuta “forte” consentono di investire i capitali nei paesi la cui valuta è “debole” e di acquistare negli stessi le merci a condizioni vantaggiose. Tuttavia, se i consumatori dei paesi “deboli” non avessero una valuta sufficiente ad acquistare i prodotti esteri per sviluppare i processi produttivi, allora in essi si avrebbe minore produzione, minori profitti, minori posti di lavoro, perché le aziende sarebbero costrette a chiudere e quindi si avrebbe riduzione dei salari e disoccupazione. Specularmente, gli Stati con la valuta “debole” venderebbero meglio le loro merci all’estero e attirerebbero l’investimento dei capitali stranieri. Con ciò, si avrebbe un aumento dei prezzi, quindi inflazione, che si scaricherebbe sui salari. Uscire da una loro forzata riduzione sarebbe possibile solo spingendo la lotta di classe fino alle estreme conseguenze. Se guardiamo alle imprese esportatrici, i loro prodotti diventano molto più convenienti sui mercati di destinazione. Esse (le imprese) vivrebbero un vero e proprio boom di esportazioni e prospererebbero, dando luogo a una crescita economica e maggiore occupazione. Un flusso costante di valuta pregiata entrerebbe nelle casse di questi paesi “deboli”. E così via per altri prodotti, con la possibilità di avere ricadute positive anche sul proprio mercato interno.

Persa dagli Stati nazionali dell’Eurozona aderenti alla “moneta unica” la possibilità di un utilizzo indipendente della leva monetaria (svalutazione), le merci prodotte nelle zone con una più bassa composizione organica del capitale continuano a perdere di competitività rispetto alle altre; le rispettive esportazioni economiche soffrono e, complice la crisi generale del capitalismo, gli Stati sono costretti a indebitarsi. Specularmente, le nazioni con l’apparato industriale più moderno traggono vantaggio dalla moneta unica e affrontano meglio la crisi. Uno Stato privo del controllo autonomo sulla moneta è esposto quasi senza difese alla concorrenza internazionale: il caso della Grecia, di cui ci si continua a occupare, è abbastanza noto, in quanto la prospettiva è quella di una sua uscita dall’Unione monetaria. Un’unione monetaria come quella europea, accompagnata da un’unità politica fittizia, difficilmente può resistere a lungo alle crisi sempre più acute e profonde del capitalismo, poiché essa non solo non elimina la concorrenza, effetto di saggi di profitto differenti, ma permette, intrinsecamente, agli Stati più forti di incassare in breve tempo e per intero i frutti derivanti dalla superiorità del proprio apparato industriale, a scapito dei più deboli. Ovviamente, le politiche monetarie sono palliativi che possono soltanto dilazionare le contraddizioni del capitalismo, non certo eliminarle. Il problema dei rapporti fra le monete, che a prima vista può apparire solo tecnico, maschera in realtà precisi rapporti politici (di forza) tra Stati capitalistici e sottende anche a esplosive tensioni fra le classi.

In altri termini: alla base dei problemi dei rapporti fra monete nazionali sta l’acuirsi della forza economica degli Stati sui mercati internazionali delle merci e dei capitali e quindi della concorrenza. Il mantenimento della parità non è possibile nel lungo periodo, in presenza di una diminuzione del valore delle merci di uno o più paesi concorrenti, destinata ad abbattere anche le “grandi muraglie”. Le crisi monetarie non sono dunque che violente ricomposizioni degli squilibri degli scambi sul mercato mondiale e, alla base di essi, della produzione, e nello stesso tempo l’inizio di nuove e più catastrofiche crisi. Le guerre commerciali, risultato dei contrasti economici, finiranno col trasformarsi in guerre guerreggiate.

 

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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