Nel numero scorso di questo giornale, abbiamo iniziato un articolo in cui si mostrava come il Sud Est asiatico, dopo aver ricevuto un forte impulso con la costituzione dell’ASEAN a metà anni ’60, abbia poi subito gli effetti speculativi monetari con la crisi finanziaria del 1997, riuscendo a superarli grazie ad alti tassi di sviluppo e a notevoli interscambi commerciali e investimenti, dovuti soprattutto alla favorevole posizione geografica e al rapporto sempre più stretto con la Cina. Dati alla mano, in quella prima parte abbiamo analizzato la situazione degli Stati economicamente più forti all’interno dell’area: concludiamo ora il nostro lavoro con una breve rassegna relativa alla situazione degli altri Stati.

Malaysia

E’ una delle economie più aperte e in espansione, soprattutto grazie alle esportazioni e al flusso di capitali IDE. I dati sul PIL si avvicinano a quelli della Thailandia, ma con una popolazione che ne è meno della metà. Dai dati relativi al periodo 2011-2014, vediamo come il PIL, da 298 miliardi di dollari (MLD) del 2011, cresca a 327 nel 2014, con una crescita percentuale media attorno al 6%, inferiore solo alla Cina e alle Filippine. Il PIL pro capite, maggiore di quello thailandese, si porta a 10.804$ nel 2014, la disoccupazione è intorno al 3%, il debito pubblico al 54% del PIL nel 2014, mentre il debito privato è tra i più alti al mondo, pari all’87% del PIL. L’inflazione va al 2-3%, ma si stima possa crescere al 5% per via dell’introduzione di una nuova imposta e della riduzione dei sussidi statali.

Per l’export abbiamo i dati del 2012-2014, che sono in media sui 220-225 MLD, con destinatari principali Singapore, Cina e Giappone. L’import (sempre dal 2012 al 2014) è inferiore all’export, con 187 MLD, e ha come principali fornitori la Cina, Singapore e Giappone. Nel 2014, la bilancia commerciale ha conseguito un surplus del 15,7% rispetto al 2013.

Gli IDE in uscita (dati del 2011) indicano 10,7 miliardi di euro (ML€), con destinatari principali, in quell’anno, Singapore, Armenia (1,8) e Isole Mauritius (1,5), mentre lo stock in uscita è stato di circa 76 ML€ con destinatari principali Singapore (12,6), Armenia (1,8) e I. Mauritius (1,5).

Gli IDE in entrata, per il 2014, sono stati di 9,6 ML€ (con un calo dell’8% rispetto al 2013): investitori principali, Giappone, Singapore, Cina e Corea del Sud (per il 70%), UE e USA (per il 25%), mentre lo stock in entrata raggiungeva gli 82,3 ML€, con investitori principali Singapore (15 ML€), Giappone (10,6), USA (8,7). Attualmente, la Malaysia è al 3° posto tra le nazioni dell’ASEAN con la maggiore presenza di imprese straniere, dopo Singapore e Thailandia.

La Banca Centrale prevedeva, per tutto il 2015, un rallentamento della crescita al 4,5-5%, determinato dal rallentamento dei consumi per via di misure monetarie e fiscali più restrittive, dalla riduzione dei ricavi dovuta alle esportazioni di petrolio (di cui il paese è il 5° produttore nell’area), dal calo delle quotazioni di olio di palma e gomma, sommati al rallentamento della crescita cinese, principale partner commerciale. In crescita il settore costruzioni (+11,6%), seguito dai servizi (6,3%), manifatturiero (6,2%), estrattivo (3,1%) e agricolo (2,6%). Nel 2014, il settore dei servizi concorre alla formazione del PIL per il 55%, seguito dal manifatturiero per il 24,5%, l’estrattivo per il 7,9%, l’agricoltura per il 6,9% e le costruzioni per il 3,9%. Il settore finanziario è particolarmente sviluppato: il paese è la terza maggiore piazza azionaria del sud est asiatico e il più importante mercato al mondo della finanza islamica che qui copre il 20% delle attività bancarie complessive. Il sistema finanziario malese è stato “promosso” dal FMI per la buona capitalizzazione del sistema bancario, l’ammontare delle riserve in valuta e il quadro generale di controllo esercitato dalla Banca Centrale Malese. La Malaysia rimane un paese tra i più competitivi dell’area, secondo solo a Singapore, con buone qualità delle infrastrutture e dei trasporti.

 

Filippine

Con una popolazione di circa 101 milioni di abitanti, le Filippine hanno conosciuto, dal 2011 al 2014, una crescita percentuale media del PIL del 6% – il che ha portato il valore assoluto del PIL da 264 a 285 MLD e il valore procapite a 2.865 $. Il tasso di disoccupazione nei 4 anni si aggira intorno al 7%, il debito pubblico al 45%, l’inflazione al 4%.

L’export di 38,3 MLD nel 2011 si è portato a 49 MLD nel 2014 ed è più basso dell’import (58,7 MLD nel 2011; 61,1 nel 2014). Si prevede un’ulteriore espansione delle esportazioni del 6% nel 2015, come pure delle importazioni, costituite in gran parte da componenti utilizzati per la fabbricazione di merci che vengono poi esportate.

Per gli IDE in uscita, nel 2011 il livello è molto basso: lo stock non superava i 5 ML€. Lo stesso vale per gli IDE in entrata: lo stock è stato attorno ai 21 ML€. Si attendono ingenti spese pubbliche per migliorare lo scarso livello delle infrastrutture, le attività agro-industriali e il turismo per attrarre gli investimenti esteri.

Dopo un rallentamento della crescita nel 2011 a +3,7% (crollo della domanda esterna per le esportazioni di beni e servizi), la crescita è ripresa nel 2012 attestandosi al al +6,7% e nel 2013-2014 al +7,1 e al +6,1%. I consumi privati sono oltre il 70% del PIL e dovrebbero mantenersi robusti grazie al previsto aumento della spesa pubblica e alle rimesse dei lavoratori all’estero (oltre il 10% del PIL). L’inflazione dovrebbe mantenersi sul 3%: da un lato vi è il rincaro di alcuni generi alimentari e l’introduzione di accise su alcolici e tabacchi, dall’altro vi è il rilevante calo del costo delle materie prime, soprattutto il petrolio. Il costo dei salari è più basso che in Cina ed è dovuto all’aumento dell’esercito di riserva della forza-lavoro.

Sul fronte finanziario, si punta all’aumento della spesa pubblica, abbandonando l’obiettivo del riequilibrio di bilancio (con un deficit di bilancio previsto pari al 2% del PIL) e ciò sempre per potenziare le infrastrutture. Si prevede anche un livello di investimenti fissi nei prossimi anni attorno a una media del 5%, con “effetti positivi” in campo occupazionale.

I rapporti con gli USA rimangono molto stretti, sia in campo economico (gli USA sono uno dei principale partner commerciali) che in quello militare (soprattutto contro i separatisti musulmani dell’isola di Mindanao, con i quali di recente è stato però firmato un accordo di pace), con una maggiore cooperazione per la difesa e la sicurezza marittima. Anche con la Cina i rapporti economici sono tutti in crescita, ma è aperto il contenzioso sulle Isole Spratly e di recente anche su un’area marittima vicino all’isola di Luzon.

Vietnam

Dal 2011 al 2014, la popolazione è salita da 87 a 91 milioni. Il PIL in valore assoluto è cresciuto da 135 nel 2011 a 186 MLD nel 2014, con una percentuale media del 5,5% (negli ultimi dieci anni oltre il 7%), mentre quello pro capite è salito a 2053$ nel 2014. Il PIL del settore primario è al 18,1%, (nel 1991 era al 41%), del secondario 38,5%, del terziario 43,4%. La disoccupazione media è attorno al 3,5 del PIL, il debito pubblico è sceso dal 54 al 43 %, mentre l’inflazione si è mantenuta alta: nel 2014 al 4,1%.

Per quanto riguarda la bilancia commerciale (dati dal 2012 al 2014), l’export è salito da 114,6 a 132,1 a 150,2 MLD: destinatari principali per i tre anni, Giappone, Cina, USA; l’import, più o meno uguale all’export, è salito pure da 113,7 a 132 a 149,3 MLD e ha visto come principali fornitori Cina, Corea del sud e Giappone.

Per gli IDE, abbiamo i dati di tre anni (2011-13) e vediamo che i flussi di investimenti in uscita crescono da 1,8 a 3,7 ML€, mentre per lo stock abbiamo i dati del solo 2011, del valore di 8,2 ML€. Principali destinatari: Singapore, Cambogia, Giappone, Taiwan. Più rilevanti i flussi in entrata, che nei tre anni crescono da 10,6 a 16 ML€, con investitori principali Hong Kong, Giappone, Singapore. Lo stock in entrata, già notevole nel 2011 (142 ML€), cresce fino a 172,6 nel 2013 e vede come investitori principali Giappone, Corea del sud, Singapore.

La crescita dalle esportazioni si mantiene elevata: la produzione industriale è sostenuta, soprattutto nel settore minerario, manifatturiero e della trasformazione. Il governo ha alternato misure per aumentare la competitività e stimolare la crescita, con provvedimenti per stabilizzare l’economia e ridurre l’inflazione (aumento del tasso di sconto, limiti al credito). Bassi salari, inflazione, aggravamento delle condizioni di lavoro hanno prodotto un aumento dei conflitti sociali. I provvedimenti restrittivi hanno avuto effetti negativi sul manifatturiero e sulla produzione industriale. E’ diminuita la domanda interna, con effetti negativi sulle vendite al dettaglio, anche se si prevede un sostanziale incremento dei consumi privati. Si attendono poi riforme strutturali sul sistema bancario che ha risentito delle misure restrittive emanate nel 2011 e di quelle sulle imprese di stato – soprattutto la loro privatizzazione, di cui si lamenta la “lentezza” (il Vietnam viene ancora considerato un paese a… “economia pianificata”). Si punta a un’accelerazione del processo di industrializzazione, al miglioramento delle infrastrutture (strade, porti, ferrovie), del sistema di istruzione obbligatoria e universitaria con coinvolgimento di tecnologie, imprese e capitali stranieri. Il Vietnam è attualmente aperto e interessato alla cooperazione, sia a livello regionale in ambito ASEAN sia in rapporto con Cina, Unione Europea e USA.

 

Myanmar (ex Birmania)

A causa dei lunghi anni di sanzioni contro i governi militari, il paese ha avuto una lentissima crescita, interrotta solo nel 2013 con il ritiro dell’embargo. A fronte di una popolazione cresciuta a più di 51 milioni nel 2014, il valore del PIL in termini assoluti è stato molto basso (62,8 MLD nel 2014), come pure il valore pro capite, salito appena a 1.221$, pur con una notevole percentuale media del 6,4 (salita a 7,5 dopo il ritiro delle sanzioni). Il PIL del settore primario è ancora elevato (33,2%) e occupa il 63% della popolazione attiva, mentre il secondario arriva al 29,9% e il terziario al 36,9. La percentuale della disoccupazione si mantiene al 4%, il debito pubblico al 47% e l’inflazione al 7% come media.

L’export dal 2012 al 2014 è quasi raddoppiato (da 8,8 a 15 MLD), con destinatari principali Thailandia, Cina e India, mentre l’import per gli stessi anni si porta da 9,2 a 17,7 MLD, con fornitori principali Singapore e Giappone. Per gli IDE, abbiamo i dati del 2011 e solo quelli dei flussi in entrata (3,3 ML€), mentre lo stock per lo stesso anno è di 29,4 ML€ e vede come principali investitori la Cina, la Thailandia e Hong Kong.

L’economia è stata fortemente condizionata e frenata dai vari governi militari che si sono succeduti dopo l’indipendenza dalla Gran Bretagna nel 1948. Fino al 1989, il paese non conosceva il commercio internazionale: la vera apertura è iniziata con il mandato alle autorità civile nel 2011 e molti sperano possa ancora riprendere con la vittoria alle elezioni dello scorso novembre di Aung San Suu Kyi. Il settore primario è orientato alla produzione di riso, grano, miglio, legumi; il secondario, alla lavorazione e raffinazione di petrolio e gas naturale. Il settore industriale non è comunque sviluppato: vi sono però stabilimenti tessili, alimentari e industrie pesanti come la cementizia, metallifere e belliche. Il 70% dell’energia elettrica è fornito dall’idroelettrico, il 20% da turbine a gas e il 10% da centrali a carbone. Solo il 26% del paese ha accesso all’elettricità (solo 3000 villaggi su un totale di 68.000). Nel settore terziario, è in crescita il turismo grazie a un patrimonio artistico rilevante; inoltre, nel 2013, è stata realizzata l’indipendenza della Banca Centrale. L’apertura economica è consistita in misure volte ad attrarre investimenti esteri: la prossimità ai paesi più sviluppati del Continente asiatico facilita questo sforzo, insieme al basso costo della forza-lavoro.

Cambogia

La sua è un’economia fortemente condizionata dalle vicende politiche interne e internazionali. Fino all’arrivo dei francesi, la Cambogia era di fatto assoggettata alla Thailandia, a cui dal 1979 si sostituisce il Vietnam, con la cacciata dei Khmer rossi e un’occupazione militare durata dieci anni (e rimangono ancora forti i legami militari con il Vietnam). Un vero avvio economico si avrà a partire dagli anni 2000, con una forte crescita in % negli ultimi anni (in media sul 7%). La popolazione è poco al di sopra dei 15 milioni, con una popolazione attiva di 8 milioni e 600mila persone (dati 2013). Il PIL nel 2014 è stato di 16,8 MLD con una crescita del 7% sul 2013. Il PIL pro capite si attesta sui 1.080$. Il PIL del settore primario è al 33,6%, del settore secondario al 25,6, del terziario al 40,8. La forza lavoro del settore primario tocca il 64,3%, del secondario l’8,1%, del terziario il 27,6% (dati del 2013). La popolazione urbana è il 20,3% della popolazione totale. L’inflazione s’aggira intorno al 4%. Il riso è il principale prodotto e occupa l’80% delle terre arabili, mentre la pesca nelle acque interne è fondamentale per il fabbisogno interno. Importante anche la produzione di mais, soia, canna da zucchero, fagioli, tabacco, noci di cocco e, dalle foreste che occupano il 58% del territorio, legname e caucciù. Il turismo è in espansione. L’export nel 2014 si porta a quasi 14 MLD (soprattutto riso e prodotti tessili, ma anche pesce, caucciù, mais, soia), e ha come destinatari: USA (anche se in calo), Singapore, Giappone, Thailandia, Cina, Indonesia, Malesia. L’import si porta a 15 MLD: soprattutto materiale tessile per il 26%, macchinari e prodotti minerari (25%), prodotti alimentari, carta, trasporti, metalli, prodotti chimici, plastica e gomma. Gli IDE in entrata nel 2014 sono 1,2 ML€ con tendenza alla crescita, mentre quelli in uscita sono irrilevanti.

 

Laos

La popolazione nel 2014 è sui 6 milioni e 700 mila, di cui quella attiva intorno ai 3 milioni e 400 mila. Il PIL è attorno agli 11,7 MLD, con una variazione rispetto al 2013 del 7%, mentre il PIL pro capite è circa 1.700 $. Il PIL del settore primario è il 24,2%, del secondario il 34,1%, del terziario il 41,7% (dati del 2013). L’inflazione è al 4,1 % nel 2014. La produzione di riso occupa la maggior parte della forza-lavoro ed è praticata su quasi il 60% del suolo agricolo: di rilievo, colture commerciali come caffè, mais, frutta, cotone e risorse forestali, con essenze pregiate quali il teak. Le risorse del sottosuolo (lignite, argento, oro, gesso, rame, stagno, zinco) sono in via di sfruttamento in forza dei capitali stranieri favoriti da vari provvedimenti governativi e dal credito alle iniziative imprenditoriali. Sono presenti industrie meccaniche (soprattutto assemblaggio di autoveicoli e motociclette), della lavorazione del legno, tabacco, cemento. Le attività artigianali (ceramiche, terraglie) sono molto diffuse, mentre è in espansione il turismo. La banca centrale è la Banque d’Etat de la RDP Laos: operano poi alcune banche commerciali private francesi e thailandesi. Nel 2012, sono stati siglati accordi per la costruzione di collegamenti ferroviari con Vietnam e Cina.

La bilancia commerciale è negativa: il Laos ha esportato per circa 3 MLD e importato per 6,4 MLD. Principali prodotti di esportazione sono rame raffinato, legno segato, caffè, con destinatari principali Cina, Thailandia, Vietnam, Nigeria, India. I maggiori prodotti importati sono stati carburante, alimenti, beni di consumo, macchinari, attrezzature, ricambi, e i maggiori paesi fornitori Thailandia, Cina, Vietnam, Corea del sud. Aumentano poi a un ritmo sostenuto gli investimenti cinesi.

Alcune considerazioni in conclusione

Come si vede da questa rapida panoramica, molti di questi paesi sono ancora “in via di sviluppo”, con tassi di crescita notevoli, attorno al 5-6 % (significativo è invece il rallentamento delle economie più forti, ma anche più “datate”, come quelle di Singapore e Thailandia). Il PIL complessivo degli stati dell’ASEAN è valutato sui 2500 MLD nel 2014 a prezzi correnti. L’interscambio in generale è notevole sia con paesi importatori che con quelli esportatori, con destinatari e fornitori principali soprattutto gli Stati della stessa regione dell’ASEAN e del Nord Est: Cina, Giappone, Hong Kong, Corea del sud, ma anche la UE, mentre è in calo il peso degli USA. Sono paesi aperti agli investimenti sia in entrata che in uscita, con destinatari e investitori principali soprattutto gli stessi Stati, con un surplus che ha consentito e ancora consente ad alcuni di essi ampie riforme strutturali e tecnologiche. In tutti è più o meno in corso (o in progetto) un processo di riforme e ammodernamento delle infrastrutture volto ad attirare investitori stranieri. Per le maggiori potenze come USA, Giappone, Corea del sud, Cina, ecc, questi paesi sono stati nei decenni passati, e sono in parte ancora adesso, oggetto di ampie delocalizzazioni soprattutto per il basso costo dei salari. Rallentato nei paesi più sviluppati questo processo (legato all’aumento della produttività e al passaggio di forza lavoro dal settore agricolo a quello industriale), loro attuale obbiettivo, anche a causa dell’aumento dei salari, è di formare uno strato di classe media che già nel 2012 contava circa 200 milioni di unità, con reddito e capacità di consumo tali da costituire un mercato per merci più costose e sofisticate e per capitali tecnologicamente più avanzati (10) – obiettivo questo più difficile da raggiungere, richiedendo continui aumenti di produttività, possibili solo a pochi paesi dell’area, e soprattutto a quelli che, attraverso agevolazioni fiscali e afflusso di capitali esteri, riescono ad ammodernare continuamente le loro strutture tecnologiche e ad accrescere il flusso delle esportazioni.

Mentre va notato un aumento generalizzato degli IDE in entrata e uscita tra gli stessi stati membri dell’ASEAN e tra i paesi emergenti in generale, a livello mondiale nel 2013, va registrato invece un crollo degli IDE globali del 16%, fino ad arrivare a 1.230 MLD rispetto ai 2.000 MLD del 2007, secondo il rapporto mondiale sugli investimenti (11). Lo stesso rapporto afferma che questo crollo può essere spiegato “con la fragilità dell’economia globale, l’incertezza delle politiche per gli investitori e i notevoli rischi geopolitici”. Nuovi investimenti sono stati controbilanciati da alcuni grandi disinvestimenti. Soprattutto per l’UE va registrata una consistente diminuizione degli IDE in entrata e uscita di ben il 75% nel 2012-2013 rispetto al 2007. Per gli USA, gli IDE in entrata sono diminuiti del 25% nel 2013 rispetto al 2008, quelli in uscita del 17%. Situazione ben divesa per la Cina, dove nello stesso periodo i flussi IDE in entrata sono aumentati del 50%, mentre quelli in uscita sono aumentati del 25%. Il rapporto rivela che in assoluto la Cina è divenuta il principale destinatario degli IDE nel 2014, seguita da Hong Kong (Cina) e dagli USA. Riguardo ai paesi emergenti o in via di sviluppo, è da notare che ormai essi attraggono oltre il 60% degli IDE sia in entrata che in uscita, per un valore di 681 MLD. Tra i 20 paesi al mondo con i maggiori IDE in entrata, circa la metà riguarda paesi emergenti. Gli stessi paesi hanno notevolmente guadagnato anche flussi di IDE in uscita, raggiungendo nel 2013 il 39% della quota globale contro il 12% degli anni 2000. Nel 2014, nove dei venti principali paesi investitori erano “economie in via di sviluppo o economie di transizione”, come le definisce lo stesso rapporto (Cile, Cina, Hong Kong, Taiwan, Kuwait, Malaysia, Repubblica di Corea, Federazione russa e Singapore). Questo trend è dovuto alle multinazionali di questi paesi che si espandono sempre più all’estero ad alti livelli e che effettuano sempre più acquisizioni di filiali straniere delle multinazionali dei paesi avanzati, localizzate nelle stesse aree emergenti.

In definitiva, dinanzi alla consistente caduta degli IDE a livello mondiale, dovuta a quella notevole dell’UE e a quella più limitata degli USA, si è assistito negli ultimi anni a una forte crescita degli IDE della Cina e a un notevole contributo di alcuni dei paesi emergenti e in via di sviluppo. La cosiddetta globalizzazione ha così fatto nuovi passi avanti, determinando un più alto livello di integrazione tra paesi e aree geografiche, ma non ha potuto impedire la perdita di competitività e produttività tra le vecchie aree e potenze, dovuta alla caduta tendenziale del saggio medio di profitto. I livelli di IDE a livello mondiale hanno così potuto tenere ancora il passo solo grazie al contributo dei paesi ad alti tassi di crescita e ai bassi livelli dei salari, soprattutto della Cina ma anche delle economie in via di sviluppo, tra cui alcuni dei paesi del Sud Est asiatico. Gli investimenti di capitali, un tempo appannaggio delle sole grandi potenze, almeno da qualche decennio fanno riferimento, dunque, per una quota sempre crescente, alla Cina e ai paesi in via di sviluppo od emergenti. Per il capitalismo mondiale, ciò rappresenta certamente una boccata d’ossigeno (almeno fino a quando “tiene” l’economia cinese, alla quale sempre più appare legata la sua sorte!), ma anche uno sforzo estremo per superare lo stato di agonia in cui si trova. Per la lotta del proletariato contro il capitalismo mondiale, importanti reparti si vanno formando in altre aree, in seguito allo sradicamento dei vecchi sistemi di produzione e a causa del super-sfruttamento cui sono sottoposti.

 

NOTE

(10) “Il Vietnam e la Cina”, Limes, n. 8/2015, pag.70.

(11) World Investment Report (Rapporto mondiale sugli investimenti 2015), UNCTAD

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

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