I termini della rivendicazione socialista 

 

(dal nostro testo “Proprietà e capitale”, uscito fra il giugno-luglio 1948 e il febbraio 1950 su quella che era allora la nostra rivista teorica “Prometeo”, riproduciamo il Capitolo III della Parte Prima)

La lotta della classe dei salariati contro la borghesia capitalista ha per obiettivo, conservando la divisione tecnica del lavoro e la concentrazione di forze produttive arrecate dal capitalismo, di abolire insieme all'appropriazione padronale dei prodotti e alla proprietà privata sui mezzi di produzione e di scambio, il sistema di produzione per intraprese e quello di distribuzione mercantile e monetaria, poiché solo sopprimendo tali forme può cessare il sistema di sfruttamento e di oppressione costituito dal salariato.

 

Prima di addentrarci nel tema di questa ricerca, che riguarda gli istituti giuridici della proprietà che accompagnano l'economia capitalistica nel suo corso storico, è tuttavia necessario ricordare ancora quali sono sempre stati i veri termini della grande rivendicazione socialista.

Questa consiste storicamente, lasciando da parte gli accenni letterari e filosofici di comunismo sui beni che si ebbero in regimi preborghesi fin dalla antichità e che anche si riconnettevano a speciali riflessi dei rivolgimenti di classe, nel movimento che investe fin dal suo sorgere i cardini sociali del regime e del sistema capitalistico. Movimento di critica e di combattimento la cui forma completa non è separabile dall'effettivo intervento nelle lotte sociali della classe operaia salariata e dalla sua organizzazione in partito di classe internazionale facente propria la dottrina del Manifesto del partito comunista e di Marx.

La rivendicazione socialista, milioni di volte enunciata nelle pagine di volumi di teoria o nelle modeste parole di discorsi e giornaletti di propaganda, non può essere viva e reale se non si applica il metodo dialettico del marxismo, al tempo stesso nella sua semplice immediatezza e nella possente sua profondità.

Non basta il grido di protesta contro le assurdità, le ingiustizie, le disuguaglianze, le infamie di cui il regime capitalistico borghese è materiato, a costruire la rivendicazione socialista proletaria. E in tal senso insufficienti furono le innumeri posizioni pseudo-socialiste o semi-socialiste di filantropi umanitari, di utopisti, di libertari, di apostoli più o meno eccitati da nuove etiche e mistiche sociali.

Il grido del proletariato e del marxismo al regime borghese non è un «Vade retro, Satana!» È al tempo stesso un benvenuto e in data epoca storica un’offerta di alleanza, e una dichiarazione di guerra e un annunzio di distruzione. Posizione incomprensibile a tutti quelli che fondano la spiegazione della storia e delle sue lotte su credenze religiose e su sistemi morali, come in genere su metodi non scientifici e anche inconsciamente metafisici, cercando in ogni vicenda e in ogni stadio della storia della società umana il gioco di criteri fissi debitamente maiuscolati, come il Bene, il Male, la Giustizia, la Violenza, la Libertà, l'Autorità...

Delle caratteristiche di organizzazione sociale che il capitalismo ha col suo avvento attuate, alcune sono acquisizioni che il socialismo proletario accetta non solo, ma senza delle quali non potrebbe esistere; altre sono forme e strutture che, dopo il loro espandersi, si prefigge di annientare.

Le sue rivendicazioni vanno quindi definite in rapporto ai vari punti nei quali abbiamo riordinato gli elementi tipici, i caratteri distintivi del capitalismo al momento della sua vittoria. Questa è una rivoluzione, ed è una prima premessa storica generale all'avvento del regime per cui i socialisti lotteranno. La quasi immediata presa di posizione anticapitalista, per quanto radicale e cruda, non ha il carattere di una restaurazione, apologetica di condizioni e forme precapitalistiche generali.

Occorre oggi ristabilire chiaramente tutto questo; sebbene sia più di un secolo che i reiterati sforzi della nostra scuola tendano allo stesso fine, in quanto ad ogni passo della storia della lotta di classe pericolose deviazioni hanno dato luogo a movimenti e a dottrine che falsificavano importantissime posizioni del socialismo rivoluzionario.

Nel capitolo precedente [“La rivoluzione borghese”], abbiamo dapprima richiamate le note caratteristiche tecnico-organizzative della produzione capitalistica contrapposta a quella artigiana e feudale. Nel loro complesso, tali caratteristiche sono conservate e integralmente rivendicate dal movimento socialista. La collaborazione di numerosi operai nella produzione di uno stesso tipo di oggetto, la successiva divisione del lavoro, ossia lo smistamento dei lavoratori tra diverse e successive fasi della manipolazione che conduce a rendere finito uno stesso prodotto, l'introduzione nella tecnica produttiva di tutte le risorse della scienza applicata con le macchine motrici e operatrici, sono apporti dell'epoca capitalistica ai quali non si propone certo di rinunziare e che saranno anzi la base della nuova organizzazione socialista. Non meno importante e irrevocabile acquisizione è lo svincolo dei processi tecnici dal mistero, dal segreto e dalle esclusività corporative, base sicura, nella visione determinista, del difficile sviluppo della scienza dalle pastoie antiche di stregonerie, religioni, filosofismi. Resta sempre fondamentale la dimostrazione che la borghesia ha attuato questi apporti con metodi sopraffattori e barbari e precipitando le masse produttrici nella miseria e nella schiavitù del salariato. Ma non si propone certo con questo il ritorno alla libera produzione dell'artigiano autonomo.

Nel momento in cui questo, e anche il piccolo contadino, veniva spogliato di ogni possesso e ridotto a operaio salariato, si aveva il suo immiserimento e si superavano le sue resistenze con la violenza. Ma i nuovi criteri di organizzazione dello sforzo produttivo permettevano di esaltarne il risultato e il rendimento nel senso sociale. Malgrado i prelievi del padrone industriale, alla scala generale le masse venivano messe in grado di soddisfare con lo stesso tempo di lavoro nuovi e più svariati bisogni. Prima ancora di considerare gli enormi vantaggi nella resa produttiva a cui condussero la divisione del lavoro e il macchinismo, noi riteniamo un vantaggio definitivo e da cui non si postula di recedere la semplice economia di trasporti, di operazioni commerciali e di gestione a cui conduce la manifattura rispetto alle semplici botteghe. Ogni artigiano era il contabile, il cassiere, il piazzista, il commesso di sé medesimo, con enorme sciupio di tempo di lavoro, mentre nel grande opificio un solo impiegato fa questo stesso servizio ogni cento operai. Ogni proposta di nuovo sminuzzamento delle forze produttive concentrate dal capitale è per i socialisti reazionaria. E parliamo di forze produttive non solo a proposito degli uomini addetti al lavoro di cui ora si è discorso, ma naturalmente delle masse di materie da lavorare e lavorate, degli strumenti del lavoro, e di tutti i complessi impianti moderni utili alla produzione in massa e in serie.

Non sembri una digressione il rilevare che l'accettazione nella rivendicazione socialista del progressivo concentrarsi degli impianti e delle sedi di lavoro come contrapposto alla economia a piccole aziende non significa affatto accettazione di quella conseguenza del sistema capitalistico che consiste nella accelerata industrializzazione tecnica di date zone, lasciandone altre in condizioni retrograde, e ciò tanto come rapporto di paese a paese che come rapporto di città a campagna. Tale rapporto sussiste storicamente finché il regime borghese non ha esaurita la sua fase di spoliazione e di riduzione a salariati nullatenenti dei vecchi ceti produttivi. La rivendicazione socialista dialetticamente non può non far leva sulla funzione rivoluzionaria dirigente degli operai che il capitalismo ha urbanizzato in masse imponenti, ma tende alla diffusione in tutti i territori delle moderne risorse tecniche e della moderna vita più ricca di manifestazioni, come enunciato fin dal Manifesto del Partito Comunista, punto 9 del programma immediato: “misure atte ad eliminare gradualmente l’antagonismo tra città e campagna” – senza contrasto con tutte le altre misure di carattere nettamente accentratore nel senso organizzativo.

Lo stesso criterio guida la presa di posizione socialista a proposito dei rapporti tra metropoli e colonie, che si vogliono sottrarre allo sfruttamento delle prime, senza dimenticare che solo il capitalismo e i suoi sviluppi potevano accelerare di secoli e secoli questo risultato, pur avendo in questo campo superato tutti i limiti nell'impiego dei metodi spietati di conquista.

Ereditato dunque dalla rivoluzione capitalista l'enorme sviluppo delle forze della produzione, i socialisti si propongono di sconvolgere il corrispondente apparato di forme, di rapporti di produzione, che si riflette negli istituti giuridici, e ciò dopo aver accettato che i proletari, il quarto stato, combattessero in alleanza della borghesia quando questa infranse le forme e gli istituti del regime precedente, per fondare e consolidare i suoi propri, e per estenderli nel mondo progredito ed arretrato. Ma in quale preciso senso la nostra rivendicazione storica comporta l'abbattimento e il superamento di quelle forme?

La rivoluzione produttiva capitalistica ha separato violentemente i lavoratori dal loro prodotto, dal loro arnese di lavoro, da tutti i mezzi della produzione, nel senso che ha soppresso il loro diritto di disporne direttamente, individualmente. Il socialismo condanna questa spoliazione, ma non postula certo di restituire a ogni artefice il suo arnese e l'oggetto di consumo che con questo ha manipolato, perché vada sul mercato a scambiarlo con le sue sussistenze. In un certo senso, la separazione brutalmente attuata dal capitalismo è storicamente definitiva. Ma nella nostra prospettiva dialettica tale separazione sarà superata su un piano più lontano e più ampio. L'arnese e il prodotto stavano a disposizione individuale dell'artefice libero e autonomo; sono passati a disposizione del padrone capitalista. Dovranno tornare a disposizione della classe dei produttori. Sarà una disposizione sociale, non individuale, e nemmeno corporativa. Non sarà più una forma di proprietà, ma di organizzazione tecnica generale, e se volessimo fin da ora affinare la formula anticipando sul procedimento dovremmo parlare di disposizione da parte della società e non di una classe, poiché tale organizzazione tende a un tipo di società senza classi.

Comunque, senza per ora parlare di disposizione e di «proprietà» da parte dell'individuo sull'oggetto che sta per consumare, non possiamo includere nella rivendicazione socialista l'arbitrio personale del lavoratore sull'oggetto che ha manipolato.

Se l'operaio di una fabbrica di scarpe in regime borghese porta via una scarpa, non eviterà la galera dimostrando che corrispondeva bene alla misura del suo piede, e tanto peggio se intendeva invece venderla per averne poniamo del pane. Il socialismo non consisterà nel consentire che il lavoratore esca con un paio di scarpe a tracolla, ma ciò non perché siano state rubate al padrone, bensì perché costituirebbe un sistema ridicolmente lento e pesante di distribuzione delle scarpe a tutti. E prima di vedere in questo un problema di diritto o di morale vi si veda un problema concretamente tecnico per cui basterà pensare agli addetti a una fabbrica di ruote ferroviarie, o, per venire con esempi ovvi ancora più avanti nel sottolineare le rivoluzioni a cui conduce l'innovarsi della tecnica e della vita, a chi lavori in una centrale elettrica o in una stazione radiotrasmittente, e non ha motivo, come in cento altri casi, di essere perquisito all'uscita.

Ora la questione del diritto di proprietà sul prodotto completo o anche semilavorato è in realtà quella cruciale, ed è molto più importante della proprietà dello strumento di produzione, sulla fabbrica, officina o impianto che sia.

La vera caratteristica del capitalismo è l'attribuzione a un padrone privato dei prodotti e della conseguente facoltà di venderli sul mercato. In generale, all'inizio dell'epoca borghese, questa attribuzione deriva da quella dell'opificio, della fabbrica, dello stabilimento a un titolare privato, il capitalista industriale, in una forma trattata giuridicamente come quella che attribuisce la proprietà del suolo agrario o delle case.

Ma tale proprietà privata individuale è un fatto statico, formale, è la maschera del vero rapporto che ci interessa, che è dinamico e dialettico, e consiste nei caratteri del movimento produttivo, nell'innestarsi degli incessanti cicli economici.

Quindi la rivendicazione socialista, mentre doveva accettare la sostituzione del lavoro associato a quello individuale, propose di sopprimere la attribuzione in possesso privato dei prodotti del lavoro collettivo a un proprietario unico, capo dell'azienda, libero di smerciarli a suo beneplacito. Logicamente, espresse tale postulato relativo a tutta la dinamica economica come abolizione del libero diritto privato dell'industriale sull'impianto produttivo.

Tale formulazione è però incompleta, anche sul piano a cui in questo paragrafo ci atteniamo, ossia del contenuto negativo e distruttivo della posizione economica socialista, non trattandosi ancora del tipo di organizzazione produttiva e distributiva del regime socialistico, e della via da percorrere per arrivarvi, nel campo delle misure economiche e della lotta politica.

La formulazione è incompleta in quanto non dice che cosa si chiede che avvenga delle altre forme proprie dell'economia capitalistica, dopo aver chiarito che si vuole superare quella della attribuzione di tutti i prodotti manipolati in una azienda complessa a un padrone solo di quelli e di questa.

Infatti, l'economia capitalistica si rese possibile in quanto la separazione dei lavoratori dai mezzi e dai prodotti trovò una macchina distributiva mercantile già in atto, sicché il capitalista poté recare i prodotti al mercato e creare il sistema del salario, dando agli operai una parte del ricavato perché si procurassero su quello stesso mercato le sussistenze. L'artigiano [andava al] mercato come venditore e compratore, il salariato lo può [fare] solo come compratore, e con mezzi limitati dalla legge della plusvalenza.

La rivendicazione socialista consiste classicamente nell'abolire il salariato. Solo l'abolizione del salariato comporta l'abolizione del capitalismo. Ma non potendo abolire il salariato nel senso di ridare al lavoratore l'assurda retrograda figura di venditore del suo prodotto al mercato, il socialismo rivendica fin dai primi tempi l’abolizione dell’economia di mercato.

L'inquadratura mercantile della distribuzione ha preceduto come già abbiamo ricordato il capitalismo ed ha compreso tutte le precedenti economie differenziate, risalendo fino a quella in cui vi era mercato di persone umane (schiavismo).

Economia mercantile moderna vuol dire economia monetaria. Quindi la rivendicazione anti-mercantile del socialismo comporta parimenti l’abolizione della moneta come mezzo di scambio oltre che come mezzo di formazione pratica dei capitali.

In ambiente di distribuzione mercantile e monetaria il capitalismo tende inevitabilmente a risorgere. Se questo non fosse vero converrebbe stracciare tutte le pagine del Capitale di Marx.

La enunciazione anti-mercantilistica sta in tutti i testi del marxismo e specialmente nelle polemiche di Marx contro Proudhon e tutte le forme di socialismo piccolo-borghese. È merito del programma comunista redatto, sia pure in testo assai prolisso, da Bucharin di aver rimesso in piena luce questo vitalissimo punto 1.

Ma alla fine del precedente paragrafo abbiamo allineato un terzo punto distintivo del capitalismo rispetto ai regimi che vinse: la decurtazione del prodotto dello sforzo di lavoro degli operai di una forte quota volta al profitto padronale, e soprattutto la destinazione di una parte importante di questa quota alla accumulazione di nuovo capitale.

È ovvio che la rivendicazione socialista, se voleva togliere al padrone borghese il diritto di disporre del prodotto e di recarlo al mercato, gli toglieva il diritto sulla proprietà della fabbrica, e gli toglieva al tempo stesso anche la disponibilità della plusvalenza e del profitto. Proclamò oltre un secolo fa che si poteva abolire il salariato, e questo volle dire superare il tipo di economia di mercato finora conosciuto. Distruggendo il mercato dei prodotti su cui arrivava timido il piccolo artigiano medioevale con pochi articoli manufatti, e sul quale i prodotti del lavoro associato moderno arrivano col carattere capitalistico di merci, è non meno chiaro che si distrugge anche il mercato degli strumenti di produzione e il mercato dei capitali, quindi la accumulazione del capitale.

Ma tutto questo non basta ancora.

Abbiamo già detto che nel processo della accumulazione vi è un lato sociale. Abbiamo ricordato che nella propaganda sentimentale – e chi di noi socialisti non ne ha abusato? – ponevamo avanti la nequizia, di fronte a un’astratta giustizia distributiva, del prelievo di plusvalenza che andava a consumo del capitalista o della sua famiglia, per vivere di ben altro tenore di vita che quello dei lavoratori. Abolizione del profitto, gridammo quindi, ed era giustissimo. Tanto giusto quanto poco.

Gli economisti borghesi da cento anni ci rifanno il conto che, tutto il reddito nazionale di un paese diviso per il numero dei cittadini dà di che vivere appena appena più su dell'umile operaio. Il conto è esatto ma la confutazione è vecchia quanto il sistema socialista, anche se non si troverà mai un Pareto o un Einaudi capace di capirla.

I vari accantonamenti che il capitalista compie prima di prelevare il suo ultimo utile con cui si spassa sono per una parte razionali e a fini sociali. Anche in una economia collettiva si dovranno accantonare prodotti e strumenti in quote, atte a conservare e far progredire l'organizzazione generale. In un certo senso, si avrà un’accumulazione sociale.

Diremo dunque noi socialisti che vogliamo sostituire la accumulazione sociale a quella personale privata? Non ci saremmo ancora. Se il consumo da parte del capitalista di una quota di plusvalenza è un fatto privato, che chiediamo sia abolito, ma è tuttavia di poco peso quantitativo, la accumulazione anche capitalistica è già un fatto sociale, e un fattore tendenzialmente utile a tutti sul piano sociale.

Vecchie economie che tesaurizzavano soltanto sono rimaste immobili per millenni interi, la economia capitalistica che accumula ha in pochi decenni centuplicato le forze produttive, lavorando per la nostra rivoluzione.

Ma l'anarchia che Marx imputa al regime capitalistico risiede nel fatto che il capitalista accumula per aziende, per intraprese, le quali si muovono e vivono in un ambiente mercantile.

Questo sistema, e vedremo meglio questa non facile ma centrale tesi tecnico-economico in qualche esempio del seguito, questo sistema non si sforza che di ordinarsi in funzione del massimo profitto della azienda, che molte volte si attua sottraendo profitti ad altre aziende.

In partenza, e qui gli economisti classici della scuola borghese avevano ragione, la superiorità della grande azienda organizzata sulla superanarchia della piccola produzione conduceva ad un tanto maggiore rendimento che, oltre al profitto del capitalista singolo e ad un ottimo accantonamento per nuovi impianti e nuovi progressi, l'operaio della industria evoluta poneva sul suo desco piatti ignoti al piccolo artigiano.

Ma correndo ogni azienda, chiusa in sé e con la sua contabilità di versamenti e ricevimenti dal mercato, al massimo del suo profitto, nel corso dello sviluppo i problemi di rendimento generale del lavoro umano sono risolti male e addirittura al rovescio.

Il sistema capitalistico impedisce di porre il problema di rendere massimo non il profitto ma il prodotto a parità di sforzo e di tempo di lavoro, in modo che prelevate le quote di accumulazione sociale, si possa esaltare il consumo e deprimere il lavoro, lo sforzo di lavoro, l'obbligo di lavoro. Preoccupato solo di realizzare la vendibilità del prodotto aziendale ad alto prezzo e pagare poco i prodotti delle altre aziende, il sistema capitalistico non può giungere verso l'adeguamento generale della produzione al consumo e precipita nelle successive crisi.

Quindi la rivendicazione socialista si propone di abbattere non solo il diritto e la economia della proprietà privata, ma al tempo stesso la economia di mercato e la economia di intrapresa.

Solo quando si andrà nel senso che conduce a superare tutte e tre queste forme della economia presente: proprietà privata sui prodotti, mercato monetario, e organizzazione della produzione per aziende, si potrà dire di andare verso la organizzazione socialista.

Si tratta nel seguito di vedere come sopprimendone un solo termine la rivendicazione socialista decade. Il criterio dell'economia privata individuale e personale può essere largamente superato anche in pieno capitalismo. Noi combattiamo il capitalismo come classe e non solo i capitalisti come singoli. Vi è capitalismo sempre che i prodotti sono recati al mercato o comunque «contabilizzati» all'attivo della azienda, intesa come isola economica distinta, sia pure molto grande, mentre sono portate al passivo le retribuzioni del lavoro.

L'economia borghese è economia in partita doppia. L'individuo borghese non è un uomo, è una ditta. Vogliamo distruggere ogni ditta. Vogliamo sopprimere l'economia in partita doppia, fondare l'economia in partita semplice, che la storia conosce già da quando il troglodita usci per cogliere tante noci di cocco quanti erano i suoi compagni nella caverna, e uscì recando le sole sue mani.

Tutto questo lo sapevamo già nel 1848, il che non ci impedisce di seguitarlo dire con giovanile ardore.

Vedremo che per cento anni sono successe molte cose nel gioco dei rapporti che abbiamo considerati, tutte cose che ci hanno resi ancora più duri nel sostenere le stesse tesi.

Dopo avere avvertito il lettore che anche il pronome generale diviene nel sistema socialista un pronome sociale.

1 Si allude al Programma preparato da Bucharin e discusso all’VIII Congresso del PCR(b).   

 

Partito comunista internazionale

                                                                           (il programma comunista)

 

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